Contact Carl Sagan Ellie è il direttore del «Progetto Argus,» nel quale i segnali provenienti dallo spazio e captati da radiotelescopi nel Nuovo Messico sono analizzati intensivamente per cercare l’intelligenza extraterrestre (SETI). Dopo un po’, il progetto scopre, effettivamente, la prima comunicazione confermata da esseri extraterrestri, una serie ripetitiva dei numeri primi sino al 261 (una sequenza di numeri primi è un primo messaggio comunemente previsto da intelligenza aliena, poiché la matematica è considerata «un linguaggio universale», ed è congetturato che le procedure che producono i numeri primi successivi sono sufficientemente complicate da richiedere intelligenza per effettuarli). Un’ulteriore analisi del messaggio rivela che due messaggi supplementari sono codificati all’interno di esso in forme differenti di modulazione del segnale. Il secondo messaggio è un abecedario, una specie di manuale d’istruzioni che insegna come leggere ulteriori comunicazioni. Il terzo è il messaggio vero e proprio, i progetti per una macchina che sembra essere un genere di veicolo altamente avanzato, destinata ad ospitare un equipaggio umano. Una sottotrama vede Ellie interagire con una coppia di predicatori cristiani, che dibatte in maniera informale l’esistenza di Dio. Applicando il metodo scientifico, dichiara che «non esiste una prova schiacciante che Dio esista… e non esiste una prova schiacciante che Dio non esista.» Infine, una macchina è costruita con successo ed attivata, e trasporta cinque passeggeri — compresa Ellie — attraverso i buchi neri in un luogo vicino al centro della Via Lattea, dove vengono a contatto con i mittenti del messaggio. Molte delle domande dei viaggiatori trovano risposta. Al ritorno, i passeggeri scoprono che la loro esperienza che soggettivamente per loro era durata molte ore, sulla Terra era durata solo circa venti minuti, e che tutta la loro registrazione video è stata cancellata, presumibilmente da un certo fenomeno nel veicolo. Rimangono pertanto privi di prove del loro racconto. Carl Sagan Contact      Per Alexandra, che sarà maggiorenne all’alba del nuovo millennio. Con l’augurio di poter lasciare alla sua generazione un mondo migliore di quello che abbiamo trovato noi. traduzione di Fabrizio Ascari Titolo originale dell’opera: CONTACT PRIMA PARTE IL MESSAGGIO «Il mio cuore trema come una povera foglia. I pianeti turbinano nei miei sogni. Le stelle si affollano alla mia finestra. Volteggio nel sonno. Il mio letto è un caldo pianeta.»      MARVIN MERCER, PS. 153 Fifth Grade Harlem New York City, N.Y. (1981) 1 NUMERI TRASCENDENTI «Piccola farfalla, i tuoi giochi d’estate la mia disattenta mano ha cancellato. Non sono io una farfalla come te? Né sei tu un uomo come me? Giacché io danzo e bevo e canto, finché una cieca mano cancellerà il mio volare.»      WILLIAM BLAKE, Canti dell’esperienza, «La farfalla», stanze 1–3 (1795) Secondo il punto di vista umano, non poteva assolutamente trattarsi di qualcosa di artificiale, visto che aveva le dimensioni dì un mondo. Ma era conformato in maniera così strana e complicata, progettato in maniera così palese per un fine complesso che avrebbe potuto essere soltanto l’espressione di un’idea. Percorrendo un’orbita polare attorno alla grande stella azzurrina, somigliava a un immenso, imperfetto poliedro, incrostato di milioni di antenne paraboliche. Ogni paraboloide era puntato in direzione di un particolare settore del cielo. Veniva tenuta sotto controllo ogni costellazione. Il mondo poliedriforme stava compiendo la sua enigmatica funzione da eoni. Era assai paziente. Poteva permettersi di attendere per l’eternità. Quando la tirarono fuori, non piangeva affatto. La sua minuscola fronte era corrugata, e poi i suoi occhi si spalancarono. Guardò le luci vivide, le figure vestite di bianco e di verde, la donna sdraiata sul tavolo ginecologico sotto di lei. Venne avvolta da suoni in certo modo familiari. Sul suo faccino era apparsa un’espressione bizzarra per una neonata, di perplessità forse. Quando aveva due anni, era solita alzare le manine sul capo e dire con grande dolcezza: «Papa, su.» Gli amici di suo padre manifestarono sorpresa. La piccola era educata. «Non si tratta di educazione,» suo padre disse loro. «Aveva l’abitudine di strillare quando voleva essere presa su. Così una volta le ho detto: ‘Ellie, non hai bisogno di urlare; è sufficiente che tu dica: Paparino, su’. I bambini sono svegli. Non è vero, tesoro?» Così adesso se ne stava lassù perfettamente a proprio agio, a un’altezza vertiginosa, appollaiata sulle spalle del padre, aggrappandosi ai suoi capelli che andavano diradandosi. La vita era migliore lassù, molto più sicura del vagare incerto tra una foresta di gambe. Qualcuno laggiù poteva finire col calpestarvi. Ci si poteva perdere. Aumentava la presa. Lasciando le scimmie, voltarono un angolo e si imbatterono in un animale pezzato dalle zampe sottili, dal lungo collo, con corte corna sulla testa, che torreggiava su di loro. «I loro colli sono così lunghi che non riescono a emettere suoni,» suo padre disse. Lei provò compassione per quella povera creatura condannata al silenzio, ma nello stesso tempo fu contenta che esistesse e si compiacque che simili meraviglie potessero esser presenti sulla terra. «Avanti, Ellie,» la esortava dolcemente la madre. C’era una cadenza nella voce familiare. «Leggi.» La sorella di sua madre non aveva creduto che Ellie, all’età di tre anni, fosse in grado di leggere. La zia era convinta che le favole fossero state imparate a memoria. Adesso stavano percorrendo State Street in una frizzante giornata di marzo e si erano fermati davanti a una vetrina in cui una pietra color rosso borgogna scintillava alla luce del sole. «Gioielliere», Ellie lesse lentamente, scandendo le sillabe. Con aria colpevole si infilò nello sgabuzzino. La vecchia radio Motorola si trovava sulla mensola proprio come ricordava. Era molto grande e pesante e, mentre se la stringeva al petto, se la fece quasi cader di mano. Sul retro spiccavano le parole: «Pericolo. Non rimuovere». Ma sapeva che se la spina non fosse stata inserita nella presa non ci sarebbe stato alcun rischio. Con la lingua tra le labbra, rimosse le viti e mise allo scoperto l’interno dell’apparecchio. Come aveva sospettato, non c’erano orchestre di lillipuziani e annunciatori in miniatura che vi consumassero quietamente la loro piccola esistenza in attesa del momento in cui la levetta dell’interruttore sarebbe stata abbassata per dare il via alle trasmissioni. Invece, vi si trovavano dei bei tubi di vetro, che richiamavano un po’ alla mente le lampadine. Alcuni somigliavano alle cupole delle chiese moscovite che aveva visto riprodotte in un libro. I rebbi alle loro basi erano perfettamente progettati per i ricettacoli che li accoglievano. Con il pannello posteriore staccato e l’interruttore abbassato, collegò l’apparecchio a una presa che si trovava sulla parete vicina. Se non l’avesse toccato, se non le fosse andata vicino, come avrebbe potuto farle del male? Dopo qualche momento, le valvole cominciarono a divenire i incandescenti, ma non si udì alcun suono. La radio era «rotta», ed era stata messa da parte alcuni anni prima per essere sostituita da un modello più moderno. Una valvola non si accendeva. Staccò la spina ed esaminò attentamente il tubo che non voleva funzionare togliendolo dal suo ricettacolo. C’era un pezzette di metallo quadrato all’interno, attaccato a fili sottili. L’elettricità i passa lungo i fili, pensò vagamente. Ma prima deve entrare nella valvola. Uno dei rebbi sembrava storto, e lei riuscì a raddrizzarlo dopo aver armeggiato un po’. Reinserendo la valvola e collegando nuovamente l’apparecchio, fu felicissima di vedere che essa cominciava a risplendere, e fu travolta da un’ondata di scariche statiche. Lanciando sguardi inquieti alla porta chiusa, ebbe i un trasalimento e abbassò il volume. Girò il potenziometro contrassegnato dalla parola «frequenza» e per caso captò una voce che riferiva con eccitazione, per quanto riusciva a capire, di una macchina russa che era in cielo e girava attorno alla Terra senza fine. Senza fine, pensava. Girò di nuovo il potenziometro, alla ricerca di altre stazioni. Dopo un po’, temendo di essere scoperta, disattivò l’apparecchio, avvitò alla buona il pannello posteriore, e i con ancor maggior difficoltà sollevò la radio e la ricollocò sulla sua mensola. Mentre lasciava lo stanzino, con il fiato un po’ corto, si scontrò con la madre e sobbalzò ancora una volta. «E’ tutto a posto, Ellie?» «Sì, mammina.» Ostentava un’aria indifferente, ma aveva il cuore in tumulto e le palme sudaticce. Andò a sedersi nell’angolo preferito del piccolo cortile dietro casa e, con le ginocchia sotto il mento, si mise a pensare all’interno della radio. Tutte quelle valvole erano davvero necessarie? Che cosa sarebbe accaduto se fossero state rimosse una alla volta? Suo padre un giorno le aveva chiamate valvole a vuoto. Che cosa accadeva all’interno di una valvola a vuoto? Non c’era veramente aria là dentro? Come arrivavano nella radio la musica delle orchestre e le voci degli annunciatori? Avevano l’abitudine di dire: «Siamo in onda.» Le trasmissioni radio venivano trasportate da un’onda? Che accade dentro l’apparecchio radio quando si cambia stazione? Che cos’era la «frequenza»? Perché si deve inserire la spina in una presa di corrente per farlo funzionare? Si può tracciare una specie di schema che illustri come l’elettricità circoli per la radio? La si può smontare senza farsi male? Se ne possono rimettere insieme i pezzi? «Ellie, che cosa stai facendo?» chiese sua madre passandole accanto con il bucato da stendere. «Niente, mammina. Sto solo pensando.» Quando aveva dieci anni, durante le vacanze estive, la portarono da due cugini che detestava in un modesto villaggio sulla riva di un laghetto nella penisola settentrionale del Michigan. Perché delle persone che vivevano su un lago del Wisconsin dovessero impiegare cinque ore filate d’auto per recarsi a un lago del Michigan le appariva incomprensibile. Specialmente per vedere due ragazzini insignificanti e infantili, che avevano soltanto dieci e undici anni. Dei veri cretini. Come poteva pretendere suo padre, così sensibile nei suoi confronti sotto altri aspetti, che lei giocasse ogni giorno con due nullità? Trascorse l’estate evitandoli. In un’afosa notte senza luna, dopo cena, scese da sola al pontile di legno. Un motoscafo era appena passato e la barca a remi di suo zio ormeggiata all’imbarcadero oscillava dolcemente nell’acqua illuminata dalle stelle. A parte le cicale che frinivano in lontananza e un grido quasi subliminale che echeggiava sull’altra riva del lago, tutto era perfettamente tranquillo. Alzò gli occhi al cielo costellato di puntini scintillanti e sentì il suo cuore battere in fretta. Senza abbassare lo sguardo, soltanto affidandosi alla sua mano distesa, trovò un punto in cui l’erba era particolarmente soffice e vi si sdraiò. Il cielo sfavillava di stelle. Ce n’erano a migliaia, in massima parte lampeggianti; solo alcune possedevano una luce intensa e costante. Se si guardava con attenzione si potevano vedere leggere differenze di colore. Quella splendente lassù non era bluastra? Cercò di nuovo a tastoni il terreno sotto di sé; era solido, fermo… rassicurante. Con circospezione si tirò su e guardò a sinistra e a destra, fissando la lunga distesa del lago, di cui poteva vedere entrambe le rive. Il mondo sembra piatto, pensò tra sé, ma in realtà è rotondo. E’ una grande palla… che gira su se stessa in mezzo al cielo… una volta al giorno. Cercò di immaginarsela nel suo movimento rotatorio, con milioni di persone incollate alla sua superficie, che parlano differenti linguaggi, che indossano buffi abiti, tutte inchiodate alla stessa palla. Si allungò di nuovo e tentò di percepirne la rotazione. Forse poteva sentirla un pochino. Dall’altra parte del lago una stella splendente occhieggiava tra i rami più alti. Se si tenevano gli occhi socchiusi si potevano far danzare i raggi di luce emanati dall’astro. Abbassando un po’ di più le palpebre, i raggi mutavano docilmente la loro lunghezza e forma. Era soltanto nella sua immaginazione, o… la stella si trovava in quel momento decisamente al di sopra degli alberi. Appena pochi minuti prima stava facendo capolino tra le fronde. Ora si era portata più in alto, non c’era nessun dubbio in proposito. Ecco che cosa si intendeva quando si diceva che una stella stava sorgendo, pensò. La Terra stava girando in senso opposto. A una estremità del cielo le stelle si stavano alzando. Quella direzione veniva chiamata Est. All’altra estremità del cielo, alle sue spalle, al di là dei capanni, le stelle stavano tramontando. Quella direzione veniva chiamata Ovest. Una volta al giorno la Terra compiva un giro completo su se stessa e le stesse stelle sorgevano nuovamente nel medesimo posto. Ma se qualcosa della grandezza della Terra effettuava una rotazione completa quotidianamente, doveva muoversi in maniera inverosimilmente rapida. Tutti coloro che conosceva dovevano dunque essere trascinati nel moto rotatorio a un’incredibile velocità. In quel momento credette di poter veramente sentire la Terra girare, non solo immaginarlo nella sua testa, ma percepirlo realmente alla bocca dello stomaco. Era come scendere in un veloce ascensore. Allungò ancor di più il collo all’indietro, per sgombrare il suo campo visivo da ogni elemento terrestre, finché non riuscì a scorgere altro che cielo nero e stelle lucenti. Fu colta piacevolmente dalla sensazione vertiginosa che avrebbe fatto meglio ad afferrarsi ai ciuffi d’erba tra cui giaceva e a non lasciare la presa in alcun modo, o altrimenti sarebbe caduta giù nel cielo, e il suo corpo minuscolo sarebbe stato inghiottito dall’enorme sfera oscura. Scoppiò davvero a urlare prima di riuscire a soffocare il suo grido con il polso. Fu così che i suoi cugini furono in grado di trovarla. Scendendo a fatica lungo il pendio, scoprirono sul suo volto un misto insolito di imbarazzo e di sorpresa, che prontamente registrarono, sempre avidi di trovare qualche piccola indiscrezione da riportare e offrire ai suoi genitori. Il libro era migliore del film. In primo luogo, aveva un contenuto ben più ricco. E alcune delle figure erano molto diverse dalle immagini della pellicola. Ma in entrambi, Pinocchio, un burattino a grandezza naturale che magicamente viene fatto vivere, indossava una sorta di corpetto e sembrava che ci fossero dei perni nelle sue giunture. Quando Geppetto sta ultimando la costruzione di Pinocchio, volta le spalle alla marionetta e viene fatto subito volare da un calcio ben assestato. In quel momento, arriva l’amico del falegname e gli chiede cosa stia facendo lungo disteso sul pavimento. «Sto insegnando l’alfabeto alle formiche,» risponde con dignità Geppetto. Ciò parve a Ellie estremamente spiritoso e si divertì a raccontarlo ai suoi amici. Ma ogni volta che citava quella frase, c’era una domanda non formulata, al limite della sua coscienza: si potrebbe insegnare l’alfabeto alle formiche? E lo si vorrebbe? Giù in terra con centinaia di insetti indaffarati che potrebbero brulicarvi sulla pelle o persino pungervi? A ogni modo, che cosa potrebbero sapere le formiche? Talvolta si alzava nel cuore della notte per andare in bagno e vi trovava il padre con addosso soltanto i pantaloni del pigiama, il mento sollevato in alto mentre con una sorta di aristocratico disdegno si spalmava la crema da barba sopra il labbro superiore. «Salve, tesoro,» era soluto dire. Le piaceva che la chiamasse così. Perché si radeva di notte, quando nessuno avrebbe saputo se aveva la barba lunga? «Perché,» rispondeva con un sorriso, «tua madre se ne accorgerebbe.» Anni dopo, scoprì di aver capito solo in parte questa allegra conversazione. I suoi genitori erano stati innamorati. Dopo la scuola si era recata in bicicletta a un piccolo parco sul lago. Da una borsa tirò fuori il manuale del radioamatore e Uno Yankee del Connecticut alla corte di Re Artù. Dopo una brevissima riflessione, optò per quest’ultimo. L’eroe di Twain aveva preso un colpo in testa e si era risvegliato nell’Inghilterra di Camelot. Forse era tutto un sogno o un’allucinazione, ma forse era vero. Era possibile viaggiare a ritroso nel tempo? Con il mento sulle ginocchia, si mise a cercare un passo che le piaceva in modo particolare. Era quello in cui il protagonista di Twain viene raccolto per la prima volta da un uomo in armatura che egli scambia per un evaso da un locale manicomio. Quando raggiungono la cima della collina vedono una città che si stende davanti a loro: «‘Bridgeport?’, dissi io… ‘Camelot’, disse lui.» Fissava il lago azzurro, cercando di immaginare una città che potesse avere nello stesso tempo l’aspetto di Bridgeport nel diciannovesimo secolo e di Camelot nel sesto, quando sua madre la raggiunse trafelata. «Ti ho cercata dappertutto. Perché non sei mai dove ti posso trovare? Oh, Ellie,» sussurrò, «è accaduto qualcosa di terribile.» In settima stavano studiando il pi-greco. Era una lettera che somigliava all’architettura di Stonehenge in Inghilterra: due pilastri verticali con una lastra orizzontale in cima. Se si misurava la circonferenza di un cerchio e poi la si divideva per il diametro del cerchio, il risultato era il pi-greco. A casa, Ellie prese il coperchio di un vasetto di maionese, lo avvolse con una cordicella, ridistese la cordicella e con una riga misurò la circonferenza del cerchio. Fece lo stesso con il diametro e con una lunga operazione divise il primo numero per l’altro. Ottenne 3,21. Sembrò abbastanza semplice. L’indomani, l’insegnante, signor Weisbrod, disse che il pi-greco era approssimativamente 22:7, ossia 3,1416. Ma in realtà, se si voleva essere esatti, era un decimale che continuava all’infinito senza ripetere la sequenza di numeri. All’infinito, pensava Ellie. Alzò la mano. Era l’inizio dell’anno scolastico e lei in quella classe non aveva fatto ancora nessuna domanda. «Come fa uno a sapere che i decimali proseguono per sempre?» «Perché è così,» disse l’uomo con una certa asprezza. «Ma perché? Come lo sa? Come è possibile calcolare i decimali illimitatamente?» «Signorina Arroway,» — stava consultando il suo elenco degli alunni — «questa è una domanda sciocca. Lei sta facendo perdere del tempo alla classe.» Nessuno aveva mai dato della sciocca a Ellie e lei si ritrovò in lacrime. Billy Horstman, che le sedeva accanto, allungò con delicatezza una mano e la posò sulla sua. Suo padre di recente era stato accusato di alterare i contachilometri delle auto usate che vendeva, così Billy era sensibile alla pubblica umiliazione. Ellie corse fuori dall’aula singhiozzando. Dopo la scuola, si diresse in bicicletta alla biblioteca del vicino college per sfogliare alcuni testi di matematica. Per quanto poteva capire da ciò che lesse, la sua domanda non era poi così sciocca. Secondo la Bibbia, gli antichi Ebrei avevano apparentemente pensato che il pi-greco fosse esattamente uguale a tre. I Greci e i Romani, che possedevano moltissime nozioni di matematica, non avevano nessuna idea che le cifre nel pi-greco continuassero all’infinito senza ripetersi. Era un fatto che era stato scoperto soltanto circa duecentocinquanta anni prima. Come si poteva pretendere che lei lo sapesse, se non poteva fare delle domande? Ma il signor Weisbrod aveva avuto ragione a proposito delle primissime cifre. Pi-greco non era 3,21. Probabilmente il coperchio della maionese era stato leggermente schiacciato, non era un cerchio perfetto. O forse lei era stata distratta nel misurare la cordicella. Persino se fosse stata molto più attenta, comunque, non potevano aspettarsi che lei calcolasse un infinito numero di decimali. Tuttavia, c’era un’altra possibilità. Volendo si poteva calcolare il pi-greco abbastanza esattamente. Se si conosceva una cosa chiamata calcolo, si potevano applicare alcune formule che avrebbero consentito di determinare il pi-greco con tutti i decimali per i quali si avesse tempo. Il libro elencava formule per il pi-greco diviso per quattro, alcune delle quali le erano totalmente incomprensibili. Ma ce n’erano alcune che la sbalordivano: il pi-greco/4, il libro sosteneva, equivaleva a 1–1/3+1/5-1/7…, con le frazioni che proseguivano all’infinito. Subito tentò di verificare la cosa, sommando e sottraendo alternativamente le frazioni. Il risultato ora era superiore a pi-greco/4, ora inferiore, ma dopo un po’ si poteva vedere che tale serie di numeri si trovava sulla dirittura dell’esatta soluzione. Non ci si poteva mai arrivare esattamente, ma ci si poteva approssimare a piacere purché si fosse estremamente pazienti. Le sembrava un miracolo che la forma di ogni cerchio al mondo fosse connessa a quella serie di frazioni. Che ne sapevano i cerchi di frazioni? Era intenzionata ad apprendere il calcolo. Il libro diceva qualcos’altro: il pi-greco veniva definito un numero «trascendente». Non c’era nessuna equazione contenente numeri comuni che potesse dare il pi-greco a meno che non fosse infinitamente lunga. Aveva già studiato un po’ di algebra e capì il significato dell’affermazione. E il pi-greco non era il solo numero trascendente. Infatti c’era un’infinità di numeri trascendenti. Addirittura, c’erano infinitamente più numeri trascendenti che numeri comuni, anche se il pi-greco era l’unico di cui avesse sentito parlare. In più di una maniera, il pi-greco era legato all’infinito. Aveva intravisto qualcosa di maestoso. Celata tra tutti i numeri comuni c’era un’infinità di numeri trascendenti di cui non si sarebbe mai supposta la presenza a meno che non ci si immergesse profondamente nella matematica. Di quando in quando i uno di essi, come il pi-greco, saltava fuori inaspettatamente nella vita di ogni giorno. Ma la maggior parte di essi — una infinita quantità di essi, ricordò a se stessa — se ne stavano nascosti, badando ai fatti loro, quasi certamente mai intravisti dall’irritabile signor Weisbrod. Capì la vera natura di John Staughton fin dal principio. Come sua madre potesse anche solo pensare di sposarlo — tralasciando il fatto che suo padre era morto da appena due anni — era un mistero impenetrabile. Aveva un aspetto abbastanza piacevole e poteva dare a vedere, quando si metteva d’impegno, che si interessava veramente agli altri. Ma era un vero sergente. Durante i fine settimana, faceva venire i suoi studenti per lavori di giardinaggio nella nuova casa in cui si erano trasferiti, e poi rideva di loro dopo che se ne erano andati. Ricordò a Ellie che aveva appena iniziato la scuola superiore e perciò non doveva mettere gli occhi addosso a nessuno dei suoi brillanti giovanotti. Era gonfio di presunzione fasulla. Lei era certa che come professore lui disprezzasse in cuor suo il suo defunto padre, che era stato solamente un negoziante. Staughton aveva dichiarato apertamente che un interesse per la radiofonia e l’elettronica non si addiceva a una ragazza, che non le avrebbe certo fatto trovare un marito, che capire la fisica era per lei un ghiribizzo pazzesco e aberrante. Definiva tutto ciò «pretenzioso». Ellie non ne aveva proprio le capacità, era un fatto oggettivo al quale avrebbe dovuto adattarsi. Glielo diceva per il suo bene. Lo avrebbe ringraziato in futuro. Dopo tutto, era un professore aggiunto di fisica. Sapeva che requisiti ci volevano. Tali prediche la facevano andare sempre su tutte le furie, anche se, nonostante il rifiuto di Staughton a crederlo, fino a quel momento non aveva mai pensato di intraprendere una carriera scientifica. Non era un uomo gentile, come lo era stato suo padre, e non aveva la benché minima idea di che cosa fosse il senso dell’umorismo. Quando qualcuno credeva che lei fosse la figlia di Staughton, si sentiva offesa. Sua madre e il patrigno non le proposero mai di cambiare il suo cognome in Staughton: sapevano benissimo quale sarebbe stata la sua risposta. Di tanto in tanto nell’uomo c’era un po’ di calore, come quando, nella stanza d’ospedale subito dopo la sua tonsillectomia, le aveva portato in dono uno splendido caleidoscopio. «Quando mi faranno l’operazione?» aveva chiesto, leggermente assonnata. «Te l’hanno già fatta,» aveva risposto Staughton. «Starai benone.» Trovò inquietante che le si potessero rubare intere ore a sua insaputa e gliene fece una colpa. Nello stesso tempo si rendeva conto che la sua reazione era infantile. Era inconcepibile che sua madre potesse amarlo veramente. Doveva essersi risposata perché si sentiva sola o aveva bisogno di un sostegno. Voleva che qualcuno si prendesse cura di lei. Ellie giurò a se stessa che non avrebbe mai accettato una posizione di dipendenza. Il padre di Ellie era morto, sua madre si era fatta distante, ed Ellie si sentiva in esilio nella casa di un tiranno. Non c’era più nessuno che la chiamasse tesoro. Desiderava fuggire. «‘Bridgeport?’ dissi io. ‘Camelot’, disse lui.» 2 LUCE COERENTE «Non appena raggiunsi l’uso della ragione, la mia inclinazione all’apprendimento era stata così violenta e forte che né i rimproveri di altri… né le mie personali riflessioni… avevano avuto il potere di impedirmi di seguire questo naturale impulso che Dio mi aveva dato. Lui solo deve sapere perché; e Lui sa pure che L’ho pregato di portar via la luce del mio intelletto, lasciandomi soltanto quel tanto che basta perché io possa rispettare la Sua legge, dal momento che ogni altra cosa è eccessiva in una donna, secondo certa gente. E alcuni dicono che è persino dannoso.»      JUANA INES DE LA Cauz, «Risposta al Vescovo di Puebla» (1691), che aveva attaccato la sua attività di studiosa come inadatta al suo sesso. «Vorrei sottoporre alla benevola considerazione del lettore una dottrina che può, temo, apparire violentemente paradossale e sovversiva. La dottrina in questione è la seguente: è indesiderabile credere a un’asserzione quando non c’è fondamento alcuno per supporre che sia vera. Naturalmente, devo ammettere che se tale opinione diventasse comune, trasformerebbe completamente la nostra vita sociale e il nostro sistema politico; poiché entrambi per ora sono perfetti, ciò finisce per deporre a sfavore della mia idea.»      BERTRAND RUSSEIX, Saggi scettici, I (1928) Attorno alla stella azzurrina, sul suo piano equatoriale, c’era un esteso anello di detriti orbitanti — rocce e ghiaccio, metalli e materia organica — rossastro alla periferia e bluastro in vicinanza della stella. Il poliedro dalle dimensioni di un mondo veniva inghiottito da un varco tra gli anelli ed emergeva dall’altra parte. Sul piano anulare era stato oscurato in modo intermittente da massi gelati e montagne rotolanti. Ma ora, mentre veniva trasportato lungo la sua traiettoria verso un punto al di sopra del polo opposto della stella, la luce dell’astro faceva scintillare i suoi milioni di appenditi paraboliche. Se si guardava molto attentamente si sarebbe potuto vedere una di esse fare una leggera correzione di puntamento. Non si sarebbe vista invece l’emanazione di onde radio che si sprigionava da essa verso le profondità dello spazio. Da quando gli uomini erano comparsi sulla Terra, il cielo notturno era stato una compagnia e una ispirazione. Le stelle erano di conforto. Sembravano dimostrare che i cicli erano stati creati per il bene e l’ammaestramento degli esseri umani. Questa patetica presunzione divenne la sapienza convenzionale diffusa in tutto il mondo. Nessuna cultura ne era indenne. Alcuni trovarono nei cicli un’apertura alla sensibilità religiosa. Molti furono colti da un timore reverenziale e si sentirono umiliati dalla gloria e dalla misura del cosmo. Altri vennero stimolati ai più stravaganti voli della fantasia. Nel momento esatto in cui gli uomini scoprirono la grandezza dell’universo e constatarono che le loro più sbrigliate fantasie venivano in realtà totalmente sminuite dalle reali dimensioni anche della sola Via Lattea, essi fecero in modo che i loro discendenti fossero nell’impossibilità totale di vedere le stelle. Per un milione di anni, gli umani erano cresciuti con una personale conoscenza quotidiana della volta celeste. Negli ultimissimi millenni essi avevano cominciato a costruire e a emigrare nelle città. Negli ultimissimi decenni, una buona parte della popolazione umana aveva abbandonato uno stile di vita semplice. Con lo sviluppo della tecnologia e con l’inquinamento urbano, le notti erano diventate senza stelle. Le nuove generazioni arrivavano alla maturità totalmente ignare del cielo che aveva incantato i loro antenati e aveva stimolato l’età moderna della scienza e della tecnologia. Senza neppure rendersene conto, proprio quando l’astronomia entrava in un’età dell’oro, la maggior parte della gente si distaccava dal cielo, un isolazionismo cosmico che i finì soltanto all’alba dell’esplorazione spaziale. Ellie guardava Venere e immaginava che fosse un mondo pressappoco come la Terra: popolato di piante, animali e civiltà, ma differenti da quelli del nostro pianeta. Alla periferia della città, proprio dopo il tramonto, esaminava il cielo notturno e scrutava quel brillante punto luminoso che non tremolava. Confrontandolo con le nubi vicine, esattamente al di sopra di lei, ancora illuminate dal Sole, le sembrava leggermente più giallo. Cercava di immaginare che cosa stesse accadendo lassù. Tutta eccitata, in punta di piedi, fissava il pianeta. Talvolta, riusciva quasi a convincersi di poterlo davvero vedere; un banco di nebbia giallastra si dissolveva a un tratto e una vasta risplendente città si svelava per pochi istanti. Automobili volanti sfrecciavano tra guglie di cristallo. Qualche volta fantasticava di poter guardare in uno di quei veicoli e di intravedere uno di «loro». O immaginava un giovane venusiano intento a guardare in punta di piedi un punto luminoso di un bel blu intenso nel «suo» cielo, bruciante dal desiderio di sapere qualcosa degli abitanti della Terra. Era una prospettiva irresistibile: un pianeta tropicale, soffocante, traboccante di vita intelligente, e proprio nelle immediate vicinanze. Accettò lo studio mnemonico, pur sapendo che nel migliore dei casi si trattava del vuoto involucro di un’educazione. Fece il minimo indispensabile per riuscire bene nei suoi corsi, e si rivolse ad altre materie. Stabilì di trascorrere i periodi liberi e le ore che le restavano dopo la scuola nella cosiddetta «bottega» una squallida e angusta officina creata quando la scuola dedicava maggiori sforzi all»‘educazione professionale» di quanto non facesse al momento. «Educazione professionale» significava, più che altro lavorare con le mani. C’erano torni, trapani a colonna e altre macchine utensili cui le si proibiva di avvicinarsi, perché, prescindendo dalle sue eventuali capacità, era pur sempre «una ragazza». Con riluttanza le concessero di applicarsi ai suoi progetti nell’area della «bottega» riservata all’elettronica. Costruì delle radio cominciando più o meno da zero, e quindi proseguì con qualcosa di più interessante. Fabbricò una macchina codificatrice, piuttosto rudimentale, ma funzionante. Poteva ricevere ogni messaggio in lingua inglese e trasformarlo con un semplice cifrario in qualcosa che sembrava inintelligibile. Costruire una macchina che facesse l’operazione inversa: trasformare cioè un messaggio cifrato in uno leggibile quando non se ne conosceva la convenzione sostitutiva fu molto più difficile. Si potevano far passare in rassegna alla macchina tutte le possibili sostituzioni (A sta per B, A sta per C, A sta per D…) o si poteva ricordare che alcune lettere in inglese erano usate più spesso di altre. Si poteva avere un’idea della frequenza delle lettere guardando la grandezza dei contenitori per ogni carattere di stampa nella vicina tipografia. «ETAOIN SHR-DLU» dicevano i ragazzi della stamperia, dando abbastanza esattamente l’ordine delle dodici lettere usate più frequentemente in inglese. Decodificando un lungo messaggio, la lettera più comune probabilmente era una E. Scoprì che certe consonanti avevano la tendenza ad andare insieme; le vocali si distribuivano più o meno a caso. La più comune parola di tre lettere della lingua inglese era «thè». Se all’interno di una parola c’era una lettera che stava tra una T e una E, quasi certamente si trattava di una H. In caso negativo, si poteva scommettere su una R o una vocale. Dedusse altre regole e passò lunghe ore calcolando la frequenza di lettere in vari libri di testo prima di scoprire che tali tavole di frequenza erano già state compilate e pubblicate. La sua macchina decodificatrice fu soltanto oggetto di piacere personale. Non la usò per comunicare messaggi segreti agli amici. Non sapeva a chi potesse confidare senza rischi questi suoi interessi elettronici e criptografici; i ragazzi diventavano nervosi o sgarbati e le ragazze la guardavano in modo strano. I soldati degli Stati Uniti stavano combattendo in un luògo lontano chiamato Vietnam. Ogni mese, a quanto pareva, un numero sempre crescente di giovani veniva prelevato dalle strade o dalle campagne e spedito in Vietnam. Più apprendeva sulle origini della guerra, e più ascoltava i discorsi degli uomini politici nazionali, più si sentiva sconvolta dall’indignazione. Il Presidente e il Congresso stavano mentendo e uccidendo, pensò tra sé, e ciascuno dava un tacito consenso. Il fatto che il suo patrigno abbracciasse le posizioni ufficiali circa gli obblighi derivanti dai trattati, la teoria del mostrare i denti e la sfacciata aggressione comunista, contribuirono solo a rafforzare la sua risoluzione. Cominciò a frequentare incontri e riunioni al vicino college. Le persone che vi incontrava sembravano molto più brillanti, più aperte, più «vive» dei suoi goffi e insignificanti compagni della scuola superiore. John Staughton prima la mise in guardia e poi le proibì di passare il suo tempo con gli studenti del college. Non l’avrebbero rispettata, disse. Avrebbero approfittato di lei. Stava simulando una capacità critica che non aveva e non avrebbe mai avuto. Il suo modo di vestire stava peggiorando. Tenute militari da fatica erano inadatte a una ragazza, erano un travestimento, un’ipocrisia, per qualcuno che proclamava di opporsi all’intervento americano nel Sud Est asiatico. Al di là delle accorate esortazioni a Ellie e Staughton a non «farsi la guerra», sua madre partecipava poco a tali discussioni. In privato implorava Ellie di obbedire al patrigno, di essere «buona». Ellie ora sospettava che Staughton avesse sposato sua madre per l’assicurazione sulla vita di suo padre; per quale altra ragione altrimenti? Certamente «lui» non dava segni di amarla, non era predisposto certo a essere «buono». Un giorno, con una certa agitazione, sua madre le chiese di fare qualcosa per il bene di tutti loro: di frequentare il corso biblico. Mentre suo padre, uno scettico sulle religioni rivelate, era stato vivo, non si era mai parlato di corsi biblici. Come poteva sua madre aver sposato Staughton? L’interrogativo le si presentò per la millesima volta. Il corso biblico, sua madre proseguì, avrebbe contribuito a inculcarle le virtù tradizionali; ma, cosa persino più importante, avrebbe dimostrato a Staughton che Ellie era disposta a venirgli incontro in qualche modo. Per amore e per pietà verso sua madre, acconsentì. Così ogni domenica, per quasi un intero anno scolastico, Ellie partecipò alle regolari discussioni di un gruppo in una chiesa vicina. Era una delle rispettabili sette protestanti, immune da sregolato evangelismo. C’erano alcuni studenti di scuola superiore, un certo numero di adulti, in massima parte donne di mezza età, e l’istruttrice, la moglie del ministro del culto. Ellie non aveva mai letto seriamente la Bibbia prima di allora ed era stata incline ad accettare il giudizio forse ingeneroso di suo padre che si trattasse di un coacervo di storia barbara e di favole. Così durante il fine settimana precedente la sua prima lezione, lesse attentamente quelle che sembravano le parti più importanti del Vecchio Testamento, cercando di superare ogni pregiudizio. Immediatamente riconobbe che c’erano due differenti e contraddittorie storie della Creazione nei primi due capitoli della Genesi. Non vedeva come ci potessero essere la luce e i giorni prima che venisse creato il Sole, ed ebbe delle difficoltà a immaginarsi esattamente con chi si fosse sposato Caino. Le storie di Lot e delle sue figlie, di Abramo e Sarah in Egitto, del fidanzamento di Dinah, di Giacobbe ed Esaù, la riempirono di stupore. Si rendeva conto che la viltà può essere presente nel mondo reale: che i figli possono ingannare e defraudare un vecchio padre, che un uomo può dare il suo squallido consenso alla seduzione della moglie da parte del re, o persino incoraggiare lo stupro delle proprie figlie. Ma nel santo libro non c’era una parola di protesta contro tali oltraggi. Invece, a quanto pareva, i crimini venivano approvati, addirittura lodati. Quando il corso cominciò, desiderava ardentemente una discussione su queste irritanti incoerenze, un’illuminazione liberatoria sui fini divini, o almeno una spiegazione del perché quei delitti non venissero condannati dall’autore o dall’Autore. Ma in ciò doveva restar delusa. La moglie del ministro temporeggiava blandamente. In un modo o nell’altro, quelle storie non venivano mai a galla nella discussione che seguiva. Quando Ellie domandò come le ancelle della figlia del faraone potessero dire con una sola occhiata che il piccino tra i giunghi era ebreo, l’insegnante arrossì fino alla radice dei capelli e pregò Ellie di non rivolgere domande indecenti. (La risposta le apparve in quel momento.) Quando arrivarono al Nuovo Testamento, il turbamento di Ellie crebbe. Matteo e Luca ricostruivano l’albero genealogico di Gesù risalendo fino a re David. Ma per Matteo c’erano ventotto generazioni fra David e Gesù; per Luca quarantatré. I due elenchi non avevano quasi nessun nome in comune. Come potevano Matteo e Luca essere entrambi il Verbo di Dio? Le genealogie contraddittorie sembravano a Ellie un tentativo lampante di adattarsi alla profezia di Isaia dopo l’evento. Una vera manipolazione dei dati. Fu profondamente commossa dal Sermone della montagna, profondamente delusa dall’esortazione di dare a Cesare quel che è di Cesare, e ridotta alla disperazione dopo che l’istruttrice eluse per due volte le sue domande sul significato di «Io non porto la pace ma la spada». Riferì alla madre dispiaciuta che aveva fatto del suo meglio, ma neppure con gli argani l’avrebbero trascinata a un altro corso biblico. Era sdraiata sul suo letto in una calda notte d’estate. Elvis stava cantando «One night with you, that’s what I’m beggin’ for». I ragazzi alla scuola superiore sembravano terribilmente immaturi, ed era difficile — specialmente con le critiche e i divieti del patrigno — stabilire rapporti profondi con i giovani universitari che incontrava alle conferenze e alle riunioni. John Staughton aveva ragione, riconosceva a malincuore, almeno su questo punto: i giovanotti, quasi senza eccezione, avevano una tendenza a considerare le ragazze un oggetto sessuale. Nello stesso tempo, essi sembravano molto più vulnerabili emotivamente di quanto si fosse immaginata. Forse una cosa era la conseguenza dell’altra. Aveva quasi preso in considerazione l’eventualità di non frequentare il college, benché fosse risoluta a lasciare la casa. Staughton non avrebbe pagato perché lei se ne andasse altrove e le blande intercessioni di sua madre erano inefficaci. Ma Ellie aveva conseguito risultati splendidi ai tradizionali esami di ammissione al college ed ebbe la sorpresa di sentirsi dire dai suoi insegnanti che probabilmente avrebbe ricevuto l’offerta di borse di studio da famose università. Aveva tirato a indovinare a una quantità di domande che presentavano un’ampia gamma di risposte e considerava il suo successo un colpo di fortuna. Se si sa poco, solo quel tanto che basti a escludere tutte le risposte, tranne le due più probabili, e se poi si cerca di indovinare le prossime dieci domande, allora c’è pressappoco una possibilità su mille, si disse, che si risponda correttamente a tutte e dieci. Per venti di seguito, le probabilità erano una su un milione. Ma qualcosa come un milione di ragazzi, quasi certamente, avevano sostenuto quella prova. «Qualcuno» doveva per forza avere fortuna. Cambridge nel Massachusetts sembrava abbastanza lontano per sottrarsi all’influenza di John Staughton, ma abbastanza vicino per tornare durante le vacanze a vedere sua madre, la quale considerava l’accomodamento come un difficile compromesso tra l’abbandonare la figlia e l’irritare sempre più il marito. Ellie non si sarebbe mai immaginata di scegliere Harvard invece del Massachusetts Insti tute or Technology. Arrivò per un periodo di orientamento, graziosa giovane bruna di media altezza con un sorriso asimmetrico e una gran voglia di imparare tutto. Incominciò ad allargare la sua educazione, a partecipare al maggior numero possibile di corsi indipendentemente dai suoi interessi primari per la matematica, la fisica e l’ingegneria. Ma c’era un problema connesso ai suoi interessi primari. Trovava difficile parlare di fisica, impossibile poi discuterne con i maschi che erano decisamente in maggioranza nel corso. Dapprima manifestavano una sorta di disattenzione intenzionale alle sue osservazioni, c’era una breve pausa e poi continuavano come se lei non fosse intervenuta. Occasionalmente davano retta a un suo commento, addirittura la lodavano, e poi di nuovo proseguivano imperterriti. Lei era ragionevolmente sicura che le sue osservazioni non fossero del tutto sciocche e non voleva che la ignorassero, meno ancora che la ignorassero e la trattassero con degnazione a fasi alterne. In parte, ma solo in parte, ciò era dovuto, ne era consapevole, alla esilità della sua voce. Così sviluppò una voce per la fisica, una voce professionale: chiara, competente, e di molti decibel al di sopra del tono di una conversazione. Con una voce simile era importante aver ragione. Doveva cogliere al balzo i suoi momenti. Era duro continuare a lungo con una voce siffatta perché talvolta correva il rischio di scoppiare a ridere. Allora optò per interventi veloci, talvolta taglienti, di solito sufficienti ad attirare la loro attenzione; poi poteva proseguire per un po’ in un tono più usuale. Ogni volta che si trovava in un nuovo gruppo doveva rinnovare la stessa battaglia solo per poter dire la sua nella discussione. I ragazzi uniformemente ignoravano perfino che ci fosse un problema. Qualche volta, mentre era impegnata in un’esercitazione di laboratorio o in un seminario, l’istruttore diceva: «Signori, procediamo» e, accorgendosi del cipiglio di Ellie, aggiungeva: «Mi scusi, signorina Arroway, ma la considero sempre come uno dei ragazzi.» Il più bel complimento che fossero capaci di farle era che ai loro occhi non sembrava una donna. Doveva combattere contro la tendenza a sviluppare una personalità troppo aggressiva o a diventare completamente misantropa. All’improvviso le fu chiara una cosa. «Misantropo» è qualcuno che odia tutti, non solo gli uomini. E c’era senza dubbio un termine per indicare qualcuno che detesta le donne: «misogino». Ma i signori lessicografi avevano in certo qual modo trascurato di coniare una parola che designasse l’avversione per gli uomini. Essendo uomini loro stessi, erano stati incapaci di immaginare una sfera d’azione per tale parola. Più di molte altre, era stata oppressa dalle proibizioni dei genitori. Le sue recenti libertà — intellettuale, sociale, sessuale — erano inebrianti. In un periodo in cui molte delle sue coetanee si stavano indirizzando verso abiti informi che riducevano al minimo la distinzione tra i sessi, lei aspirava a un’eleganza rigorosa di abbigliamento e di trucco che metteva a dura prova il suo limitato bilancio. C’erano modi più efficaci di esprimere il proprio credo politico, pensava. Coltivava alcune amiche intime e si fece una quantità di nemiche occasionali che la detestavano per il suo modo di vestire, per le sue vedute politiche e religiose, o per il vigore con cui difendeva le proprie opinioni. La sua competenza e il piacere che trovava nella scienza venivano criticati da molte giovani versate in altri campi. Ma alcune guardavano a lei come a ciò che i matematici chiamano un teorema vivente — una dimostrazione che una donna può, certamente, eccellere nella scienza — o addirittura come a un modello di comportamento. In piena rivoluzione sessuale, fece le proprie esperienze con un entusiasmo che cresceva progressivamente, ma scoprì di intimidire i suoi corteggiatori. Le sue relazioni avevano la tendenza a durare pochi mesi o meno ancora. L’alternativa sembrava quella di mascherare i suoi interessi e soffocare le sue opinioni, un comportamento che aveva rifiutato con risolutezza durante la scuola superiore. L’immagine della madre, condannata a una rassegnata prigionia per il suo atteggiamento conciliante, ossessionava Ellie. Cominciò a pensare a uomini che fossero al di fuori della vita accademica e scientifica. Alcune donne, a quanto pareva, erano completamente senza i malizia e concedevano il loro amore quasi inconsapevolmente. Altre si prefiggevano di attuare una campagna di alta strategia militare, con tattiche diversive e abili ritirate, solo per «catturare» un uomo desiderabile. La parola «desiderabile» era rivelatrice, pensava. Il povero idiota non veniva desiderato realmente, era soltanto «desiderabile»: un credibile oggetto del desiderio agli occhi delle altre cui era destinata l’intera meschina sciarada. La maggior parte delle donne, a suo parere, si trovavano in una posizione pressoché intermedia, nel tentativo di conciliare le loro passioni con i vantaggi che si profilavano all’orizzonte. Forse c’erano occasionali comunicazioni tra l’amore e l’interesse personale che sfuggivano all’attenzione della coscienza. Ma l’intera idea di un intrappolamento calcolato la faceva rabbrividire. Decise che per quanto riguardava l’amore sarebbe stata sempre per la spontaneità. Fu allora che incontrò Jesse. Il ragazzo con cui aveva un appuntamento l’aveva accompagnata in una «cave» dalle parti di Kenmore Square. Jesse, che cantava del rhythm and blues era la chitarra solista del gruppo. Il modo in cui cantava e quello con cui si muoveva le fecero capire che cosa le fosse mancato. La notte seguente vi ritornò da sola. Prese posto al tavolo più vicino e non gli staccò gli occhi di dosso per tutta la durata della sua esibizione. Due mesi dopo vivevano insieme. Era soltanto quando i suoi impegni di lavoro lo portavano ad Hartford o a Bangor che lei riusciva a fare qualcosa. Trascorreva le sue giornate con gli altri studenti: ragazzi con i calcolatori dell’ultima generazione appesi come trofei alla cintura; ragazzi con portamatite di plastica nelle tasche delle camicie; ragazzi pignoli, boriosi, con risate nervose; ragazzi seri che impegnavano ogni momento della loro giornata per diventare scienziati. Assorbiti nell’addestrare se stessi a scandagliare le profondità della natura, erano quasi inetti nelle cose umane di ordinaria amministrazione, dove, nonostante tutto il loro sapere, apparivano patetici e sciocchi. Forse la scrupolosa ricerca scientifica era così logorante, così competitiva che non restava loro tempo per divenire degli esseri umani a pieno titolo. O forse la loro incapacità sociale li aveva condotti a campi in cui non si sarebbe notata la loro carenza. Al di fuori della scienza che li accomunava, Ellie non li trovò una buona compagnia. Di notte c’era Jesse, che scopava e gemeva, una sorta di forza della natura che si era impadronita della sua vita. Nell’anno che trascorsero insieme, non riusciva a ricordare una sola notte in cui lui avesse proposto di andare semplicemente a dormire. Non sapeva nulla di fisica o di matematica, ma era completamente sveglio all’interno dell’universo, e per un periodo lo fu anche lei. Sognava di conciliare i suoi due mondi. Fantasticava di musicisti e fisici in un armonico accordo sociale. Ma le serate che organizzava erano imbarazzanti e finivano presto. Un giorno egli le disse che voleva un bambino. Sarebbe stato una persona seria, si sarebbe sistemato, si sarebbe procurato un lavoro regolare. Avrebbe potuto persino prendere in considerazione l’eventualità del matrimonio. «Un bambino?» gli chiese. «Ma dovrei abbandonare la scuola. Mi restano ancora parecchi anni. Se avessi un bambino, forse non potrei più ritornare a scuola.» «Sì,» disse lui, «ma avremmo un bambino. Non avresti la scuola, ma avresti qualcos’altro.» «Jesse, ho bisogno della scuola,» gli disse. Lui alzò le spalle e lei potè sentire che le loro vite si stavano allontanando. La cosa durò ancora alcuni mesi, ma tutto era stato in realtà deciso in quel breve scambio di vedute. Si accomiata-rono con un bacio e lui se ne andò in California. Ellie non sentì mai più la sua voce. Alla fine degli anni Sessanta l’Unione Sovietica riuscì a far atterrare dei veicoli spaziali sulla superficie di Venere. Erano le prime sonde della specie umana a scendere su un altro pianeta in missione operativa. Oltre un decennio prima, dei radioastronomi americani, confinati sulla Terra, avevano scoperto che Venere era un’intensa fonte di onde radio. La spiegazione più comune era stata che la densa atmosfera di Venere immagazzinava il calore attraverso un effetto serra planetario. Secondo tale ipotesi, la superficie del pianeta era straordinariamente calda e soffocante, troppo calda per città di cristallo e Venusiani stupefatti. Ellie desiderava ardentemente una qualche altra spiegazione, e tentò invano di immaginare modi in cui l’emissione radio potesse venire da un punto sopra la temperata superficie di Venere. Ad Harvard e al Massachusetts Institute of Technology alcuni astronomi dichiararono che nessuna delle ipotesi alternative a quella di un pianeta in tumulto, esposto a grande calore, poteva spiegare i segnali radio. L’idea di un così imponente effetto serra le sembrava inverosimile e in qualche modo disgustosa, come se il pianeta si fosse lasciato vergognosamente andare. Ma quando la sonda sovietica della serie Venus raggiunse la superficie fino ad allora inaccessibile di quel corpo celeste, e fece uscire un termometro, la temperatura misurata era abbastanza alta per far fondere stagno o piombo. Lei immaginò le città di cristallo che si liquefacevano (benché Venere non fosse così caldo), la superficie inondata di lacrime di silicato. Era una romantica. Lo sapeva da anni. Ma nello stesso tempo, aveva dovuto ammirare la potenza della radioastronomia. Gli astronomi se ne erano rimasti a casa, avevano puntato i loro radiotelescopi su Venere e misurato la temperatura della superficie pressapoco con la stessa accuratezza degli strumenti della sonda Venus a tredici anni di distanza. Ellie, da quanto poteva ricordare, era sempre rimasta affascinata dall’elettricità e dall’elettronica. Ma questa era la prima volta che era stata profondamente impressionata dalla radioastronomia. Si sta al sicuro sul proprio pianeta e si punta il telescopio collegato ad apparecchiature elettroniche. Allora, informazioni su altri mondi arrivano giù oscillando attraverso i canali autoalimentati. Si meravigliò al pensiero. Ellie cominciò a visitare il modesto radiotelescopio dell’università che si trovava vicino ad Harvard, ricevendo alla fine un invito a collaborare alle osservazioni e all’analisi dei dati. Venne accettata come assistente estiva pagata dall’osservatorio radioastronomico nazionale di Green Bank nel West Virginia, e all’arrivo guardò estasiata il radiotelescopio originale di Grote Reber, costruito nel suo cortile a Wheaton nell’Illinois nel 1938 e che ora serviva a ricordare che cosa può realizzare un dilettante appassionato. Reber era stato capace di scoprire l’emissione radio dal centro della Galassia quando per caso nessuno nel vicinato stava facendo partire l’auto o la macchina per la diatermia in fondo alla strada non era in funzione. Il centro della Galassia era molto più potente, ma la macchina per la diatermia era molto più vicina. L’atmosfera di paziente ricerca e le occasionali ricompense di una modesta scoperta le piacevano. Stavano tentando di misurare come crescesse il numero di remote radiosorgenti extragalattiche man mano che scrutavano più a fondo nello spazio. Cominciò a pensare a sistemi migliori per individuare deboli segnali radio; Entro il tempo stabilito, si laureò con la lode ad Harvard e proseguì gli studi per specializzarsi in radioastronomia all’altro capo del paese, al California Institute of Tecnology. Per un anno fece tirocinio sotto la guida di David Drumlin. Questi era famoso per vivezza d’ingegno e per la sua allergia agli imbecilli, ma era in fondo uno di quegli uomini che si possono trovare all’apice di ogni carriera, tormentati dall’ansia continua che qualcuno, da qualche parte, possa dare prova di un’intelligenza superiore alla loro. Drumlin insegnò a Ellie un po’ della vera essenza della materia, specialmente i suoi supporti teorici. Sebbene corresse voce inspiegabilmente di un suo notevole ascendente esercitato sulle donne, Ellie lo trovò spesso scontroso e sempre dominato da un prepotente egotismo. Lei era troppo romantica, soleva dire lui. L’universo è rigorosamente ordinato secondo le proprie regole. Il concetto è di pensare come pensa l’universo, non di attribuire le nostre proiezioni romantiche (e i desideri da ragazza, una volta disse) all’universo. Ogni cosa non proibita dalle leggi di natura, l’assicurò — citando un collega che si trovava in fondo al corridoio —, è vincolante. Ma, proseguì, quasi ogni cosa è proibita. Lei lo guardava mentre teneva la lezione, cercando di leggere in quella strana combinazione di tratti personali. Vide un uomo in condizioni fisiche eccellenti: capelli divenuti grigi prematuramente, sorriso sardonico, occhiali da vista a mezzaluna posati quasi all’estremità del naso, cravatta a farfalla, mascella squadrata, leggero accento del Montana. La sua idea di divertimento consisteva nell’invitare a cena gli studenti laureati e gli insegnanti più giovani (a differenza del suo patrigno che trovava piacevole circondarsi di studenti ma considerava una stravaganza trattenerli a cena). Drumlin esibiva un’estrema territorialità intellettuale, guidando la conversazione verso argomenti in cui egli era l’esperto riconosciuto e poi facendo piazza pulita in fretta delle opinioni contrarie. Dopo cena, spesso li costringeva ad assistere a una proiezione di diapositive che lo vedevano protagonista in vesti di subacqueo a Cozumel o a Tobago o alla Grande Barriera Corallina. Sorrideva spesso alla macchina fotografica e salutava con la mano, persino nelle immagini scattate sottacqua. Talvolta c’era una foto sottomarina della sua collega, la dottoressa Helga Bork. (La moglie di Drumlin trovava sempre da ridire su queste particolari diapositive, con il ragionevole pretesto che la maggior parte degli spettatori le avevano già viste in precedenti cene. In realtà, i presenti avevano già visto tutte le diapositive. Drumlin reagiva magnificando le virtù dell’atletica dottoressa Bork, e l’umiliazione di sua moglie cresceva.) Molti degli studenti tenevano duro coraggiosamente, andando alla ricerca di qualche novità che era loro sfuggita in passato tra i coralli cerebriformi e gli spinosi ricci di mare. Alcuni si dimenavano imbarazzati o si concentravano sulla crema di avocado. Un pomeriggio stimolante per i suoi studenti laureati consisteva nell’essere invitati, in due o tre, ad accompagnarlo in auto sull’orlo di una scogliera che gli piaceva molto, vicino a Pacific Palisades. Appeso disinvoltamente al suo deltaplano, egli si lanciava nel precipizio verso l’oceano che si stendeva tranquillo alcune centinaia di piedi sotto di lui. Il loro compito era di andar giù per la strada costiera e di ricuperarlo. Calava su di loro esultante. Altri furono invitati a unirsi a lui, ma pochi accettarono. Aveva, e ci provava piacere, il vantaggio della competizione. Era proprio una performance. Altri consideravano gli studenti laureati come risorse per il futuro, come i loro intellettuali tedofori per la generazione seguente. Drumlin, invece, secondo l’impressione che ne riportava Ellie, aveva una visione totalmente differente. Per lui gli studenti laureati erano dei pistoleri. Non si sapeva mai chi di loro potesse sfidarlo in un qualsiasi momento per l’ambito titolo di «Pistola più veloce del West». Dovevano essere tenuti al loro posto. Non le aveva mai fatto delle avances, ma prima o poi, ne era certa, ci avrebbe provato. Durante il suo secondo anno al California Institute, Peter Valerian ritornò al campus dopo il suo anno sabbatico all’estero. Era un uomo gentile e senza attrattive; nessuno, lui stesso compreso, lo considerava particolarmente brillante. Eppure, aveva un serio curriculum di significativi riconoscimenti in radioastronomia perché, come spiegava quando era messo alle strette, «ci aveva dedicato tutto se stesso». C’era un aspetto un po’ sconveniente della sua carriera scientifica: era affascinato dalla possibilità di intelligenze extraterrestri. Ogni membro della facoltà, a quanto pareva, aveva diritto a una debolezza: Drumlin aveva il deltaplano e Valerian la vita su altri mondi. Altri avevano i bar con le cameriere in topless, o le piante carnivore, o la cosiddetta meditazione trascendentale. Valerian aveva speculato sull’intelligenza extraterrestre (ETI) più a lungo e più accanitamente — e in molti casi con maggior attenzione — di chiunque altro. Quando Ellie imparò a conoscerlo meglio, le sembrò che ETI gli conferisse un fascino, un’aura romantica che erano in drammatico contrasto con il grigiore della sua vita personale. Questo pensare a una intelligenza extraterrestre non era lavoro per lui, ma puro divertimento. La sua immaginazione spiccava il volo. Ellie amava starlo ad ascoltare. Era come entrare nel Paese delle Meraviglie o nella Città di Smeraldo. In realtà era ancora meglio, perché alla fine di tutte le sue elucubrazioni c’era il pensiero che ciò forse poteva essere vero, poteva realmente accadere. Un giorno o l’altro, fantasticava lei, uno dei grandi radiotelescopi poteva ricevere in realtà e non solo con l’immaginazione un messaggio, ma in un certo modo era peggio, perché Valerian, al pari di Drumlin riguardo ad altri argomenti, sottolineava ripetutamente che la speculazione deve essere messa a confronto con una concreta realtà fisica. Era una sorta di setaccio che separava l’incomparabile speculazione di grande utilità da una massa di sciocchezze. Gli extraterrestri e la loro tecnologia dovevano conformarsi rigorosamente alle leggi di natura, cosa che eliminava con severità più di una prospettiva allettante. Ma ciò che emergeva dal setaccio, e sopravviveva alla sua scettica analisi fisica e astronomica, poteva persino essere vero. Non se ne poteva essere sicuri, naturalmente. C’erano certo delle possibilità che non erano state prese in considerazione, che persone più intelligenti avrebbero un giorno intuito. Valerian sottolineava come si sia prigionieri del nostro tempo, della nostra cultura e della nostra biologia, quanto si sia limitati, per definizione, nell’immaginare creature o civiltà fondamentalmente diverse. E dato che si sarebbero evolute su mondi diversissimi, avrebbero «dovuto» essere diversissime da noi. Era possibile che esseri molto più avanzati di noi avessero tecnologie inimmaginabili — ciò era, di fatto, quasi garantito — e addirittura nuove leggi di fisica. Era segno di una terribile ristrettezza di idee, soleva dire, mentre passavano vicino a una serie di archi simili a quelli dei quadri di De Chirico, immaginare che tutte le importanti leggi della fisica fossero già state scoperte nel momento in cui la nostra generazione cominciava a contemplare il problema. Ci sarebbe stata una fisica del ventunesimo secolo e una fisica del ventiduesimo secolo, e persino una fisica del quarto millennio. Si poteva essere ridicolmente lontani dal presagire come una civiltà tecnicamente diversissima fosse in grado di comunicare. Ma allora, e lo diceva sempre per rassicurare se stesso, gli extraterrestri avrebbero dovuto sapere come eravamo arretrati. Se fossimo stati un po’ più avanzati, loro avrebbero già saputo da tempo della nostra esistenza. Ecco a che punto eravamo: solo da poco avevamo cominciato a camminare eretti, avevamo scoperto il fuoco mercoledì scorso, appena ieri ci eravamo imbattuti nella dinamica di Newton, nelle equazioni di Maxwell, nei radiotelescopi, nell’idea vaga di superunificazione delle leggi della fisica. Valerian era sicuro che loro non ci avrebbero reso le cose difficili. Avrebbero cercato di facilitarci il compito, perché se volevano comunicare con degli stupidi lo avrebbero tenuto in debito conto. Ecco perché, pensava, egli avrebbe avuto una possibilità, seppur ardua, di successo se mai fosse arrivato un messaggio. La sua mancanza di intelligenza brillante era in realtà il suo punto di forza. Egli conosceva, ne era fiducioso, quel che conoscevano gli stupidi. Come argomento per la sua tesi di dottorato, Ellie scelse, con il consenso della facoltà, lo sviluppo di una miglioria nei sensibili ricevitori usati nei radiotelescopi. Ciò le consentì di mettere in pratica le sue attitudini all’elettronica, la liberò da Drumlin e dal suo eccessivo teorizzare, e le permise di continuare le sue discussioni con Valerian; ma senza intraprendere il passo rischioso per la sua professione di lavorare con lui sull’intelligenza extraterrestre. Era un argomento troppo speculativo per una dissertazione di dottorato. Il suo patrigno aveva preso l’abitudine di considerare i suoi svariati interessi come utopistici e ambiziosi o occasionalmente come banali e piatti. Quando seppe dell’argomento della sua tesi per vie traverse (ormai lei non gli parlava più), lo liquidò come pedestre. Ellie stava lavorando sul maser al rubino, pietra costituita essenzialmente da allumina, che è quasi perfettamente trasparente. La colorazione rossa deriva da una piccola impurità di cromo distribuita nel cristallo di allumina. Quando un forte campo magnetico viene impresso al rubino, gli atomi di cromo aumentano la loro energia o, come i fisici preferiscono dire, vengono portati a uno stato di eccitazione. Le piaceva l’immagine di tutti i piccoli atomi di cromo chiamati a una febbrile attività in ogni amplificatore, impegnati freneticamente in una buona causa pratica, quella di amplificare un debole segnale radio. Più intenso era il campo magnetico e più eccitati diventavano gli atomi di cromo. Così il maser poteva venir sintonizzato in modo da esser particolarmente sensibile a una frequenza radio selezionata. Ellie trovò un sistema per produrre dei rubini con impurità di lantanio in aggiunta agli atomi di cromo, così un maser poteva essere sintonizzato su una più ridotta gamma di frequenze ed era in grado di scoprire un segnale molto più debole di quelli ricevuti dal maser in uso. Il suo rivelatore doveva essere immerso in elio liquido. Quindi Ellie installò il suo nuovo strumento su uno dei radiotelescopi del Cai Tech a Owens Valley e individuò, su frequenze interamente nuove, ciò che gli astronomi chiamano la radiazione cosmica di fondo del corpo nero, i resti nello spettro radio dell’immensa esplosione che diede inizio al nostro universo, il Big Bang. «Vediamo se ho capito bene,» ripeteva a se stessa. «Ho preso un gas inerte che si trova nell’aria, l’ho fatto liquefare, ho messo alcune impurità in un rubino, attaccato un magnete e scoperto le fiamme della creazione.» Poi scuoteva il capo meravigliata. Per chiunque fosse all’oscuro delle nozioni di fisica che ne erano alla base, ciò poteva sembrare la più arrogante e pretenziosa negromanzia. Come lo si sarebbe potuto spiegare ai migliori scienziati di mille anni prima, che conoscevano l’aria, i rubini e le magnetite, ma non l’elio liquido, l’emissione stimolata, e le pompe di flusso super-conducenti? Ricordò infatti che essi non avevano neppure la benché minima idea di che cosa fosse lo spettro radio. O nemmeno l’idea di uno spettro — tranne quella vaga che poteva essere suggerita loro dallo spettacolo dell’arcobaleno. Non sapevano che la luce è fatta di onde. Come si poteva sperare di capire la scienza di una civiltà mille anni in anticipo su quella terrestre? Era necessario produrre rubini su vasta scala, poiché soltanto alcuni avevano i requisiti richiesti. Nessuno aveva le qualità della pietra preziosa, ed erano in massima parte minuscoli. Ma cominciò a mettersene addosso alcuni — i residui più grossi della lavorazione — che si accompagnavano bene al suo colorito scuro. Anche se era tagliata con accuratezza, si poteva riscontrare qualche imperfezione nella pietra incastonata in un anello o in una spilla: per esempio, la strana maniera in cui riceveva la luce in certi angoli da un irregolare riflesso interno, o la presenza di una macchiolina color pesca entro il rosso rubino. Agli amici che non facevano parte dell’ambiente scientifico spiegava che amava i rubini ma che non poteva permetterseli. Era un po’ come lo scienziato che aveva scoperto per primo la fotosintesi clorofilliana e che in seguito portò per sempre sul risvolto della giacca aghi di pino o una fogliolina di prezzemolo. I suoi colleghi, che sentivano crescere il loro rispetto per lei, consideravano questo suo vezzo innocuo. I grandi radiotelescopi del mondo sono costruiti in località remote per la stessa ragione per cui Paul Gauguin si imbarcò per Tahiti: per lavorare bene, devono essere lontani dalla civiltà. Poiché le trasmissioni radio civili e militari sono aumentate, i radiotelescopi hanno dovuto nascondersi, relegati in un’oscura valle a i Puerto Rico, o esiliati in un vasto deserto di cespugli spinosi nel New Mexico o nel Kazakistan. Poiché le interferenze radio continuano a crescere, ha sempre più senso costruire i telescopi completamente fuori della Terra. Gli scienziati che lavorano in questi Osservatori isolati hanno la tendenza a essere ostinati e risoluti. Le mogli li abbandonano, i figli lasciano la casa alla prima occasione, ma gli astronomi non cedono. Raramente pensano a se stessi come a dei sognatori. Il personale scientifico permanente, presente in remoti osservatori, tende a essere pragmatico, sperimentalista, costituito da esperti che conoscono moltissimo riguardo al disegno delle antenne e all’analisi dei dati, e molto meno a proposito delle quasar e delle pulsar. Genericamente parlando, da piccoli non hanno spasimato per le stelle; sono stati troppo occupati a riparare il carburatore dell’auto di casa. Dopo aver conseguito il suo dottorato, Ellie accettò un impiego come ricercatrice aggiunta all’osservatorio di Arecibo, una grande coppa dal diametro di 305 metri fissata al fondo di una dolina di tipo carsico tra le colline nord occidentali di Puerto Rico. Con il più grande radiotelescopio del pianeta, Ellie era impaziente di usare il suo maser per guardare in direzione dei più svariati oggetti astronomici possibili: pianeti e stelle vicini, il centro della Galassia, pulsar e quasar. Come membro a tempo pieno del personale dell’osservatorio, le sarebbe stata assegnata una notevole quantità di tempo per le osservazioni. L’accesso ai grandi radiotelescopi è ambito al massimo, perché gli importanti progetti di ricerca sono molto più numerosi di quelli che vi possono essere ospitati. Perciò, il tempo riservato al telescopio per il personale residente è una prerogativa senza prezzo. Per molti degli astronomi era la sola ragione che li trattenesse in località così sperdute. Lei sperava anche di esaminare alcune stelle vicine per scoprire possibili segnali di origine intelligente. Con il suo tipo di amplificatore si sarebbe potuto ascoltare la dispersione radio da un pianeta come la Terra anche se si fosse trovato ad alcuni anni luce di distanza. E una società avanzata, che avesse l’intenzione di comunicare con noi, sarebbe stata senza dubbio capace di inviare trasmissioni ben più potenti delle nostre. Se Arecibo, usato come un radar telescopio, era in grado di trasmettere un messaggio di un megawatt di potenza fino a un punto specifico nello spazio, allora una civiltà solo un po’ più avanzata della nostra poteva, a suo parere, essere in grado di trasmettere un segnale della potenza di cento megawatt o più. Se stavano trasmettendo alla Terra intenzionalmente con un telescopio della grandezza di quello di Arecibo ma con un trasmettitore da cento megawatt, Arecibo sarebbe stata nelle condizioni di individuarli virtualmente in qualsiasi punto della Via Lattea. Quando pensò attentamente a ciò, si stupì che nella ricerca di un’intelligenza extraterrestre quel che si sarebbe potuto fare era ben lontano da quello che si era fatto. I mezzi che erano stati dedicati a questo problema erano insignificanti, a suo avviso. Trovava delle difficoltà a scegliere un problema scientifico più importante. L’installazione di Arecibo era nota agli indigeni come «El Radar». La sua funzione era generalmente oscura, ma procurava più di cento posti di lavoro, di cui c’era un gran bisogno sull’isola. Le ragazze del posto venivano tenute ben lontane dagli astronomi, alcuni dei quali potevano esser visti quasi a ogni ora del giorno e della notte, pieni di nervosa energia, percorrere di corsa il sentiero che circondava il riflettore emisferico. Come risultato, le attenzioni rivolte a Ellie al suo arrivo, benché non del tutto sgradite, finirono presto per essere una distrazione dalla sua ricerca. La bellezza fisica del luogo era notevole. Al crepuscolo, guardava fuori dalle finestre di servizio e vedeva nubi tempestose sorvolare l’altro bordo della valle, proprio al di là di uno dei tre immensi piloni cui erano appesi i cavi che sorreggevano i bracci dell’antenna e il suo maser montato di recente. In cima a ciascuno dei piloni, una luce rossa lampeggiava per invitare gli eventuali aeroplani che si fossero avventurati per errore su quel remoto panorama a starsene alla larga. Alle quattro del mattino, usciva per una boccata d’aria e cercava confusamente di interpretare un coro compatto di migliala di rane locali, chiamate onomatopeicamente «coquis». Alcuni astronomi vivevano nei pressi dell’osservatorio, ma l’isolamento, combinato all’ignoranza dello spagnolo e all’inesperienza di ogni altra cultura, tendeva a trascinare loro e le loro mogli alla solitudine e all’anonimia. Alcuni avevano deciso di vivere alla base aerea di Ramey, che vantava l’unica scuola di lingua inglese delle vicinanze. Ma i novanta minuti d’auto contribuivano ad accrescere ancora il loro senso di isolamento. Ripetute minacce da parte dei separatisti portoricani, convinti erroneamente che l’osservatorio svolgesse una funzione militare di una certa importanza, aumentarono il senso di isteria repressa, di circostanze difficilmente controllabili. Molti mesi dopo, Valerian venne in visita. Ufficialmente si trovava lì per tenere una conferenza, ma lei sapeva che era motivato anche dal desiderio di controllare come se la stesse cavando e di darle una parvenza di sostegno psicologico. La sua ricerca era andata molto bene. Aveva scoperto quel che sembrava un nuovo complesso di nubi molecolari interstellari, e aveva ottenuto alcuni dati estremamente precisi nell’analisi del tempo di risposta di una pulsar che si trova al centro della Nebulosa del Granchio. Aveva persino portato a termine la più accurata ricerca mai compiuta su segnali emessi da alcune dozzine di stelle vicine, ma senza risultati positivi. C’erano state una o due ripetizioni sospette. Osservò di nuovo le stelle in questione e non potè riscontrare nulla fuori dall’ordinario. Si esamini un certo numero di stelle e presto o tardi le interferenze terrestri o la concatenazione di rumori casuali produrranno un segnale che per un momento farà battere il cuore. Riacquistata la padronanza di sé, lo si controlla e se non si ripete, lo si considera spurio. Questa disciplina era essenziale, se voleva conservare un certo equilibrio emotivo nei confronti di ciò che stava cercando. Ellie era decisa a essere più che mai inflessibile, senza comunque abbandonare quel senso di meraviglia che era il motore primo del suo agire. Con le sue scarse provviste conservate nel frigorifero della co-munita, aveva preparato un modesto spuntino di mezzogiorno da consumare all’aperto, e Valerian sedeva con lei sull’orlo della dolina che ospitava il paraboloide. Si potevano vedere in lontananza gli operai che riparavano o sostituivano i pannelli, dotati di speciali racchette da neve per non lacerare i fogli di alluminio e non precipitare sul terreno sottostante. Valerian si rallegrava dei suoi progressi. Si scambiarono qualche pettegolezzo e le ultime novità scientifiche. La conversazione si indirizzò su SETI, come si cominciava a chiamare la ricerca di un’intelligenza extraterrestre. «Hai mai pensato di farlo a tempo pieno, Ellie?» le chiese. «Non ci ho pensato molto. Ma in realtà non è possibile, non è vero? Per quanto ne so, non c’è nessuna installazione importante, al mondo, dedita a SETI a tempo pieno.» «No, ma ci può essere. Esiste una probabilità che dozzine di paraboloidi supplementari vengano aggiunti al Very Large Array e lo trasformino in un osservatorio riservato a SETI. Farebbero anche qualcosa del solito lavoro di radioastronomia, naturalmente. Sarebbe un superbo interferometro. Si tratta soltanto di una possibilità, è costosa, richiede una reale volontà politica, e nel migliore dei casi si realizzerà fra degli anni. Solo qualcosa da pensarci su.» «Peter, ho appena esaminato una quarantina di stelle vicine, del tipo a spettro solare approssimativo. Ho guardato nella riga di ventun centimetri dell’idrogeno, che tutti dicono sia l’ovvia frequenza di segnale, perché l’idrogeno è l’elemento più abbondante dell’Universo, e così via. E ho operato con la più alta sensibilità mai sperimentata. Non c’è traccia di un segnale. Forse non c’è nessuno là fuori. Forse l’intera faccenda è una perdita di tempo.» «Come la vita su Venere? Chiacchiere da quattro soldi. Venere è un mondo infernale; è solo un pianeta. Ma ci sono centinaia di miliardi di stelle nella Galassia. Ne hai guardate pochissime. Non diresti che sia un po’ prematuro rinunciare? Hai trattato una miliardesima parte del problema. Probabilmente ancora meno, se consideri altre frequenze.» «Lo so, lo so. Ma non hai la sensazione che se sono da qualche parte, siano ovunque? Se esseri davvero avanzati vivono mille anni luce lontano da noi, non dovrebbero avere un avamposto nelle nostre vicinanze? Si potrebbe fare il SETI per sempre, sai, e non convincersi mai di aver completato la ricerca.» «Oh, stai cominciando a parlare come Dave Drumlin. Se non possiamo trovarli durante la nostra vita, lui non è interessato. Siamo solo all’inizio del SETI. Tu sai quante possibilità ci sono. E’ il momento di lasciare aperta ogni opzione; è il momento di essere ottimisti. Se vivessimo in un qualsiasi periodo precedente alla storia umana, potremmo porci degli interrogativi a questo j proposito per tutta la nostra esistenza e non potremmo fare nulla per trovare una risposta. Ma questo momento è unico. E’ la prima volta che qualcuno è in grado di cercare un’intelligenza extraterrestre. Hai costruito il rivelatore per cercare civiltà sui pianeti di milioni di altre stelle. Nessuno ti sta garantendo il successo, ma puoi pensare a un problema più importante? Supponi che là fuori ci stiano inviando dei segnali e che nessuno sulla Terra stia ascoltando. Sarebbe una beffa, un’assurdità. Non ti vergogneresti della tua civiltà se fossimo in grado di ascoltare e non avessimo lo spirito d’iniziativa per farlo?» Duecentocinquantasei immagini del mondo di sinistra sciamarono sulla sinistra. Duecentocinquantasei immagini del mondo di destra scivolarono via a destra. Integrò tutte le cinquecentododici immagini in una visione avvolgente di ciò che la circondava. Si trovava immersa in una foresta di grandi steli ondeggianti, alcuni verdi, altri scoloriti, quasi tutti più grossi di lei. Ma non aveva difficoltà ad arrampicarsi su e giù, a mantenersi talvolta in equilibrio precario su uno stelo ricurvo, a cadere sul soffice cuscino di steli coricati che si stendeva sotto di lei, e quindi a continuare con precisione nel suo viaggio. Poteva dire di seguire la pista giusta. Faceva meravigliosamente fresco. Non le sarebbe importato nulla, se era là che la pista conduceva, di scalare un ostacolo cento o mille volte più alto di lei. Non aveva bisogno di piloni o di funi; era già equipaggiata. Il terreno immediatamente davanti a lei era fragrante di un odore caratteristico lasciato di recente, ne era certa, da un’altra esploratrice del suo clan. Portava al cibo; lo faceva quasi sempre. Il cibo appariva automaticamente. Le esploratrici lo trovavano e segnavano il cammino. Lei e le sue compagne lo avrebbero riportato indietro al nido. Talvolta il cibo era una creatura abbastanza simile a lei; altre volte si trattava soltanto di un pezzette amorfo o cristallino. Di quando in quando era così grande che richiedeva l’ausilio di molti individui del suo clan, che dovevano lavorare assieme, sollevandolo e facendolo avanzare sugli steli piegati, per portarlo a casa. Fece schioccare le mandibole pregustandone il sapore. «Quello che mi preoccupa di più,» continuò lei, «è il contrario, cioè la possibilità che loro non stiano provando. Potrebbero comunicare con noi, d’accordo, ma non lo stanno facendo perché non ci vedono nessuno scopo. Come…» — gettò un’occhiata all’orlo della tovaglia che avevano disteso sull’erba — «come le formiche. Occupano il medesimo nostro paesaggio. Hanno moltissimo da fare, una quantità enorme di cose che le tengono occupate. A un certo livello, sono perfettamente consapevoli del loro ambiente. Ma noi non cerchiamo di comunicare con loro. Perciò non penso che abbiano la più vaga idea della nostra esistenza.» Una grossa formica, più intraprendente delle sue compagne, si era avventurata sulla tovaglia e stava marciando speditamente lungo la diagonale di uno dei riquadri rossi e bianchi. Soffocando un leggero moto di disgusto, Ellie la rispedì cautamente nell’erba cui apparteneva. 3 RUMORE BIANCO «Dolci sono le udite melodie, ma più dolci quelle non udite.»      JOHN KEATS, «Ode sopra un’urna greca» (1820) «Le menzogne più crudeli sono spesso dette in silenzio.»      ROBERT Louis STEVENSON, «Virginibus Puerisque» (1881) Gli impulsi stavano viaggiando da anni attraverso la grande oscurità interstellare. Di quando in quando intercettavano una nube irregolare di gas e polvere, e un po’ dell’energia veniva assorbita o sparpagliata. I residui continuavano nella loro direzione originale. Davanti a loro c’era una debole luminosità giallastra, che aumentava lentamente di intensità tra le altre luci costanti. Ora, benché potesse apparire a occhio umano ancora come un punto, era di gran lunga l’oggetto più brillante nel cielo nero. Gli impulsi stavano incontrando uno sciame di gigantesche palle di neve. La donna che stava entrando nell’amministrazione dell’Argus era una creatura sottile verso la quarantina. Gli occhi, grandi e distaccati, contribuivano ad addolcire la spigolosa struttura ossea del suo volto. I lunghi capelli scuri erano morbidamente raccolti da un fermaglio di tartaruga sulla nuca. In una pratica T-shirt e in una gonna cachi, percorse un corridoio al primo piano e oltrepassò una porta su cui era scritto: «E. Arroway, Direttore.» Mentre toglieva il pollice dalla serratura a impronte digitali, sulla sua mano destra si sarebbe potuto notare un anello con una pietra rossa stranamente lattiginosa incastonata in maniera maldestra. Dopo aver acceso una lampada da tavolo, si mise a rovistare in un cassetto finché trovò un paio di cuffie. Per qualche istante si illuminò, sulla parete accanto alla sua scrivania, una citazione dalle «Meditazioni» di Franz Kafka: Ora le Sirene possiedono un’arma ancor più fatale del loro canto, ossia il loro silenzio… Qualcuno può forse esser sfuggito al loro canto; ma mai certo al loro silenzio. Spegnendo la luce con un cenno della mano, si diresse verso la porta nella semioscurità. Nella stanza di controllo si accertò in fretta che tutto fosse in ordine. Dalla finestra poteva vedere alcuni dei 131 radiotelescopi che si snodavano per decine di chilometri attraverso il deserto spinoso del New Mexico come una bizzarra specie di fiore meccanico proteso verso il cielo. Era il primo pomeriggio ed era rimasta alzata fino a tardi la notte precedente. La radioastronomia può essere praticata durante il giorno, perché l’aria non disperde le onde radio provenienti dal Sole come fa con la comune luce visibile. Per un radiotelescopio puntato dovunque, tranne che nelle immediate vicinanze del Sole, il cielo è nero come la pece. Fatta eccezione per le sorgenti radio. Al di là dell’atmosfera terrestre, dall’altra parte del cielo, c’è un universo brulicante di emissioni radio. Studiando le onde radio si possono conoscere pianeti, stelle e galassie, la composizione di grandi nubi di molecole organiche che vagano tra le stelle, l’origine, l’evoluzione e il destino dell’universo. Ma tutte queste radioemissioni sono naturali: provocate da processi fisici, dagli elettroni che si muovono a spirale in presenza del campo magnetico galattico, o dalle molecole interstellari in collisione le une con le altre, o dai remoti echi del Big Bang spostati verso il rosso, spazianti dai raggi gamma all’origine dell’universo alle radio onde imbrigliate e fredde che riempiono tutto lo spazio nella nostra epoca. Nei pochissimi decenni in cui gli uomini si sono dedicati alla radioastronomia, non c’è mai stato un vero segnale dalle profondità dello spazio, qualcosa di tecnologico, qualcosa di artificiale, qualcosa di progettato da una mente aliena. Ci sono stati dei falsi allarmi. La regolare variazione temporale dell’emissione radio delle quasar e, specialmente, delle pulsar è stata presa all’inizio, timidamente e cautamente, per una sorta di segnale-annuncio proveniente da qualcun altro, o forse per un radiofaro per navi esotiche che incrociavano negli spazi interstellari. Ma si trattava di qualcos’altro che presentava lo stesso carattere esotico, forse, di un segnale inviato da esseri presenti nell’oscurità del cielo. Le I quasar sembravano essere formidabili fonti di energia, probabilmente connesse con massicci buchi neri al centro di galassie, osservate, data la loro enorme distanza, nella loro gioventù, com’erano miliardi di anni fa. Le pulsar fanno ruotare rapidamente dei nuclei atomici delle dimensioni di una città. E ci sono stati altri svariati e misteriosi messaggi che sono risultati intelligenti in un certo modo, ma non molto extraterrestri. I cicli ora venivano solcati da segreti sistemi radar per scopi militari e satelliti per le radiocomunicazioni, nonostante le petizioni di alcuni radioastronomi civili. Talvolta si trattava di sistemi davvero fuorilegge, che ignoravano gli accordi internazionali sulle telecomunicazioni. Non c’erano azioni giudiziarie né condanne. Di quando in quando, tutte le nazioni negavano la loro responsabilità. Ma non c’era mai stato un segnale alieno netto e preciso. Eppure l’origine della vita sembrava essere così facile ora — e c’erano tanti sistemi planetari, tanti mondi e tanti miliardi di anni disponibili per l’evoluzione biologica — che era difficile credere che la Galassia non brulicasse di vita e di intelligenza. Il progetto Argus era il più grande impianto del mondo destinato alla ricerca radio di intelligenze extraterrestri. Le onde radio viaggiavano alla velocità della luce, di cui nulla si propagava più rapidamente a quanto pareva. Erano facili da produrre e facili da rilevare. Persino civiltà tecnologicamente arretratissime come quella della Terra, avevano scoperto le onde radio quasi all’inizio della loro esplorazione del mondo fisico. Persino con la rozza tecnologia radio disponibile — adesso, a pochi decenni soltanto dall’invenzione del radiotelescopio — era quasi possibile comunicare con un’identica civiltà al centro della Galassia. Ma c’erano così tanti luoghi del cielo da esaminare, e così tante frequenze su cui una civiltà aliena avrebbe potuto trasmettere, che si richiedeva un programma sistematico e paziente di osservazione. Argus era in piena attività da più di quattro anni. Cerano stati guasti, segnali di allarme, indizi, falsi allarmi. Ma nessun messaggio. «Buon pomeriggio, dottoressa Arroway.» L’unico ingegnere le sorrise affabilmente e lei contraccambiò con un cenno del capo. Tutti i 131 telescopi del Progetto Argus erano controllati da computers. Il sistema scandagliava il cielo da solo, verificando che non ci fossero guasti meccanici o elettronici, raffrontando i dati provenienti da differenti elementi della schiera di telescopi. Ellie diede un’occhiata all’analizzatore con un miliardo di canali, un impianto elettronico che ricopriva un’intera parete, e all’indicatore visivo dello spettrometro. Non c’era davvero molto da fare per gli astronomi e i tecnici mentre il Very Large Array, nel corso degli anni, passava in rassegna lentamente il cielo. Se scopriva qualcosa di interessante, suonava automaticamente un allarme, mettendo in stato di allerta gli scienziati addetti al progetto, se necessario anche quando fossero stati a letto. In quel caso Ellie Arroway si buttava al lavoro per determinare se si trattasse di un’avaria agli strumenti o di una qualche diavoleria spaziale americana o sovietica. Con lo staff di ingegneri escogitava modi per migliorare la sensibilità dell’apparecchiatura. C’era un segnale ripetuto, una qualche regolarità nell’emissione? Incaricava qualcuno degli addetti ai radiotelescopi di esaminare curiosi oggetti astronomici che erano stati individuati di recente da altri osservatori. Dava una mano ai membri dello staff e agli scienziati ospiti i cui progetti non avevano nessun rapporto con SETI. Volava a Washington per mantenere vivo l’interesse nell’organizzazione per i fondi, la National Science Foundation. Teneva alcune conferenze pubbliche sul Progetto Argus al Rotary Club di Socorro o all’Università del New Mexico ad Albuquerque e occasionalmente porgeva il benvenuto a un intraprendente reporter che arrivava nello sperduto New Mexico all’improvviso. Ellie doveva stare attenta a non lasciarsi sopraffare dalla noia. I suoi collaboratori erano abbastanza piacevoli, ma, a parte il fatto che una stretta relazione personale con un subordinato sarebbe stata sconveniente, non si sentiva tentata da nessuna vera intimità. C’erano stati alcuni rapporti brevi, molto caldi, ma essenzialmente casuali, con uomini del posto che non avevano niente a che fare con il Progetto Argus. Anche in questo settore della sua vita una sorta di tedio, di apatia si era impadronita di lei. Si sedette davanti a una delle consolle e collegò le cuffie. Si rendeva pienamente conto che era una vana presunzione il pensare che lei, ascoltando uno o due canali, potesse scoprire un segnale regolare quando l’enorme sistema computerizzato che controllava un miliardo di canali non c’era riuscito. Ma le dava la modesta illusione di sentirsi utile. Si appoggiò all’indietro, con tli occhi semichiusi, con un’espressione quasi sognante sul volto, davvero bella, si permise di pensare il tecnico. Udì, come al solito, una sorta di crepitio elettrostatico, un rumore casuale che echeggiava continuamente. Una volta, mentre ascoltava una parte del cielo che includeva la stella AC+79 3888 nella costellazione di Cassiopea, aveva creduto di percepire una specie di canto che aumentava e diminuiva d’intensità in maniera tormentosa, arrivando quasi a convincersi che c’era davvero qualcosa lassù. Si trattava della stella verso cui il veicolo spaziale Voyager 1, ora in prossimità dell’orbita di Nettuno, avrebbe finito per fare rotta. Il veicolo trasportava un disco d’oro su cui erano incise notazioni scientifiche e registrati suoni terrestri. Era possibile che ci stessero inviando la loro musica alla velocità della luce, mentre noi contraccambiavamo a una velocità diecimila volte minore? Altre volte, come adesso, quando il crepitio elettrostatico era chiaramente irregolare, si ricordava della ramosa affermazione di Shannon nella teoria dell’informazione, che il messaggio meglio tradotto in cifra era indistinguibile dal rumore, a meno che non si fosse già stati in possesso del cifrario. Premette rapidamente alcuni tasti sulla consolle che le stava davanti e sintonizzò due delle frequenze a banda stretta l’una contro l’altra, una in ciascun auricolare. Nulla. Ascoltò i due piani di polarizzazione delle onde radio, e quindi il contrasto tra la polarizzazione lineare e circolare. C’era un miliardo di canali tra cui scegliere. Si poteva passarla vita tentando di superare il computer, ascoltando con orecchie e cervelli umani pateticamente limitati, cercando un segnale regolare. Sapeva che gli uomini sono bravi a percepire tenui segnali che ci sono davvero, ma anche a immaginarli quando sono completamente assenti. C’erano alcune sequenze di impulsi, alcune conformazioni di cariche elettrostatiche che potevano produrre per un attimo una battuta sincopata o una breve melodia. Si inserì in un paio di radiotelescopi che erano in ascolto di una sorgente radio galattica conosciuta. Udì un glissando sulle frequenze radio, un «sibilo» causato dalla dispersione delle onde radio a opera degli elettroni nel rarefatto gas interstellare esistente tra la radiosorgente e la Terra. Più marcato era il glissando e più elettroni c’erano lungo il percorso, e più lontana era la sorgente dalla Terra. L’aveva fatto così spesso che era capace, solo sentendo un fischio radio per la prima volta, di formulare un giudizio preciso sulla sua distanza. Questo, calcolò, era alla distanza di circa mille anni luce, molto oltre le stelle vicine, ma ancora ben all’interno della Via Lattea. Ellie ritornò al procedimento di controllo del cielo del Progetto Argus. Di nuovo nessun segnale regolare. Era come se un musicista stesse ascoltando il rombo di un temporale lontano. Gli occasionali brandelli di segnale la perseguitavano e si insinuavano nella sua memoria con una tale insistenza che talvolta si sentiva costretta a riesaminare i nastri di un particolare percorso di osservazione per vedere se vi fosse qualcosa che la sua mente aveva percepito e che i computers si erano lasciati sfuggire. Per tutta la vita, i sogni le erano stati amici. I suoi sogni erano insolitamente dettagliati, ben strutturati, pieni di colore. Riusciva a scrutare da vicino il volto del padre o il pannello posteriore di un vecchio apparecchio radio, e il sogno le regalava tutti i particolari visivi. Era sempre stata in grado di ricordare i suoi sogni, persino nei minimi dettagli, tranne le volte in cui era stata estremamente sotto pressione, come prima del suo esame orale di dottorato in fisica, o quando lei e Jesse stavano rompendo. Ma ora stava trovando difficile ricordare le immagini dei suoi sogni. E, in modo sconcertante, cominciò a sognare dei suoni, come fanno coloro che sono ciechi dalla nascita. Nelle primissime ore del mattino, il suo inconscio generava un tema o un breve canto che non aveva mai sentito prima. Allora si svegliava, dava un ordine udibile alla lampada sul suo tavolino da notte, prendeva la penna che aveva messo là a tale scopo, tracciava un pentagramma e affidava la musica alla carta. Talvolta, dopo una lunga giornata la suonava sul suo registratore e si chiedeva se l’aveva udita nella costellazione di Ofiuco o del Capricorno. Era ossessionata, doveva tristemente ammetterlo, dagli elettroni e dalle lacune mobili presenti nei ricevitori e negli amplificatori, e dalle particelle cariche e dai campi magnetici del freddo gas rarefatto esistente tra le lontane stelle tremolanti. Era una singola nota ripetuta, acuta e aspra nei contorni. Ci mise un attimo a riconoscerla. Allora fu sicura di non averla udita per trentacinque anni. Si trattava della puleggia metallica della corda per il bucato, che cigolava lamentosamente ogni volta che sua madre dava uno strappo e stendeva un’altra camicia appena lavata ad asciugare al sole. Quand’era piccina, aveva amato quell’esercito di mollette in marcia e quando non c’era nessuno in giro affondava il volto nelle lenzuola asciutte. L’odore, dolce e penetrante al tempo stesso, l’incantava. Poteva arrivarne una ventata adesso? Ricordava le proprie risa, si rivedeva mentre trotterellava via dalle lenzuola, quando la madre la sollevava con gesto gentile — al cielo pareva a lei — e la portava via sotto il braccio, come se si fosse trattato di un piccolo involto di biancheria da riporre ordinatamente nel cassettone che si trovava nella camera da letto dei suoi genitori. «Dottoressa Arroway? Dottoressa Arroway?» Il tecnico si era chinato a osservare il movimento nervoso delle sue palpebre e il suo debole respiro. Lei battè le palpebre due volte, rimosse le cuffie e gli fece un piccolo sorriso di scuse. Talvolta i suoi colleghi dovevano parlare a voce molto alta se volevano sopraffare il rumore radioelettrico cosmico amplificato. A sua volta lei compensava il volume del rumore — era riluttante a togliersi le cuffie per brevi conversazioni — urlando le sue risposte. Quando era abbastanza assorta, uno scambio casuale o persino allegro di battute poteva sembrare a un osservatore inesperto come un frammento di una discussione violenta e ingiustificata scoppiata inaspettatamente nella quiete della grande installazione radio. Ma questa volta disse soltanto: «Mi dispiace. Mi devo esser lasciata trasportare.» «C’è il dottor Drumlin al telefono. Si trova nell’ufficio di Jack e dice che ha un appuntamento con lei.» «Santo Dio, me n’ero scordata.» Con il passare degli anni, l’acutezza d’ingegno di Drumlin era rimasta immutata, ma si erano aggiunte numerose manie personali che non si erano manifestate quando lei era stata per breve tempo uno dei suoi studenti laureati al Cal Tech. Per esempio, adesso lui aveva la sconcertante abitudine di controllare, quando si credeva inosservato, se avesse la patta aperta. Con gli anni era divenuto sempre più convinto che gli extraterrestri non esistevano, o almeno che erano troppo rari, troppo lontani per poter essere scoperti. Era venuto all’Argus per tenervi la conferenza scientifica settimanale. Ma lei scoprì che era venuto anche con un altro intento. Egli aveva scritto una lettera alla National Science Foundation insistendo perché l’Argus ponesse termine alla sua ricerca di intelligenze extraterrestri e si dedicasse a tempo pieno a una radioastronomia più convenzionale. Estrasse la lettera da una tasca interna della giacca e insistette perché lei ne prendesse visione. «Ma siamo al lavoro soltanto da quattro anni e mezzo. Abbiamo esaminato meno di un terzo del cielo settentrionale. E’ il primo rilevamento che riesce a ridurre al minimo l’intero rumore radioelettrico con passabande ottimali. Perché vorresti che ci fermassimo adesso?» «No, Ellie, è un lavoro interminabile, fra una decina d’anni non troverai traccia di nulla. Allora dimostrerai che si deve costruire un’altra installazione Argus a un costo di centinaia di milioni di dollari in Australia o in Argentina per osservare il cielo meridionale. E quando anche questo fallirà, parlerai di costruire un paraboloide con un alimentatore in volo libero in orbita terrestre per poter ricevere le onde millimetriche. Sarai sempre capace di pensare a qualche tipo di osservazione che non è stata fatta. Inventerai sempre una qualche spiegazione sulle ragioni che spingono gli extraterrestri a trasmettere di preferenza dove non abbiamo guardato.» «Oh, Dave, abbiamo affrontato questo argomento un centinaio di volte. Se falliamo, impariamo qualcosa sulla scarsità di vita intelligente, o almeno di vita intelligente che pensa come noi e vuole comunicare con civiltà arretrate come noi. E se ci riusciamo, sarà il successo cosmico. Non c’è scoperta più grande che si possa fare.» «Ci sono progetti di prim’ordine che non trovano mai liberi i telescopi. C’è del lavoro da fare sull’evoluzione delle quasar, sulle pulsar binarie, sulla cromosfera di stelle vicine, e persino su quelle strane proteine interstellari. Questi progetti stanno aspettando in coda perché questo impianto — di gran lunga il miglior gruppo di dipoli in fase del mondo — viene usato quasi interamente per SETI.» «Settantacinque per cento per SETI, Dave, venticinque per cento per la radioastronomia di routine.» «Non chiamarla di routine. Abbiamo avuto l’opportunità di guardare indietro al tempo in cui si stavano formando le galassie, o forse addirittura più indietro. Possiamo esaminare i nuclei di gigantesche nubi molecolari e i buchi neri al centro delle galassie. C’è una rivoluzione imminente nel campo dell’astronomia e tu ci stai frapponendo degli ostacoli.» «Dave, cerca di non mettere la cosa su un piano personale. Argus non sarebbe mai stato costruito se non ci fosse stato l’appoggio pubblico a SETI. L’idea di Argus non è mia. Sai bene che mi hanno assunto come direttore quando si stavano ancora costruendo gli ultimi quaranta paraboloidi. La National Science Foundation è completamente favorevole al progetto…» «Non completamente, e non se io ho qualcosa da dire a proposito. E’ esibizionismo. Si vuoi fornire materia a ufologi fanatici, a fumetti e ad adolescenti imbecilli.» Ormai Drumlin stava proprio urlando ed Ellie si sentì irresistibilmente tentata di tappargli la bocca. Per la natura del suo compito e per la sua relativa superiorità, finiva per trovarsi costantemente in situazioni in cui era la sola donna presente, a parte quelle che servivano il caffè o le stenografe. Nonostante ciò che sembrava uno sforzo di una vita da parte sua, c’era ancora una schiera di scienziati che parlavano solo tra di loro, insistevano nell’interromperla e ignoravano, quando potevano, quello che lei aveva da dire. Di quando in quando, ce n’erano di quelli, come Drumlin, che manifestavano una chiara antipatia. Ma almeno la stava trattando come trattava molti uomini. Era imparziale nei suoi accessi d’ira, riversandoli equanimemente su scienziati di ambo i sessi. C’erano pochissimi dei suoi colleghi che non mostrassero imbarazzanti mutamenti di personalità in presenza di Ellie. Doveva passare più tempo con loro, pensò. Persone come Kenneth der Heer, il biologo molecolare del Salk Institute che era stato nominato di recente consigliere scientifico presidenziale. E Peter Valerian, naturalmente. L’insofferenza di Drumlin nei confronti dell’Argus era condivisa, ne era al corrente, da molti astronomi. Dopo i primi due anni, una sorta di depressione si era diffusa nell’osservatorio. Ci furono appassionate discussioni allo spaccio viveri o durante le lunghe vigilanze, in cui c’era ben poco da fare, a proposito delle intenzioni dei presunti extraterrestri. Era impossibile immaginare come potessero essere diversi da noi. Era già abbastanza difficile indovinare le intenzioni dei deputati di Washington. Quali sarebbero state le intenzioni di specie fondamentalmente diverse di esseri, su mondi fisicamente diversi, a centinaia o migliaia di anni luce di distanza? Alcuni erano convinti che il segnale non sarebbe stato trasmesso affatto nello spettro radio, ma nell’infrarosso o nel visibile o da qualche parte tra i raggi gamma. O forse gli extraterrestri stavano segnalando a tutto spiano ma con una tecnologia che gli uomini avrebbero inventato di lì a mille anni. Gli astronomi che lavoravano presso altre istituzioni stavano facendo straordinarie scoperte tra le stelle e le galassie, individuando quegli oggetti che, per un qualsiasi meccanismo, producevano intense onde radio. Altri radioastronomi pubblicavano documentazioni scientifiche, partecipavano a congressi, venivano confortati e motivati dalla sensazione di far carriera e di avere una meta. Gli astronomi dell’Argus avevano la tendenza a non pubblicare ed erano di solito ignorati quando si invitava la categoria a presentare dei saggi all’annuale convegno dell’American Astronomical Society o ai simposi triennali e alle sessioni plenarie dell’International Astronomical Union. Perciò, tenendo conto del parere espresso dalla National Science Foundation, la leadership dell’Argus aveva riservato il venticinque per cento del tempo di osservazione a progetti disgiunti dalla ricerca di-intelligenze extraterrestri. Erano state fatte alcune importanti scoperte sugli oggetti extragalattici che sembravano, paradossalmente, muoversi più velocemente della luce; sulla temperatura della superficie di Tritone, la grande luna di Nettuno; e sulla materia nera alla periferia di vicine galassie dove non si riusciva a vedere nessuna stella. Il morale cominciò a risollevarsi. Il personale dell’Argus sentì che stava dando un contributo importante alla scoperta astronomica. Il tempo per completare un esame approfondito del cielo era stato allungato, era vero, ma adesso le loro carriere professionali avevano una sorta di rete di salvataggio. Potevano non riuscire a trovare segni di altri esseri intelligenti, ma f potevano carpire altri segreti custoditi dalla natura. La ricerca di intelligenze extraterrestri — ovunque abbreviata in SETI, tranne che da coloro che parlavano in maniera un po’ più ottimistica di comunicazione con intelligenze extraterrestri (CETI) — era essenzialmente un’osservazione di routine, il noioso compito per cui la maggior parte dell’installazione era stata costruita. Ma si aveva la sicurezza di poter usare per un quarto del tempo la più potente schiera di radiotelescopi presente sulla Terra per altri progetti. Si doveva soltanto superare la parte tediosa. Una piccola quantità di tempo era stata anche riservata ad astronomi provenienti da altre istituzioni. Mentre il morale era migliorato notevolmente, c’erano molti che condividevano il punto di vista di Drumlin; e guardavano con avidità quel miracolo tecnologico rappresentato dai 131 radiotelescopi dell’Argus e immaginavano di poterne disporre per i loro programmi personali, indubbiamente meritori. Con Dave, Ellie fu ora conciliante, ora polemica, ma senza successo. Lui non era di umore gradevole. La conferenza di Drumlin fu in parte un tentativo di dimostrare che non c’erano extraterrestri in nessuna parte dell’universo. Se gli uomini avevano realizzato tanto in così poche mi-gliaia di anni di alta tecnologia, di che cosa doveva essere capace, chiese, una specie davvero avanzata? Avrebbero dovuto essere in grado di muovere le stelle, di riplasmare le galassie. Eppure, in tutta l’astronomia non c’era segno di un fenomeno che non potesse essere spiegato in base a processi naturali, per il quale si fosse fatto appello a un’intelligenza extraterrestre. Perché Argus non aveva ancora scoperto un segnale radio? Supponevano che ci fosse solo un trasmettitore radio in tutto il cielo? Si rendevano conto di quanti miliardi di stelle avessero già esaminato? L’esperimento era stato lodevole, ma ora era finito. Non dovevano passare in rassegna il resto del cielo. La risposta era lampante. Né nelle profondità dello spazio, né nelle vicinanze della Terra c’era traccia di extraterrestri. Non esistevano. Al momento delle domande, uno degli astronomi dell’Argus si informò dell’Ipotesi Zoo, l’opinione controversa che gli extraterrestri ci fossero davvero ma che avessero deciso di non svelare la loro presenza allo scopo di nascondere agli uomini il fatto che c’erano altri esseri intelligenti nel cosmo: come uno specialista in comportamento dei primati preferirebbe osservare un gruppo di scimpanzè nella boscaglia senza interferire nelle loro attività. Drumlin replicò rivolgendo un’altra domanda: era verosimile che con un milione di civiltà nella Galassia — quello era il numero, egli disse, che veniva sbandierato all’Argus — non ci fosse un solo bracconiere? Come mai ogni civiltà della Galassia si conformava a un’etica di non interferenza? Era credibile che neppure una di esse volesse interessarsi della Terra? «Ma sulla Terra,» Ellie ribattè, «bracconieri e guardiacaccia possiedono approssimativamente uguali livelli tecnologici. Se il guardiacaccia si trova un passo avanti — con radar ed elicotteri, diciamo — allora i bracconieri sono impossibilitati ad agire.» L’osservazione venne accolta calorosamente da alcuni membri del personale dell’Argus, ma Drumlin disse soltanto: «Sei tendenziosa Ellie, davvero tendenziosa.» Per schiarirsi le idee Ellie aveva l’abitudine di fare lunghe corse solitarie sulla sua Thunderbird modello 1958, un’auto ben conservata che costituiva la sua unica stravaganza, con il tettuccio mobile e piccoli oblò di vetro ai lati del sedile posterie-re. Spesso lasciava il tettuccio a casa e sfrecciava per il deserto spinoso di notte, con i finestrini abbassati e i capelli bruni che le svolazzavano attorno al capo. Con il passar degli anni le sembrava di conoscere ormai ogni piccola misera città, ogni pinnacolo e ogni altopiano roccioso, e ogni poliziotto dell’autostrada della regione sud-occidentale del New Mexico. Dopo una, notte trascorsa a osservare il cielo, le piaceva oltrepassare rombando il posto di guardia dell’Argus (era prima che venisse! eretto il recinto), e, cambiando rapidamente le marce, puntare verso nord. Nei pressi di Santa Fé, si potevano vedere le prime luci dell’alba sulle montagne del Sangre de Cristo. (Si chiedeva perché mai una religione dovesse chiamare i suoi luoghi con il sangue e il corpo, il cuore e il pancreas del suo personaggio più’ venerato e non con il cervello, tra gli altri organi importanti ma trascurati.) Stavolta si diresse in direzione sud-est, verso le montagne di Sacramento. Dave poteva aver ragione? SETI e Argus potevano essere una sorta di illusione di alcuni astronomi insufficientemente ostinati? Era vero che se anche fossero passati chissà quanti anni senza ricevere un messaggio, il progetto sarebbe andato avanti, inventando sempre una nuova strategia per la civiltà che trasmetteva, creando continuamente nuovi e costosi strumenti? Quando sarebbe stata disposta a rinunciare e a rivolgersi a qualcosa di più sicuro, a qualcosa che desse maggiori garanzie di risultati? Che cosa avrebbe rappresentato un segno convincente di fallimento? L’osservatorio di Nobeyama in Giappone aveva appena annunciato la scoperta di adenosina, una complessa molecola organica, un componente fondamentale del DNA, nello spazio, in una densa nube molecolare. Lei poteva certamente dedicarsi con profitto alla ricerca di molecole imparentate con la vita nello spazio, anche se rinunciava a quella di un’intelligenza extraterrestre. Sulla strada di alta montagna, lanciò uno sguardo all’orizzonte meridionale e vide di sfuggita la costellazione del Centauro. In quel gruppo ordinato di stelle gli antichi Greci avevano visto una creatura chimerica, mezzo uomo, mezzo cavallo, che aveva insegnato a Zeus la saggezza. Ma Ellie non sarebbe mai riuscita a vedervi qualcosa che somigliasse seppur lontanamente a un centauro. Era Alpha Centauri, la stella più luminosa della costellazione, che l’affascinava. Era la stella più vicina, distante soltanto 4,3 anni luce dal sistema solare. In realtà, Alpha Centauri era un sistema triplo, in cui due soli orbitavano strettamente l’uno attorno all’altro, mentre un terzo, più lontano, girava attorno ai primi due. Dalla Terra, le tre stelle apparivano congiunte a formare un solitario punto luminoso. In notti particolarmente chiare, come quella, lei poteva talvolta vederlo librarsi sul Messico. Talvolta, quando l’aria si era riempita del pulviscolo del deserto dopo parecchi giorni consecutivi di tempeste di sabbia, si recava tra le montagne per raggiungere una modesta altezza e la trasparenza atmosferica, usciva dall’auto e contemplava il più vicino sistema stellare, dove era possibile che vi fossero dei pianeti, anche se molto difficili da scoprire. Qualcuno poteva orbitare vicino a uno dei tre soli. Un’orbita più interessante, con una meccanica celeste di discreta stabilità, era quella a otto attorno ai due soli interni. Si domandava come potesse essere la vita su un mondo con tre soli in cielo. Probabilmente ancora più calda che nel New Mexico. Ellie si accorse con un leggero brivido di piacere che l’asfalto dell’autostrada a doppia corsia era fiancheggiato da conigli. Li aveva visti in precedenza, specialmente quando le sue corse in auto l’avevano portata fino nel West Texas. Stavano sulle quattro zampe ai bordi della strada; ma quando venivano illuminati per un attimo dai nuovi fari al quarzo della Thurderbird si sollevavano sulle zampe posteriori, con quelle anteriori che pendevano mollemente, attoniti. Per miglia c’era una guardia d’onore di conigli del deserto che la salutavano, così sembrava, mentre lei sfrecciava rombando nella notte. Guardavano in su, mille nasi rosa palpitanti, duemila occhi lucidi risplendenti nell’oscurità, mentre questa apparizione si precipitava verso di loro. Forse è una sorta di esperienza religiosa, pensò. Essi sembravano per lo più esemplari giovani. Forse non avevano mai visto i fari di un’auto. A pensarci, era abbastanza stupefacente: due intensi raggi di luce che viaggiavano alla velocità di centotrenta chilometri all’ora. Nonostante le migliaia di conigli che si allineavano lungo la strada, non sembrava mai che ce ne fosse uno in mezzo alla carreggiata, vicino allo spartitraffico, non si percepiva mai un confuso zampettare via dalla strada, non si scorgeva mai un povero corpicino senza vita, con le orecchie allungate a fianco della massicciata. Perché se ne stavano allineati lungo la via? Forse era la temperatura dell’asfalto ad attirarli o poteva darsi che stessero soltanto brucando i vicini cespugli e che le luci violente che si avvicinavano avessero stimolato la loro curiosità. Ma era logico che nessuno di loro avesse mai compiuto alcuni brevi balzi per visitare i suoi cugini al di là della strada? Che cosa immaginavano fosse l’autostrada? Una presenza aliena fra loro, dalla funzione misteriosa, costruita da creature che la maggior parte di loro non aveva mai visto? Dubitava che si ponessero un simile interrogativo. Lo stridio dei suoi pneumatici sull’autostrada era una specie di rumore bianco e si accorse che anche qui, istintivamente, era in ascolto per scoprirvi un messaggio regolare. Aveva preso l’abitudine di ascoltare attentamente molte fonti di rumore bianco: il motore del frigorifero che si metteva in moto nel cuore della notte; l’acqua che scorreva nella sua vasca da bagno; la lavatrice quando faceva il bucato nello stanzino a fianco della cucina; il mugghiare dell’oceano durante una breve vacanza all’isola di Cozumel al largo dello Yucatan, che aveva abbreviato per l’impazienza di ritornare a lavorare. Ascoltava queste sorgenti quotidiane di rumore casuale e tentava di determinare se vi fossero in loro minori apparenti caratteri di periodicità che nelle scariche elettriche interstellari. Era stata a New York City l’agosto precedente per un convegno dell’URSI (l’abbreviazione francese per International Scien-tific Radio Union). La metropolitana era pericolosa, le era stato detto, ma il rumore bianco era irresistibile. Nel «clacka-clacka» di quella sotterranea aveva creduto di aver sentito una chiave, e con decisione saltò una mezza giornata di incontri, viaggiando dalla Trentaquattresima Strada a Coney Island, per poi ritornare al centro di Manhattan, e quindi su una diversa linea dirigersi al più lontano Queens. Cambiò treno in una stazione di Jamaica e finalmente ritornò un po’ accaldata e ansimante — era, dopo tutto, un afoso giorno d’agosto, si disse — all’hotel del congresso. Talvolta, quando la metropolitana affrontava una curva stretta le lampadine interne si spegnevano ed Ellie poteva vedere una successione regolare di luci, di un bel blu elettrico, che sfrecciavano via come se si fosse trovata in un’impossibile astronave iperrelativistica, viaggiante a velocità folle tra un ammasso di giovani stelle azzurre supergiganti. Poi, quando il treno infilava un rettilineo, le luci interne si riaccendevano e lei ritornava cosciente dell’odore acre, dell’afrore di umanità, delle gomitate dei viaggiatori in piedi, delle piccole telecamere di sorveglianza (chiuse in gabbie di protezione che non impedivano il loro accecamento con le vernici spray), delle stilizzate piante multicolori che illustravano il completo sistema di trasporto sotterraneo della città di New York, e dello stridore ad alta frequenza dei freni quando si entrava nelle stazioni. Si rendeva conto di una certa eccentricità della cosa, ma aveva sempre avuto una fantasia sbrigliata. Benissimo, così aveva la mania, innocua, di ascoltare i rumori! Nessuno sembrava farci molto caso e, in tutti i modi, era qualcosa di connesso al suo lavoro. Se fosse stata furba, probabilmente avrebbe dedotto le spese del viaggio a Cozumel per il suono dei frangenti dalle sue imposte sul reddito. Forse, stava proprio diventando preda di un’ossessione. Si accorse con un moto di sorpresa di essere arrivata alla stazione di Rockefeller Center. Mentre scendeva in fretta calpestando dei giornali abbandonati sul pavimento della vettura della metropolitana, era stata attratta da un titolo del «News-Post»: GUERRIGLIERI si IMPADRONISCONO DELLA RADIO DI JOBURG. Se simpatizziamo per loro, sono combattenti per la libertà, pensò. Se non ci piacciono, sono dei terroristi. Nel caso improbabile che non sappiamo deciderci, sono temporaneamente solo guerriglieri. Su di un vicino pezzo di giornale c’era una grande foto di un uomo florido e baldanzoso con il titolo: COME FINIRÀ IL MONDO. ESTRATTI DAL NUOVO LIBRO DEL REV. BILLY Jo RANKIN. IN ESCLUSIVA QUESTA SETTIMANA SUL «NEWS-POST». Aveva letto i titoli di sfuggita e cercò prontamente di dimenticarli. Fendendo la folla, si diresse alla volta dell’hotel del congresso con la speranza di fare ancora in tempo ad ascoltare il discorso di Fujita sul progetto di un radiotelescopio omomorfico. Sovrapposto allo stridere dei pneumatici c’era un toc-toc periodico provocato dalle giunture di strati d’asfalto stesi più volte dagli addetti alla manutenzione stradale del New Mexico in periodi diversi. E se un messaggio interstellare fosse stato ricevuto dal Progetto Argus, ma molto lentamente: un bit di informazione ogni ora, diciamo, o ogni settimana, o ogni dieci anni? E se ci fossero stati sussurri antichissimi e pazientissimi di una qualche civiltà in vena di trasmissioni, che non avesse modo di sapere che noi ci stanchiamo di individuare un segnale regolare dopo pochi secondi o pochi minuti? Supponiamo che riuscissero a vivere decine di migliaia di anni. E che «parlaaaaassero molll-llto lentaaaaameeeeente». Argus non l’avrebbe mai saputo. Potevano esistere creature così longeve? Ci sarebbe stato abbastanza tempo nella storia dell’universo per creature così lente nel riprodursi per arrivare a un alto grado di intelligenza? L’inevitabile dissolversi dei legami chimici, il deterioramento dei loro corpi conformemente al secondo principio della termodinamica, non li avrebbero costretti a riprodursi pressappoco con la stessa frequenza degli esseri umani? E ad avere vite brevi come le nostre? O avrebbero potuto abitare su un mondo vecchio e algido, dove persino le collisioni molecolari si sarebbero verificate al rallentatore, forse al ritmo di un solo fotogramma al giorno? Immaginò inutilmente un radiotrasmettitore di forma riconoscibile e familiare collocato su un picco di metano ghiacciato, debolmente illuminato da una lontana nana rossa, mentre le onde sottostanti di un oceano di ammoniaca sferzavano implacabili la riva, producendo casualmente un rumore bianco indistinguibile da quello dei frangenti a Cozumel. Ma era possibile anche il contrario: il caso cioè di parlatori veloci, piccole creature nevrotiche forse, in movimento veloce e a scatti, che trasmettevano un completo messaggio radio — l’equivalente di centinaia di pagine di testo inglese — in un nanosecondo. Naturalmente se si aveva per il proprio ricevitore una passabanda molto stretta di modo che si ascoltava soltanto una limitatissima gamma di frequenze, si era obbligati ad accettare la costante di tempo lungo. Non si sarebbe mai stati in grado di scoprire una modulazione rapida. Era una semplice conseguenza del teorema integrale di Fourier, e in stretta connessione con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Così, per esempio, se si aveva una passabanda di un chilohertz, non si poteva decifrare un segnale che venisse modulato a una velocità superiore a un millisecondo. Sarebbe stato una sorta di ronzio indistinto. Le passabande dell’Argus erano più strette di un hertz, così per essere scoperti i trasmettitori dovevano modulare molto lentamente, più lentamente di un bit di informazione al secondo. Modulazioni ancora più lente — più lunghe di ore, diciamo — potevano essere scoperte facilmente, purché si avesse la volontà di puntare un telescopio in direzione della sorgente per quella durata, purché si fosse straordinariamente pazienti. C’erano tante sezioni del cielo da esaminare, tante centinaia di miliardi di stelle da scoprire. Non si poteva spendere tutto il proprio tempo dedicandosi soltanto ad alcune di loro. Ellie pensava, piena di turbamento, che nella loro fretta di fare un esame totale del cielo in un tempo inferiore a quello di una vita umana, di ascoltare tutto il cielo a miliardi di frequenze, avevano trascurato sia i parlatori frenetici, sia i laconici tardigradi. Ma era sicura che essi sapessero meglio di noi quali frequenze di modulazione fossero accettabili. Avrebbero avuto già pratica di comunicazione interstellare e di civiltà emergenti da poco. Se c’era una vasta gamma di probabili frequenze di impulsi che la civiltà ricevente avrebbe adottato, la civiltà trasmittente avrebbe utilizzato tale gamma. Modulare a microsecondi, modulare a ore. Che cosa sarebbe costato loro? Quasi tutti avrebbero avuto un’ingegneria superiore ed enormi risorse energetiche rispetto ai livelli terrestri. Se volevano comunicare con noi, ci avrebbero facilitato il compito. Ci avrebbero inviato dei segnali con molte frequenze diverse. Avrebbero usato molte differenti scale temporali di modulazione. Avrebbero saputo quanto fossimo indietro e ne avrebbero avuto compassione. E allora, perché non avevamo ricevuto nessun segnale? Era possibile che Dave avesse ragione? Nessuna civiltà extraterrestre in nessun punto dell’universo? Tutti quei miliardi di mondi sprecati, senza vita, sterili? Esseri intelligenti che crescevano soltanto in questo oscuro angolo di un universo incomprensibilmente vasto? Per quanto si sforzasse, Ellie non riusciva a prendere in considerazione seriamente una simile possibilità che si adattava perfettamente ai timori e alle aspirazioni degli uomini, a dottrine indimostrate sulla vita dopo la morte, a pseudoscienze come l’astrologia. Era la moderna incarnazione del solipsismo geocentrico, la presunzione che aveva posseduto i nostri antenati, il concetto che «noi» eravamo il centro dell’universo. Per queste sole ragioni la tesi di Drumlin era sospetta. Ci volevamo credere troppo. Aspetta un minuto, pensò. Non abbiamo ancora esaminato una volta sola i cicli boreali con il sistema Argus. Fra altri sette o otto anni, se non udremo ancora nulla, allora sarà il momento di cominciare a preoccuparsi. E’ la prima volta nella storia umana che è possibile cercare gli abitanti di altri mondi. Se sarà un fallimento, avremo avuto la prova della rarità e preziosità della vita sul nostro pianeta — una realtà, se lo è, che merita moltissimo di essere conosciuta. E, se sarà un successo, avremo cambiato la storia della nostra specie, avremo spezzato le catene del provincialismo. Con una posta così alta, bisogna avere il coraggio di affrontare alcuni piccoli rischi professionali, disse a se stessa. Andò fuori strada, compì una stretta curva, cambiò marce due volte e accelerò per ritornare all’Argus. I conigli, che se ne stavano ancora lungo il ciglio della strada, tinti di rosa dall’aurora, allungarono il collo per seguire la sua partenza. 4 NUMERI PRIMI «Non ci sono Moravi sulla Luna, che abbiano inviato un missionario in visita a questo nostro povero pianeta pagano per civilizzare la civiltà e cristianizzare la cristianità?»      HERMAN MELVILLE, Giacchetta bianca (1850) «Il silenzio solo è grande; il resto è debolezza.»      ALFRED DE VIGNY, La morte del lupo (1864) Il gelido vuoto era stato lasciato indietro. Gli impulsi si stavano ora avvicinando a una comune nana gialla e avevano già cominciato a riversarsi sui mondi che facevano parte di questo oscuro sistema. Avevano ondeggiato accanto a pianeti di idrogeno, erano penetrati in lune di ghiaccio, avevano attraversato le nubi organiche di un mondo algido su cui si stavano rimescolando le molecole precursori della vita, e sfiorato un pianeta vecchio di miliardi di anni. Adesso gli impulsi stavano lambendo un mondo caldo, blu e bianco, che ruotava su uno sfondo di stelle. Su questo mondo c’era la vita, straordinaria per quantità e varietà. C’erano ragni saltatori sulle gelide vette delle montagne più alte e vermi che si nutrivano di zolfo in calde esalazioni sgorganti da fratture dei fondali oceanici. C’erano esseri che potevano vivere solamente in acido solforico concentrato, ed esseri che venivano distrutti dall’acido solforico concentrato; organismi che venivano avvelenati dall’ossigeno, e organismi che potevano sopravvivere soltanto nell’ossigeno, che lo respiravano addirittura. Una particolare forma di vita, con una modesta intelligenza, si era da poco diffusa sul pianeta. Avevano degli avamposti nel fondo degli oceani e in orbita a bassa altezza. Erano sciamati in ogni angolo e ogni buco del loro piccolo mondo. La linea che segnava il passaggio dalla notte al giorno stava avanzando verso occidente, eseguendo il suo movimento, milioni di questi esseri procedevano al rituale delle loro abluzioni mattutine. Indossavano cappotti pesanti e perizomi; bevevano infusi di caffè, tè o cicoria; guidavano biciclette, automobili o buoi; e davano un’occhiata ai compiti scolastici, ai prospetti per la semina di primavera e al destino del mondo. I primi impulsi del flusso di onde radio si insinuarono nell’atmosfera e nelle nubi, colpirono il paesaggio e vennero parzialmente riflesse indietro nello spazio. Mentre la Terra si girava sotto di loro, arrivarono nuovi impulsi, investendo non solo quest’unico pianeta, ma l’intero sistema. Pochissima di questa energia venne intercettata da qualcuno dei mondi. La maggior parte di essa passò oltre facilmente, mentre la stella gialla e i mondi che le giravano attorno si immergevano, in direzione totalmente differente, in una tenebra d’inchiostro. Indossando un giubbotto di dracon recante la scritta «Marauders» sopra una palla di feltro stilizzata, lo scienziato di servizio, che stava per cominciare il suo turno di notte, si avvicinò all’edificio di controllo. In quel momento un gruppo di radioastronomi si stava allontanando per andare a cena. «Ehi, da quanto è che voi ragazzi state cercando gli omini verdi? Sono più di cinque anni ormai, non è vero, Willie?» Lo prendevano in giro bonariamente, ma potè scoprire una punta di veleno nella loro canzonatura. «Dateci un’opportunità, Willie,» un altro di loro disse. «Il programma della luminosità delle quasar sta andando a gonfie vele. Ma durerà un’eternità se abbiamo solo il due per cento del tempo di accesso al telescopio.» «Certo, Jack, certo.» «Willie, stiamo guardando indietro all’origine dell’universo. C’è una grande posta in gioco anche nel nostro programma e ‘sappiamo’ che c’è un universo lassù; voi non sapete che ci sia neppure un solo omino verde.» «Vallo a dire al dottor Arroway. Sono sicuro che sarà contenta di ascoltare la tua opinione,» ribattè lui un po’ acido. Lo scienziato di servizio entrò nell’area di controllo. Passò in rassegna rapidamente decine di schermi televisivi che controllavano l’avanzare della ricerca radio. Avevano appena finito di esaminare la costellazione di Ercole. Avevano scrutato nel centro di un grande sciame di galassie molto oltre la Via Lattea, l’ammasso di Ercole, distante un centinaio di milioni di anni luce; si erano sintonizzati su M-13, un ammasso globulare di circa 300.000 stelle, legate gravitazionalmente insieme, in orbita attorno alla Via Lattea, a 26.000 anni luce di distanza; avevano esaminato Ras Algethi, un sistema binario, e Zeta e Lambda Herculis, alcune stelle differenti dal Sole, altre simili a esso, tutte vicine. La maggior parte delle stelle visibili a occhio nudo si trova a meno di alcune centinaia di anni luce di distanza. Avevano controllato attentamente centinaia di piccoli settori del cielo entro la costellazione di Ercole a un miliardo di frequenze separate e non avevano udito nulla. Negli anni precedenti, avevano perlustrato le costellazioni immediatamente a ovest di Ercole, Serpens, Corona Borealis, Boòtes, Canes Venatici… e anche là non avevano sentito nulla. Lo scienziato di servizio poteva vedere che alcuni dei telescopi erano intenti a raccogliere alcuni dati tralasciati nella costellazione di Ercole. I rimanenti erano puntati con precisione verso un settore adiacente di cielo, la costellazione immediatamente a est di Ercole. I popoli del Mediterraneo orientale, migliaia di anni prima, l’avevano paragonata a uno strumento musicale a corde e l’avevano associata a Orfeo, l’eroe greco. Era una costellazione chiamata Lira. I computer dirigevano i telescopi in modo da seguire le stelle della Lira dal loro sorgere al loro tramontare, accumulavano i radio fotoni, controllavano le condizioni dei telescopi, ed elaboravano i dati in un formato adatto ai loro operatori umani. Persino «un solo» scienziato di servizio era in un certo senso di troppo. Passando accanto a un distributore di caramelle, a una macchinetta per il caffè, a una frase in caratteri runici tratta da Tolkien dall’Artificial Intelligence Laboratory di Stanford, e a una placca da paraurti che diceva: i BUCHI NERI SONO INVISIBILI, Willie si avvicinò al banco dei comandi. Salutò cordialmente lo scienziato di servizio del pomeriggio che stava ora raccogliendo i suoi appunti e si preparava ad andarsene per la cena. Poiché i dati giornalieri venivano compendiati in maniera appropriata in ambra sul visualizzatore principale, Willie non ebbe bisogno di informarsi sull’andamento delle ore precedenti. «Come puoi vedere, non c’è molto. C’è stato un errore di puntamento — almeno così sembrava — al quarantanove,» disse, facendo un vago cenno verso la finestra. «Il gruppo di quasar ha lasciato liberi i telescopi 1-10 e 1-20 circa un’ora fa. Sembra che stiano ricevendo degli ottimi dati.» «Sì, ho sentito. Non capiscono…» La voce gli si spense in gola quando un allarme luminoso si mise a lampeggiare dignitosamente sulla consolle che stava loro di fronte. Su un quadrante contrassegnato con «intensità-frequenza», si accendeva una fila verticale di leds. «Ehi, guarda, è un segnale monocromatico.» Un altro quadrante, «intensità-tempo», mostrava una serie di impulsi che si muovevano da sinistra a destra e quindi uscivano dallo schermo. «Quelli sono numeri,» Willie disse debolmente. «Qualcuno sta trasmettendo dei numeri.» «Si tratta probabilmente di qualche interferenza dell’aviazione. Ho visto un AWACS, forse da Kirtland, a circa 1600. Può darsi che ci stiano facendo uno scherzo.» C’erano stati solenni accordi per salvaguardare almeno alcune frequenze radio per l’astronomia. Ma proprio perché tali frequenze rappresentavano un canale libero, i militari le trovavano di quando in quando irresistibili. Se mai fosse scoppiata una guerra globale, forse i radioastronomi sarebbero stati i primi a saperlo, con le loro finestre sul cosmo traboccante di ordini ai satelliti per la direzione della battaglia e il rilevamento dei danni, in orbita geosincronica, e di trasmissioni di comandi di lancio cifrati a lontani avamposti strategici. Ma anche senza trasmissioni militari, ascoltando contemporaneamente un miliardo di frequenze, gli astronomi dovevano attendersi qualche interferenza. I fulmini, le accensioni delle auto, i satelliti per le trasmissioni dirette erano tutte fonti di interferenze radio. Ma i computers avevano il loro numero, conoscevano le loro caratteristiche e sistematicamente li ignoravano. Per segnali che presentassero una maggiore ambiguità, il computer si metteva ad ascoltare con maggior attenzione e si assicurava che non avessero niente a che vedere con nessuna scorta di dati che era programmato a capire. Di quando in quando, un velivolo per lo spionaggio elettronico in missione di addestramento — talvolta con una coppa radar abilmente mascherata da disco volante messo di taglio — sfrecciava nelle vicinanze e Argus scopriva improvvisamente segni inequivocabili di vita intelligente. Ma risultava sempre trattarsi di una vita di un tipo particolare e deprimente, intelligente fino a un certo punto, extraterrestre per modo di dire. Alcuni mesi prima, un F-29E con le più moderne contromisure elettroniche aveva sorvolato la zona all’altezza di 80.000 piedi e aveva fatto scattare gli allarmi su tutti i 131 telescopi. Agli occhi poco militari degli astronomi, il segnale radio era stato abbastanza complesso per essere un primo messaggio plausibile di una civiltà extraterrestre. Ma scoprirono che il radiotelescopio più occidentale aveva ricevuto il segnale esattamente un minuto prima di quello più orientale, e ben presto fu chiaro che si trattava di un oggetto sfrecciante attraverso il sottile involucro gassoso che circonda la Terra piuttosto che una trasmissione da una qualche civilità inconcepibilmente diversa presente nelle profondità dello spazio. Quasi certamente questa volta era la stessa cosa. Le dita della sua mano destra erano inserite nelle cinque cavità intervallate in modo regolare di una bassa scatola sulla sua scrivania. Da quando era apparso questo aggeggio, Ellie riusciva a risparmiare mezz’ora alla settimana. Ma non c’era stato davvero un gran che da fare con quella mezz’ora extra. «E stavo raccontando tutto alla signora Yarborough. E’ quella che sta nel letto accanto, ora che la signora Wertheimer è morta. Non ho l’intenzione di vantarmi, ma mi attribuisco un certo merito per quello che hai fatto nella vita.» «Sì, mamma.» Si esaminava lo smalto sulle unghie e decise che avevano bisogno di un altro minuto, forse di un minuto e mezzo. «Stavo pensando a quella volta in quarta, ricordi? Quando pioveva a dirotto e tu non volevi andare a scuola? Volevi che ti scrivessi una giustificazione per il giorno dopo, dicendo che eri rimasta a casa perché stavi male. E io non te l’ho voluta fare. Ti dissi: ‘Ellie, oltre all’essere belli, la cosa più importante del mondo è un’educazione. Non si può fare molto per la bellezza, ma si può fare qualcosa per l’educazione. Va’ a scuola. Non si sa mai quel che puoi imparare oggi.’ Non è vero?» «Sì, mamma.» «Ma, voglio dire, non è quello che ti dissi allora?» «Sì, me ne ricordo, mammina.» Lo smalto su quattro unghie era perfetto, ma quello del pollice aveva ancora un aspetto opaco. «Così presi le tue galosce e il tuo impermeabile — era uno di quelli gialli, ti faceva sembrare graziosa come un bocciolo — e ti spedii a scuola. E quello fu il giorno in cui non riuscisti a rispondere a una domanda durante la lezione di matematica del signor Weisbrod? Ti arrabbiasti tanto che ti precipitasti alla biblioteca del college e ti documentasti sull’argomento finché non ne sapesti di più del signor Weisbrod. Ne fu impressionato. Me lo disse.» «Te lo disse? Non lo sapevo. Quando parlasti con il signor Weisbrod?» «Durante un incontro genitori-insegnanti. Mi disse: ‘La sua figliola ha del coraggio.’ O qualcosa del genere. ‘Era così infuriata con me che è diventata una vera esperta in materia.’ ‘Esperta.’ Ecco quello che disse. Sono convinta di avertelo riferito.» Aveva i piedi appoggiati su un cassetto della scrivania mentre si abbandonava sulla sua poltrona girevole; l’equilibrio era garantito soltanto dalle dita inserite nella macchina dello smalto. Percepì il cicalino quasi prima di sentirlo davvero e si tirò su bruscamente. «Mammina, devo andare.» «Sono sicura di averti già raccontato questa storia. Non fai mai attenzione a quel che sto dicendo. Il signor Weisbrod era un brav’uomo. Non sei mai riuscita a vederne il lato buono.» «Mamma, davvero, devo andare. Abbiamo captato una sorta di bogey.» «Bogey?» «Lo sai, mamma, qualcosa che potrebbe essere un segnale. Ne abbiamo parlato.» «Eccoci tutte e due a pensare che l’altra non stia ad ascoltare. Tale la madre, tale la figlia.» «Ciao, mamma.» «Ti lascio andare se mi prometti di chiamarmi fra poco.» «D’accordo, mamma, promesso.» Durante l’intera conversazione, la pena e la solitudine della madre avevano suscitato in Ellie il desiderio di troncare il colloquio, di scappare via. Si odiava per questo. Entrò a passo spedito nell’area di controllo è si avvicinò alla consolle principale. «‘Sera, Willie, Steve. Vediamo i dati. Bene. Adesso dove è riposto il diagramma dell’ampiezza? Bene. Avete la posizione interferometrica? Okay. Ora vediamo se c’è qualche stella vicina in quel campo visivo. Oh accipicchia, stiamo guardando Vega. E’ un astro abbastanza vicino.» Le sue dita stavano maltrattando una tastiera mentre parlava. «Guardate, si trova alla distanza di soli ventisei anni luce. E’ stata osservata in precedenza, sempre con risultati negativi. L’ho guardata io stessa durante il mio primo rilevamento ad Arecibo. Qual è l’intensità assoluta? Santo Dio! Sono centinaia di janskys. Praticamente la si potrebbe ricevere su una comune radio a modulazione di frequenza. Okay. Così abbiamo un bogey molto vicino a Vega sul piano del cielo. E’ a una frequenza di circa 9,2 gigahertz, non proprio monocromatica: la larghezza di banda è di alcune centinaia di hertz. E’ polarizzato linearmente e sta trasmettendo una serie di impulsi magnetodinamici limitati a due diverse ampiezze.» In risposta ai suoi comandi sulla tastiera, lo schermo ora mostrava la disposizione di tutti i radiotelescopi. «Lo stanno ricevendo 116 telescopi. Chiaramente non si tratta di un cattivo funzionamento in uno o due di essi. Okay, adesso dovremmo avere linea di base dei tempi in abbondanza. Si sta muovendo con le stelle? O potrebbe essere un qualche satellite ELINT o un aereo?» «Posso confermare il moto sidereo, dottor Arroway.» «Okay, è abbastanza convincente. Non è qui sulla Terra, e probabilmente non proviene da un satellite artificiale in un’orbita di Molniya, anche se dovremmo controllarlo. Quando puoi, Willie, chiama la NORAD e senti quello che ti dicono sulla possibilità di un satellite. Se possiamo escludere i satelliti, allora ci restano due possibilità: o si tratta di uno scherzo, o qualcuno si è finalmente deciso a inviarci un messaggio. Steve, passiamo al comando manuale. Controlla alcuni radiotelescopi — la forza del segnale è certamente sufficiente — e vedi se c’è l’eventualità che si tratti di uno scherzo; sai, un tiro birbone da parte di qualcuno che desidera dimostrarci che i nostri metodi sono sbagliati.» Un gruppetto di altri scienziati e tecnici, messi in stato d’allarme attraverso i loro cicalini dal computer dell’Argus, si era raccolto attorno alla consolle dei comandi. Sui loro volti c’era l’ombra di un sorriso. Nessuno di loro stava ancora pensando seriamente a un messaggio da un altro mondo, ma c’era un’aria di vacanza inaspettata, un’interruzione nella noiosa routine cui si erano abituati, e forse una certa atmosfera di attesa. «Se qualcuno di voi riesce a pensare a qualche altra spiegazione oltre a quella di un’intelligenza extraterrestre, voglio sentire quello che ha da dire in proposito,» disse Ellie, mostrando che si era accorta della loro presenza. «Non è possibile che si tratti di Vega, dottor Arroway. Il sistema ha solo alcune centinaia di milioni di anni. I suoi pianeti sono ancora in via di formazione. Manca il tempo perché vi si sia sviluppata una vita intelligente. Deve essere una qualche stella sullo sfondo. O una galassia.» «Ma allora la potenza del trasmettitore dovrebbe essere incredibile,» ribattè un membro del gruppo quasar che era ritornato indietro per vedere cosa stesse succedendo. «Dobbiamo procedere a. un accurato studio del moto proprio per poter stabilire se la sorgente radio si muove con Vega.» «Naturalmente, hai ragione circa il moto proprio, Jack,» lei disse. «Ma c’è un’altra possibilità. Forse non si sono evoluti nel sistema di Vega. Forse sono solo in visita.» «Neppure questa ipotesi regge. Il sistema è pieno di frammenti vaganti. E’ un sistema solare mancato o un sistema solare ancora nei suoi stadi primitivi di sviluppo. Se ci restano molto a lungo, la loro astronave verrebbe gravemente danneggiata.» «Perciò ci sono arrivati soltanto da poco. O riescono a disintegrare i meteoriti che li minacciano. O cambiano rotta se c’è un frammento su una traiettoria di collisione. Oppure non si trovano sul piano equatoriale ma in orbita polare, così possono ridurre al minimo i loro impatti con i meteoriti. C’è un milione di possibilità. Ma hai assolutamente ragione; non dobbiamo tirare a indovinare se la sorgente si trova nel sistema di Vega. Possiamo scoprirlo con esattezza. Quanto durerà lo studio sul moto proprio? A proposito, Steve, non è il tuo turno. Almeno dì a Consuelo che farai tardi per la cena.» Willie, che aveva parlato al telefono da una consolle adiacente, aveva sulle labbra un debole sorriso. «Bene, mi sono messo in contatto con un certo maggiore Braintree alla NORAD. Giura e spergiura che non hanno nulla che possa produrre questo segnale, specialmente a nove gigahertz. Naturalmente, ce lo dicono ogni volta che chiamiamo. A ogni modo, lui dice che non hanno individuato nessun velivolo spaziale sulla retta ascensionale e declinazionale di Vega.» «Che ne dite dei muti?» Al momento, c’erano molti satelliti «muti» con ridotte superfici d’eco, progettati per orbitare attorno alla Terra senza poter essere intercettati fino al momento del bisogno. Allora sarebbero serviti come riserve per l’individuazione dei lanci di missili o per le comunicazioni in una guerra nucleare, nel caso che i satelliti militari in prima linea, destinati a tali impieghi, venissero a mancare all’improvviso in combattimento. Di quando in quando, un «muto» veniva scoperto da uno dei più importanti sistemi radar astronomici. Tutte le nazioni negavano che l’oggetto appartenesse a loro, e si cominciava freneticamente a congetturare che un veicolo spaziale extraterrestre fosse stato scoperto in orbita terrestre. All’avvicinarsi del nuovo millennio, gli UFO erano di nuovo in auge. «L’interferometria adesso esclude un’orbita del tipo Molniya, dottor Arroway.» «Di bene in meglio. Adesso esaminiamo più da vicino que gli impulsi magnetodinamici. Presumendo che si tratti di numerazione binaria, qualcuno l’ha convertita in quella decimale? Sappiamo qual è la sequenza dei numeri? Okay, ecco lo possiamo fare da soli… cinquantanove, sessantuno, sessantasette… settantuno… Non sono tutti numeri primi?» Un lieve mormorio di eccitazione si diffuse per la sala di controllo. Il volto di Ellie rivelò per un attimo un turbamento dovuto a qualcosa di profondamente sentito, che fu però prontamente sostituito da una calma, da un timore di lasciarsi trasportare, da una preoccupazione di apparire stupida, poco scientifica., «Okay, vediamo se riesco a fare un altro veloce riepilogo. Lo farò con il linguaggio più semplice. Per favore, controllate se ho tralasciato qualcosa. Abbiamo un segnale estremamente forte, non proprio monocromatico. Immediatamente al di fuori della banda di passaggio di questo segnale non ci sono altre frequenze che trasmettano qualcosa oltre al rumore. Il segnale è polarizzato linearmente, come se fosse trasmesso da un radiotelescopio. Il segnale è di circa nove gigahertz, vicino al minimo del rumore radio di fondo proveniente dalle galassie. E’ il tipo adatto di frequenza per chiunque voglia essere udito a grande distanza. Abbiamo confermato il moto sidereo della sorgente, perciò si sta muovendo come se fosse lassù tra le stelle e non come se provenisse da qualche trasmettitore locale. NORAD ci dice che non individuano nessun satellite — nostro o di chiunque altro — che si adatti alla posizione di questa sorgente. L’interferometria esclude; comunque una sorgente in orbita terrestre. Adesso Steve ha guardato i dati al di fuori del codice automatizzato e non sembra essere un programma che qualcuno con un; perverso senso dell’umorismo abbia inserito nel computer. La regione del cielo che stiamo guardando include Vega, che è una i stella nana A zero della sequenza principale. Non è esattamente come il Sole, ma dista soltanto ventisei anni luce e ha l’anello prototipo di frammenti stellari. Non ci sono pianeti noti, ma potrebbero certamente esserci attorno a Vega dei pianeti di cui non sappiamo nulla. Stiamo accingendoci a uno studio del moto proprio per vedere se la sorgente si trova un bel po’ dietro la nostra linea ottica in direzione di Vega e dovremmo avere una risposta fra — diciamo — alcune settimane se ci affidiamo alle nostre sole forze, fra alcune ore se procediamo a una interferometria della linea di base. Infine, il segnale che ci stanno inviando sembra essere una lunga sequenza di numeri primi, cioè numeri interi divisibili soltanto per se stessi e per l’unità. Nessun processo astrofisico dovrebbe produrre numeri primi. Perciò oserei dire — vogliamo essere cauti naturalmente — dunque oserei dire che, tutto considerato, si dovrebbe essere di fronte all’evento tanto atteso. Ma c’è un problema connesso con l’idea che questo sia un messaggio di individui che si sono evoluti su qualche pianeta attorno a Vega, poiché avrebbero dovuto evolversi troppo in fretta. L’età totale della stessa si aggira soltanto sui quattrocento milioni di anni. E’ un luogo improbabile per la più vicina civiltà. Quindi, lo studio del moto proprio è importantissimo. Ma mi piacerebbe certamente controllare una volta ancora la possibilità dello scherzo.» «Guardate,» disse uno degli astronomi addetti all’osservazione delle quasar che si era tenuto esitante in disparte. Tese il mento in direzione dell’orizzonte occidentale dove una pallida luminosità rosata mostrava chiaramente dove era tramontato il Sole. «Vega andrà giù tra un paio di ore. Probabilmente in Australia si è già alzata. Non possiamo chiamare Sydney perché la osservino mentre per noi non è ancora possibile vederla?» «Buona idea. Là è solo metà pomeriggio. E insieme avremo abbastanza linea di base per lo studio del moto proprio. Datemi quel tabulato di riepilogo e io ne invierò la telefoto in Australia al mio ufficio.» Con una compostezza studiata, Ellie si staccò dal gruppo che si affollava attorno alla consolle e ritornò nel suo ufficio. Chiuse la porta dietro di sé con molta attenzione. «Oh santa merda!» sussurrò. «lan Broderick, per favore. Sì. Qui è Eleanor Arroway del Progetto Argus. E’ una specie di emergenza. Grazie, resto in linea… Hello, Ian? Probabilmente non è nulla, ma abbiamo un bogey qui e ci chiediamo se vi sarebbe possibile controllarlo per noi. E di circa nove gigahertz, con una passabanda di alcune centinaia di hertz. Sto teletrasmettendo i parametri adesso… Avete un alimentatore capace di nove gigahertz già sul riflettore parabolico? Questa è una fortuna… Sì, Vega è giusto nel mezzo del campo visivo. E stiamo ricevendo apparentemente degli impulsi di numeri primi… Davvero. Okay, resto all’apparecchio.» Considerò di nuovo come fosse ancora arretrata la comunità astronomica mondiale. Un sistema collegato di elaboratori per la banca dei dati non funzionava ancora. La sua importanza per la connessione asincronica soltanto sarebbe… «Ascolta, Ian, mentre il telescopio finisce di ruotare, potresti cominciare a esaminare un diagramma di ampiezza-tempo? Chiamiamo gli impulsi a bassa ampiezza punti e quelli ad alta ampiezza linee. Stiamo ricevendo… Sì, è proprio il segnale regolare che abbiamo visto nell’ultima mezz’ora… Forse. Bene, è il candidato migliore in cinque anni, ma non riesco a dimenticare come vennero tratti in inganno i Sovietici da quell’incidente del satellite Big Bird attorno al ‘74. Da quello che so, era un rilevamento americano con radar altimetrici della Russia per la guida di missili Cruise… Sì, una altimetria del terreno. E i Sovietici lo stavano captando su antenne omnidirezionali. Non riuscivano a dire da quale parte del cielo provenisse il segnale. Tutto quello che sapevano era che stavano ricevendo la stessa sequenza di impulsi dal cielo circa alla stessa ora ogni mattina. I loro scienziati li assicurarono che non era una trasmissione militare, così pensarono naturalmente che fosse extraterrestre… No, abbiamo già escluso la trasmissione di un satellite… lan, vi seccherebbe seguirlo finché resta nel vostro cielo? Ti parlerò di VLBI più tardi. Vedrò di convincere altri radiosservatori, distribuiti abbastanza uniformemente in longitudine, a seguirlo finché riappare qui… Sì, ma non so se sia facile chiamare direttamente la Cina. Sto pensando di mandare un telegramma IAU… Bene. Molte grazie, Ian.» Ellie indugiò sulla soglia della sala di controllo — la chiamavano così con consapevole ironia, perché erano i computers, in un’altra stanza, che procedevano ai controlli — per ammirare il gruppetto di scienziati che stavano parlando con grande animazione, esaminando con la massima attenzione i dati che apparivano sugli schermi, ingaggiando blande schermaglie sulla natura del segnale. Non erano persone affascinanti, pensò. Non erano belle nella maniera convenzionale, ma c’era qualcosa di indubbiamente attraente in loro. Eccellevano nei loro compiti e, specialmente nel processo di esplorazione, erano totalmente assorbiti nel loro lavoro. Al suo avvicinarsi, smisero di parlare e la guardarono ansiosi. I numeri adesso venivano convertiti automaticamente dal sistema binario a quello decimale… 881, 883, 887, 907… era confermato ormai che si trattava sempre di numeri primi. «Willie, trovami un planisfero. E per favore chiamami Mark Auerbach a Cambridge, nel Massachusetts. Probabilmente sarà a casa. Dagli questo messaggio per un telegramma IAU indirizzato a tutti gli osservatori, ma specialmente a tutti i grandi radio- osservatori. E guarda di fargli controllare il nostro numero di telefono per il radio-osservatorio di Beijing. Poi trovami il consigliere scientifico del Presidente.» «Hai l’intenzione di saltare la National Science Foundation?» «Dopo Auerbach, trovami il consigliere scientifico del Presidente.» Nella sua mente, Ellie credette di poter udire un grido di gioia in mezzo al clamore di altre voci. Con ogni mezzo, bicicletta, piccoli autocarri, postini appiedati, o telefono, un unico testo venne consegnato ai centri astronomici di tutto il mondo. In alcuni radio-osservatori di maggiore importanza — in Cina, in India, nell’Unione Sovietica e in Olanda, per esempio — il messaggio fu trasmesso per telescrivente. Quando arrivò ticchettando, venne esaminato da un agente di sicurezza o da qualche astronomo che stava passando, strappato via e portato in un ufficio adiacente con una certa aria di curiosità. Diceva: ANOMALIA SORGENTE RADIO INTERMITTENTE IN ASCENSIONE RETTA 18h 34m, DECLINAZIONE POSITIVA 38 GRADI 41 PRIMI, SCOPERTA DALLA RICOGNIZIONE SISTEMATICA DEL CIELO DI ARGUS. FREQUENZA 9,24176684 GIGAHERTZ, PASSABANDA APPROSSIMATIVAMENTE DI 430 HERTZ. AMPIEZZE BIMODALI APPROSSIMATIVAMENTE DI 174 E 179 JANSKYS. AMPIEZZE DI EVIDENZA METTONO IN CODICE SEQUENZA DI NUMERI PRIMI. INTERA COPERTURA DELLA LONGITUDINE URGENTEMENTE RICHIESTA. PREGASI TELEFONARE A NOSTRO CARICO PER ULTERIORI INFORMAZIONI NEL COORDINAMENTO DELLE OSSERVAZIONI. E. ARROWAY, DIRETTORE, PROGETTO ARGUS, SOCORRO, NEW MEXICO, USA. 5 ALGORITMO DI DECIFRAZIONE «Oh, parla ancora, angelo della luce…»      WILLIAM SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta Gli alloggi per gli scienziati in visita adesso erano tutti occupati, anzi sovraffollati, dalle personalità di maggior rilievo della comunità di SETI. Quando le delegazioni ufficiali cominciarono ad arrivare da Washington, non trovarono sistemazioni adeguate nell’area di Argus e dovettero essere ospitate in motel nella vicina Socorro. Kenneth der Heer, il consigliere scientifico del Presidente, fu l’unica eccezione. Era arrivato il giorno successivo alla scoperta, in risposta a un’urgente chiamata di Eleanor Arroway. Funzionari della National Science Foundation, della National Aeronautics and Space Administration, del Dipartimento della Difesa, del Comitato consultivo scientifico del Presidente, del National Security Council e della National Security Agency arrivarono alla spicciolata nei giorni immediatamente successivi. C’erano alcuni impiegati governativi i cui precisi incarichi istituzionali rimasero oscuri. La sera prima, alcuni di essi si erano fermati alla base del telescopio 101 ed era stata indicata loro Vega per la prima volta. Era un piacere osservarne la tremolante luce azzurrina. «Ehi, l’avevo già vista prima, ma non ho mai saputo quale fosse il suo nome,» uno osservò. Vega appariva più luminosa delle altre stelle in cielo, ma non possedeva nessun’altra caratteristica degna di nota. Era semplicemente una delle poche migliaia di stelle visibili a occhio nudo. Gli scienziati stavano conducendo un ininterrotto seminario di ricerca sulla natura, sull’origine e sul possibile significato degli impulsi radio. L’ufficio degli affari pubblici del progetto — più grande del consueto a causa del diffuso interesse per la ricerca di intelligenze extraterrestri — aveva ricevuto il compito di dare spiegazioni ai funzionari di minore importanza. Ogni nuovo arrivo richiedeva una notevole opera di informazione personale. Ellie, che era obbligata a fornire delucidazioni ai funzionari di maggior riguardo, a sovrintendere alla ricerca in corso, a rispondere alle domande intrise di scetticismo che i suoi colleghi le rivolgevano con una certa aggressività, era esausta. Dal momento della scoperta non aveva più potuto godere del piacere di un’intera notte di sonno. Dapprima avevano cercato di tener segreta la scoperta. Dopotutto non erano assolutamente sicuri che si trattasse di un messaggio extraterrestre. Un annuncio prematuro o erroneo sarebbe stato disastroso per le pubbliche relazioni. Ma cosa ancor più grave, avrebbe interferito con l’analisi dei dati. Se fosse arrivata la stampa, la scienza ne avrebbe certamente sofferto. Sia Washington che Argus erano fermamente intenzionati a mantenere segreta la storia, ma gli scienziati lo avevano detto alle loro famiglie, il telegramma dell’International Astronomical Union era stato spedito in tutto il mondo, e i sistemi astronomici ancora rudimentali di banca dati in Europa, nel Nord America e in Giappone stavano tutti riportando notizie della scoperta. Sebbene ci fosse stata una serie di misure cautelative per impedire che il pubblico venisse a conoscenza di qualsiasi scoperta, le attuali circostanze li avevano colti largamente impreparati. Redassero una dichiarazione nel modo più innocuo possibile e la rilasciarono soltanto quando ne furono costretti. Procurò, naturalmente, grande sensazione. Avevano chiesto la comprensione e la pazienza dei mass-me-dia, ma sapevano che ci sarebbe stata soltanto una breve tregua prima della calata in forze dei giornalisti. Avevano cercato di scoraggiare i reporter dal visitare la località, spiegando che non c’erano reali informazioni nei segnali che stavano ricevendo, ma soltanto noiosi e ripetuti numeri primi. La stampa si spazientiva per l’assenza di notizie sensazionali. «Si può scrivere solo una serie di articoletti su ‘Che cos’è un numero primo?’,» si sentì dire Ellie al telefono da un reporter. Squadre di cameramen in aereotaxi e in elicotteri charter cominciarono a passare a bassa quota sulla base, generando talvolta forti interferenze radio facilmente scoperte dai telescopi. Alcuni cronisti stavano alla posta dei funzionari di Washington quando ritornavano la notte ai loro motel. Alcuni dei più intraprendenti avevano tentato di entrare inosservati nell’installazione, alla guida di fuoristrada, in motocicletta, e in un caso a cavallo. Era stata costretta a informarsi sui costi per un recinto. Subito dopo il suo arrivo, der Heer aveva ricevuto una prima versione di quel che era ormai il comunicato standard di Ellie: la sorprendente intensità del segnale, la sua collocazione proprio nella stessa parte del cielo in cui si trovava la stella Vega, la natura degli impulsi. «Posso essere il consigliere scientifico del Presidente,» aveva detto lui, «ma sono soltanto un biologo. Perciò, la prego, me lo spieghi lentamente. Comprendo che se la sorgente radio si trova alla distanza di ventisei anni luce, allora il messaggio è stato inviato ventisei anni fa. Negli anni sessanta, alcune buffe creature con orecchie appuntite pensarono che avremmo voluto sapere che a loro piacevano i numeri primi. Ma i numeri primi non sono difficili. Non sembra che se ne stiano vantando, pare piuttosto che ci stiano inviando un’aritmetica correttiva. Forse dovremmo esserne offesi.» «No, consideri la cosa in questo modo,» disse lei, sorridendo. «Questo è un avvertimento, un avviso destinato ad attrarre la nostra attenzione. Riceviamo strani impulsi regolari dalle quasar e dalle pulsar, dalle radio galassie e da Dio sa cosa. Ma i numeri primi sono molto specifici, molto artificiali. Nessun numero pari è primo, per esempio. E’ difficile immaginare un plasma irradiante o una galassia in fase esplosiva che inviino una serie regolare di segnali matematici come questa. I numeri primi servono ad attirare la nostra attenzione.» «Ma su cosa?» aveva chiesto der Heer, sinceramente confuso. «Non lo so. Ma in questa faccenda si deve essere molto pazienti. Forse di punto in bianco i numeri primi smetteranno e verranno sostituiti da qualcos’altro, qualcosa di molto sostanzioso, il vero messaggio. Dobbiamo soltanto continuare a tenerci in ascolto.» La cosa più difficile da illustrare alla stampa era proprio che i segnali non avevano essenzialmente nessun contenuto, nessun significato, solo le prime centinaia di numeri primi in ordine, un ritorno ciclico all’inizio, e di nuovo le semplici rappresentazioni di numerazione binaria: 1, 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, 19, 23, 29, 31… Nove non era un numero primo, spiegava Ellie, perché era divisibile per tre (come pure per nove e per uno, naturalmente). Dieci non era un numero primo perché cinque e due ci stavano (come pure il dieci e l’uno). Undici era un numero primo perché era divisibile solo per l’unità e per se stesso. Ma perché trasmettere numeri primi? Le faceva venire in mente un erudito idiota, una di quelle persone che possono essere decisamente deficienti nelle comuni attitudini sociali o verbali ma che riescono a effettuare strabilianti imprese di calcolo mentale, come stabilire, dopo un momento di riflessione, in quale giorno della settimana cadrà il primo giugno dell’anno 11977. Non era per qualcosa; lo facevano perché piaceva loro farlo, perché erano capaci di farlo. Era consapevole che erano passati solo pochi giorni dalla ricezione del messaggio, ma si sentiva allo stesso tempo su di giri e profondamente delusa. Dopo tutti quegli anni, avevano finalmente ricevuto un segnale, beh, un tipo di segnale. Ma il suo contenuto era superficiale, vano, vuoto. Si era immaginata di ricevere l’»Enciclopedia galattica». Siamo arrivati alla radioastronomia soltanto negli ultimi decenni, ricordava a se stessa Ellie, in una galassia in cui la stella media è vecchia miliardi di anni. La probabilità di ricevere un segnale da una civiltà allo stesso nostro grado di sviluppo dovrebbe essere minima. Se fossero anche un po’ indietro rispetto a noi, mancherebbero totalmente della capacità tecnologica di comunicare con noi. Perciò il segnale più probabile dovrebbe provenire da una civiltà molto più avanzata. Forse sarebbero capaci di comporre delle intere fughe speculari melodiche: il contrappunto sarebbe il tema scritto dietro. No, decise. Se questo era un tipo di genio senza alcun dubbio, e certamente al di là delle sue capacità, rappresentava una minuscola estrapolazione rispetto a quello che gli esseri umani potevano fare. Bach e Mozart si erano cimentati almeno in tentativi dignitosi in questo campo. Cercò di compiere un balzo più grande, nella mente di qualcuno che fosse enormemente, in ordine di magnitudine, più intelligente di lei, più brillante di Drumlin, o di Eda, il giovane fisico nigeriano che aveva appena vinto il Premio Nobel. Ma era impossibile. Poteva fantasticare di dimostrare completamente l’ultimo teorema di Fermat o di verificare il problema di Goldbach in sole poche righe di equazioni. Poteva immaginare problemi enormemente al di là delle nostre capacità che sarebbero stati antiquati per loro. Ma non poteva penetrare nelle loro menti; non riusciva a immaginare come sarebbe stato il pensiero in creature molto più dotate di un essere umano. Semplicemente. Nessuna meraviglia. Che cosa si aspettava? Era come cercar di visualizzare un nuovo colore fondamentale o un mondo in cui si potessero riconoscere parecchie centinaia di conoscenti individualmente solo in base al loro odore… Ne poteva parlare, ma non poteva farne l’esperienza. Per definizione, è per forza estremamente difficile capire il comportamento di un essere molto più intelligente di un uomo. Ma anche se è così, se è proprio così, perché solo numeri primi? 1 radioastronomi dell’Argus avevano compiuto dei progressi negli ultimissimi giorni. Vega aveva un movimento conosciuto: una componente conosciuta della sua velocità di avvicinamento o di allontanamento dalla Terra, e una componente conosciuta lateralmente, attraverso il cielo, sullo sfondo di stelle più remote. I telescopi dell’Argus, lavorando in collaborazione con radio-osservatori del West Virginia e dell’Australia, avevano stabilito che la sorgente si stava muovendo con Vega. Il segnale non solo stava provenendo — stando alle loro attente misurazioni — dal punto del cielo in cui si trovava Vega, ma possedeva anche gli stessi moti peculiari e caratteristici di Vega. A meno che non si trattasse di una burla colossale, la fonte degli impulsi di numeri primi si trovava davvero nel sistema Vega. Non c’era nessun effetto Doppler addizionale dovuto al movimento della trasmittente, forse congiunta a un pianeta ruotante attorno a Vega. Gli extraterrestri avevano effettuato una compensazione per il moto orbitale. Forse era una sorta di cortesia interstellare. «E’ la cosa più stupefacente che abbia mai sentito. E non ha nulla a che vedere con il nostro settore,» disse un funzionario della Defense Advanced Research Projects Agency, che si apprestava a ritornare a Washington. Non appena era stata fatta la scoperta, Ellie aveva assegnato ad alcuni telescopi il compito di esaminare Vega in una gamma di altre frequenze. Essi effettivamente avevano trovato lo stesso segnale, la stessa monotona successione di numeri primi, che facevano beep-beep nella riga dell’idrogeno da 1420 megahertz, nella riga dell’idrossile da 1667 megahertz, e su molte altre frequenze. In tutto lo spettro radio, con un’orchestra elettromagnetica, Vega stava belando numeri primi. «Non ha senso,» disse Drumlin, toccandosi la fibbia della cintura. «Ce ne dovremmo essere accorti prima. Tutti hanno guardato Vega. Per anni. Arroway la osservava da Arecibo una decina di anni fa. All’improvviso, martedì scorso, Vega comincia a trasmettere numeri primi? Perché adesso? Che cosa c’è di speciale adesso? Come mai hanno cominciato a trasmettere solo alcuni anni dopo che Argus si è messo in ascolto?» «Forse il loro trasmettitore è stato in riparazione per un paio di secoli,» suggerì Valerian, «e l’hanno appena rimesso a posto. Forse il loro piano di lavoro periodico di trasmissioni ci riserva soltanto un anno ogni milione di anni. Ci sono tutti quegli altri pianeti candidati che possono ospitare forme di vita, sai. Probabilmente non siamo soli.» Ma Drumlin, chiaramente insoddisfatto, scosse soltanto il capo. Benché la sua natura fosse tutt’altro che cospirativa, Valerian pensò di aver colto un sottinteso nell’ultima domanda di Drumlin: tutto ciò poteva essere uno sconsiderato, disperato tentativo da parte degli scienziati dell’Argus di impedire un prematuro affossamento del progetto? Non era possibile. Valerian scosse la testa. Mentre passava der Heer, si trovò di fronte ai due massimi esperti del problema SETI che si salutavano con un silenzioso cenno del capo. Tra gli scienziati e i burocrati c’era una sorta di nervosismo, un reciproco disagio, un conflitto di convinzioni basilari. Uno degli ingegneri elettrici definiva la cosa un disadattamento di impedenza. Gli scienziati erano troppo speculativi, troppo quantitativi e troppo disinvolti nel parlare con tutti per i gusti di molti dei burocrati, che erano troppo prosaici, troppo qualitativi, troppo riservati per molti degli scienziati. Ellie e specialmente der Heer si sforzavano di avvicinare le parti, ma i tentativi si rivelavano inutili. Quella notte c’erano dappertutto mozziconi di sigaretta e tazze di caffè. Gli scienziati vestiti alla buona, i funzionar! di Washington in abiti leggeri, e un alto ufficiale dell’esercito capitato per caso affollavano la sala di controllo, quella dei seminari, il piccolo auditorio, e si riversavano all’aperto, dove, alla luce delle sigarette e delle stelle, alcune delle discussioni continuavano. Ma si cominciava a dare segni di intemperanza. La tensione stava diventando evidente. «Dottor Arroway, questo è Michael Kitz, sottosegretario della Difesa per OI.» Presentando Kitz e piazzandosi immediatamente alle sue spalle, der Heer stava comunicando… Cosa? Qualche improbabile miscuglio di emozioni. Confusione sotto prudente controllo? Sembrava far appello alla discrezione. La riteneva una tale testa calda? «OI» stava per Comando, Controllo, Comunicazioni, e Informazioni, importanti responsabilità in un periodo in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano procedendo coraggiosamente a notevoli riduzioni progressive dei loro arsenali strategici nucleari. Era un’attività per un uomo prudente. Kitz si accomodò in una delle due poltrone di fronte alla scrivania di Ellie, si sporse in avanti e lesse la citazione kafkiana senza restarne impressionato. «Dottor Arroway, mi lasci venir subito al punto. Noi ci chiediamo preoccupati se sia nell’interesse degli Stati Uniti che queste informazioni vengano universalmente rese note. Non siamo affatto contenti che lei abbia spedito quel telegramma in tutto il mondo.» «Vuole dire alla Cina? Alla Russia? All’India?» La sua voce, nonostante tutti i suoi sforzi, aveva un palese tono sarcastico. «Volevate tener segreti i primi 261 numeri primi? Lei crede, signor Kitz, che gli extraterrestri avessero l’intenzione di comunicare soltanto con gli Americani? Lei non pensa che un messaggio proveniente da un’altra civiltà debba appartenere al mondo intero?» «Avrebbe potuto chiedere il nostro parere.» «E rischiare di perdere il segnale? Guardi, per quello che ne sappiamo, qualcosa di essenziale, qualcosa di unico potrebbe esser stato trasmesso dopo che Vega era tramontata qui nel New Mexico ma quando era alta nel cielo di Beijing. Questi segnali non sono esattamente una chiamata personale per gli Stati Uniti d’America. Non sono neppure una chiamata personale per la Terra. Sono destinati a ogni pianeta del sistema solare. Ci è capitata solo la fortuna di sollevare il ricevitore.» Der Heer stava nuovamente irradiando qualcosa. Che stava tentando di dirle? Che gli piaceva quella analogia elementare, ma che andasse più leggera con Kitz? «In ogni caso,» Ellie continuò, «è troppo tardi. Tutti ora sanno che c’è una specie di vita intelligente nel sistema di Vega.» «Non sono certo che sia troppo tardi, dottor Arroway. Lei sembra supporre che ci sarà una trasmissione ricca di informazioni, un messaggio che deve ancora venire. Il dottor der Heer, qui presente, dice che lei pensa che questi numeri primi siano un avviso, qualcosa per attrarre la nostra attenzione. Se c’è un messaggio ed è misterioso — qualcosa che gli altri paesi non potrebbero cogliere immediatamente — esigo che sia tenuto segreto finché non ne avremo parlato.» «Molti di noi hanno delle esigenze, signor Kitz,» sbottò lei con fare amabile, ignorando le occhiatacce di der Heer. Cera qualcosa di irritante, di quasi provocatorio nei modi di Kitz. E probabilmente anche nei suoi. «Io, ad esempio, ho l’esigenza di capire quale sia il significato di questo segnale, e cosa stia succedendo su Vega, e che cosa voglia dire per la Terra. E’ possibile che scienziati di altre nazioni siano indispensabili per arrivare alla comprensione del segnale. Forse avremo bisogno dei loro dati. Forse avremo bisogno dei loro cervelli. Si potrebbe trattare di un problema troppo grande perché se ne occupi un paese solo.» Adesso der Heer appariva vagamente allarmato. «Uh, dottor Arroway. Il suggerimento del segretario Kitz non è poi così irragionevole. E’ possibilissimo che si debba far entrare nella cosa altre nazioni. Tutto quello che sta chiedendo è di parlarne prima con noi. E solo nel caso che ci sia un nuovo messaggio.» Il suo tono era tranquillizzante ma non mellifluo. Ellie lo guardò di nuovo attentamente. Der Heer non era un bell’uomo nel senso comune dell’espressione, ma possedeva un volto gentile e intelligente. Indossava un abito blu e una camicia di oxford spiegazzata. La sua serietà e la sua aria flemmatica erano temperate dal calore del suo sorriso. Perché, allora, stava appoggiando quell’idiota? Faceva parte del suo lavoro? Poteva darsi che Kitz stesse dicendo delle cose sensate? «Comunque è una eventualità remota.» Kitz sospirò mentre si alzava in piedi. «Il segretario della Difesa apprezzerebbe la sua collaborazione.» Stava cercando di uscirne vincitore. «D’accordo?» «Lasci che ci pensi sopra,» replicò lei, prendendo la mano che le offriva come se fosse stata un pesce morto. «Ti raggiungerò tra pochi minuti, Mike,» disse der Heer di buon umore. Con una mano sullo stipite della porta, Kitz ebbe un apparente ripensamento, estrasse un documento dalla tasca interna della giacca, ritornò indietro e lo posò con precauzione all’estremità della sua scrivania. «Oh sì, me ne ero dimenticato. Ecco una copia della Decisione Hadden. Lei probabilmente la conosce. E’ sul diritto del governo di schedare materiale vitale per la sicurezza degli Stati Uniti. Anche se non proviene da un’installazione dipendente.» «Volete schedare i numeri primi?» domandò lei con gli occhi spalancati, assumente un’aria di ironica incredulità. «Ci vediamo fuori, Ken.» Ellie cominciò a parlare nel momento stesso in cui Kitz lasciò il suo ufficio. «Ma a che sta dietro? Ai raggi mortali di Vega? Ai mostri che potrebbero far saltare per aria il mondo? Di che si tratta veramente?» «Sta solo agendo con prudenza, Ellie. Vedo che non crede che sia tutto qui. Okay. Supponiamo che ci sia un qualche messaggio, con un contenuto ben preciso, e che in esso ci sia qualcosa di offensivo per i musulmani, diciamo, o per i metodisti. Non dovremmo autorizzarne la diffusione, per evitare di appannare il prestigio degli Stati Uniti?» «Ken, non mi prenda in giro. Quell’uomo è un sottosegretario della Difesa. Se fossero preoccupati per i musulmani e i metodisti, mi avrebbero mandato un sottosegretario di Stato, o, non so, uno di quei fanatici religiosi che presiedono alle preghiere presidenziali del mattino. Lei è il consigliere scientifico del Presidente. Che consiglio le ha dato?» «Non le ho dato nessun consiglio. Da quando sono qui, le ho parlato soltanto una volta, brevemente, al telefono. E sarò franco, non mi ha dato nessuna istruzione circa una schedatura. Ho pensato che quello che ha detto Kitz non fosse dettato da nessuno. Suppongo che stia agendo di sua spontanea iniziativa.» «Ma chi è?» «Per quanto ne so, è un avvocato. Era un alto dirigente dell’industria elettronica prima di entrare nell’Amministrazione. Conosce a fondo C3I, ma questo non vuoi dire che sia ben informato in altri campi.» «Ken, mi fido di lei. Sono convinta che non c’entri nulla con questa minaccia della Decisione Hadden.» Sventolò il documento davanti a sé e tacque per un attimo cercando il suo sguardo. «Sa che Drumlin pensa che ci sia un altro messaggio nella polarizzazione?» «Non capisco.» «Solo poche ore fa, Dave ha terminato uno studio statistico approssimativo della polarizzazione. Ha rappresentato i parametri di Stokes secondo le sfere di Poincaré; c’è un bel film che li mostra varianti nel tempo.» Der Heer la guardò senza espressione. I biologi non usano luce polarizzata nei loro microscopi? si chiese Ellie. «Quando un’onda di luce arriva a noi — luce visibile, luce radio, qualsiasi tipo di luce — sta vibrando ad angoli retti rispetto alla nostra linea ottica. Se la vibrazione ruota, si dice che l’onda è polarizzata ellitticamente. Se essa ruota in senso orario, la polarizzazione si definisce di destra; se in senso antiorario, di sinistra. So che si tratta di una definizione stupida. Comunque, spaziando tra i due tipi di polarizzazione, si possono trasmettere delle informazioni. Una polarizzazione un po’ a destra e abbiamo uno zero; un po’ a sinistra ed è un uno. Mi segue? E’ perfettamente possibile. Noi abbiamo modulazione di ampiezza e modulazione di frequenza, ma la nostra civiltà, per convenzione, di solito non fa modulazione di polarizzazione. Ebbene, il segnale di Vega sembra che abbia una modulazione di polarizzazione. Siamo impegnati a controllarlo proprio in questo momento. Ma Dave ha scoperto che non c’è una quantità uguale dei due tipi di polarizzazione. Quella a sinistra è inferiore rispetto a quella a destra. E’ proprio possibile che ci sia un altro messaggio nella polarizzazione che finora non abbiamo afferrato. Ecco perché sono sospettosa nei riguardi del suo amico. Kitz non mi sta dando un avvertimento generico e gratuito. Lui sa che noi possiamo imbatterci in qualcos’altro.» «Ellie, non se la prenda troppo. Per quattro giorni non ha quasi dormito. Si è destreggiata con la scienza, l’amministrazione e la stampa. Ha già fatto una delle più grandi scoperte del secolo, e se la capisco bene, può essere sul punto di farne un’altra addirittura più importante. Ha tutte le ragioni di avere un po’ i nervi a fior di pelle. E la minaccia di militarizzare il progetto è stata maldestra da parte di Kitz. Non ho nessuna difficoltà a capire perché nutre dei sospetti nei suoi confronti. Ma c’è un senso in ciò che dice.» «Conosce l’uomo?» «Ho partecipato ad alcuni congressi con lui. Posso dire quasi di non conoscerlo. Ellie, se c’è una possibilità di un vero messaggio in arrivo, non sarebbe una buona idea ridurre un po’ l’affollamento?» «Sicuro. Mi dia una mano con qualcuno di quei rompiscatole di «Washington.» «Okay. Ma se lascia quel documento sulla sua scrivania, qualcuno entrerà qui e trarrà le errate conclusioni. Perché non lo ripone da qualche parte?» «Mi aiuterà?» «Se la situazione resta pressappoco com’è adesso, l’aiuterò. Non ci adopereremo certo se la cosa subirà una schedatura.» Sorridendo, Ellie si inginocchiò davanti alla piccola cassaforte del suo ufficio e formò la combinazione di sei cifre, 314159. Diede un’ultima occhiata al documento che recava il titolo GLI STATI UNITI CONTRO LA CIBERNETICA HADDEN a grandi lettere nere, e lo mise via. Era un gruppo di circa trenta persone, tecnici e scienziati associati al Progetto Argus, alcuni alti funzionati governativi, incluso il direttore delegato della Defense Intelligence Agency in abiti civili. Tra di loro c’erano Valerian, Drumlin, Kitz, e der Heer. Ellie era l’unica donna. Avevano installato un grande sistema di proiezione televisiva, fecalizzato su uno schermo di due metri per due collocato contro la parete più distante. Ellie stava rivolgendo contemporaneamente la propria attenzione al gruppo e al programma di decifrazione, con le dita sulla tastiera che aveva di fronte. «Per anni ci siamo preparati per la decifrazione computerizzata di molti tipi di possibili messaggi. Abbiamo appena appreso dall’analisi del dottor Drumlin che ci sono delle informazioni nella modulazione di polarizzazione. Tutto quell’oscillare tra sinistra e destra significa qualcosa. Non si tratta di un rumore casuale. E’ come lanciar per aria una moneta. Naturalmente ci si aspetterebbe una sequenza abbastanza regolare di testa o croce, ma invece esce due volte di più testa di croce. Così si conclude che la moneta è truccata o, nel nostro caso, che la modulazione di polarizzazione non è casuale; ha un contenuto… Oh, guardate questo. Quello che il computer ci ha appena detto è persino più interessante. La precisa sequenza di testa e croce si ripete. E’ una lunga sequenza, perciò è un messaggio piuttosto complesso, e la civiltà che lo sta trasmettendo deve volere che noi si sia sicuri di riceverlo nella maniera giusta. Ecco, vedete? Questo è il messaggio che si ripete. Siamo ora alla prima ripetizione. Ogni bit di informazione, ogni punto e linea — se volete pensare a essi in questo modo — sono identici a quelli che si trovavano nel precedente complesso di dati. Adesso analizziamo il numero totale di bit. E’ un numero nell’ordine delle decine di miliardi. Okay, tombola! E’ il prodotto di tre numeri primi.» Benché Drumlin e Valerian fossero entrambi raggianti, sembrava a Ellie che stessero provando emozioni completamente diverse. «E allora? Che cosa significano altri numeri primi?» chiese un visitatore proveniente da Washington. «Significa — forse — che ci stanno inviando un’immagine. Vedete, questo messaggio è composto di un gran numero di bit di informazione. Supponiamo che questo grande numero sia il prodotto di tre numeri più piccoli; è un numero per un numero per un numero. Perciò il messaggio ha tre dimensioni. Riterrei che si tratti di una singola foto statica tridimensionale come un ologramma fisso oppure di una foto bidimensionale che cambia con il tempo, cioè di un film. Ammettiamo si tratti di un film. Se è un ologramma, ci richiederà più tempo per visualizzarlo, in ogni caso. Possediamo un ideale algoritmo di decifrazione per quest’ultimo.» Sullo schermo, scorsero un indistinto disegno in movimento composto di perfetti bianchi e di perfetti neri. «Willie, vorresti inserire un programma di interpolaziene grigio? Qualcosa di ragionevole. E cerca di ruotarlo di circa novanta gradi in senso antiorario.» «Dottor Arroway, sembra che ci sia un canale con banda laterale ausiliaria. Forse è l’audio che accompagna il film.» «Inseriscilo.» L’unica altra applicazione pratica di numeri primi cui lei potesse pensare era la criptografia di tipo popolare ora largamente usata nel campo della sicurezza commerciale e nazionale. Un’applicazione era destinata a rendere chiaro un messaggio a degli ottusi; l’altra a tener nascosto un messaggio a creature discretamente intelligenti. Ellie scrutava i volti che aveva davanti. Kitz appariva a disagio. Forse stava paventando un invasore alieno o, peggio, i disegni di un progetto per un’arma troppo segreta perché potesse essere affidata allo staff di Ellie. Willie appariva molto serio e deglutiva in continuazione. Un’immagine è diversa da semplici numeri. La possibilità di un messaggio visivo stava chiaramente risvegliando timori e fantasie incontrollati nei cuori di molti degli spettatori. Der Heer aveva un’espressione sorprendente in volto; per il momento sembrava assai meno il funzionario, il burocrate, il consigliere presidenziale, e assai più lo scienziato. All’immagine, ancora incomprensibile, si venne ad affiancare un cupo glissando di suoni, che scorreva prima su e poi giù per lo spettro audio finché non mostrò la tendenza a stabilizzarsi in una zona attorno all’ottava sotto il do centrale. Lentamente il gruppo si accorse di una debole musica che stava però aumentando di intensità. L’immagine ruotò, si raddrizzò e si mise a fuoco. Ellie si trovò a fissare un’immagine granulosa in bianco e nero di… una tribuna per un’imponente parata adorna di una gigantesca aquila in art-deco. Stretta tra gli artigli di cemento dell’aquila… «E’ uno scherzo! Tutto uno scherzo!» Ci furono grida di stupore, incredulità, scoppi di risa, qualche isterismo. «Non vedete? Siete stati ingannati,» le stava dicendo Drumlin in un tono quasi colloquiale. Stava sorridendo. «Si tratta di un sofisticato tiro birbone. Avete fatto perdere del tempo a tutti qui.» Stretta tra gli artigli di cemento dell’aquila, adesso lo poteva vedere chiaramente, c’era una svastica. La telecamera zoomava sopra l’aquila per inquadrare la faccia sorridente di Adolf Hitler, che salutava, agitando le braccia, una folla che cantava ritmicamente. La sua uniforme, priva di decorazioni militari, dava l’idea di una gran semplicità. La profonda voce baritonale di un annunciatore, gracchiante ma inequivocabilmente tedesca, riempiva la stanza. Der Heer le si avvicinò. «Conosce il tedesco?» lei sussurrò. «Che cosa sta dicendo?» «Il Fùhrer,» tradusse lentamente, «da il benvenuto al mondo nella patria tedesca per l’apertura dei giochi olimpici del 1936.» 6 PALINSESTO «E se i Guardiani non sono felici, chi altri lo può essere?»      ARISTOTELE, Politica, Libro 2, Capitolo 5 Quando l’aereo raggiunse la quota di crociera, con Albuquerque già più di cento miglia alle loro spalle, Ellie gettò un’occhiata pigra al cartoncino bianco rettangolare stampato a lettere blu che era stato fissato alla busta del suo biglietto. Diceva, in un linguaggio immutato dal suo primo volo di linea: «Questo non è lo scontrino di bagaglio descritto dall’Articolo 4 della Convenzione di Varsavia.» Si chiedeva perché mai le compagnie aeree di preoccupassero tanto che i passeggeri potessero confondere quel cartoncino con il biglietto della Convenzione di Varsavia? A proposito, che cos’era un biglietto della Convenzione di Varsavia? Perché non ne aveva mai visto uno? Dove li stavano accumulando? In qualche dimenticato evento chiave della storia dell’aviazione, una linea aerea disattenta doveva aver scordato di stampare questo avvertimento su rettangoli di cartone ed era stata mandata in fallimento in seguito alle cause intentate da infuriati passeggeri sofferenti per il malinteso che fosse quello lo scontrino di bagaglio di Varsavia. Senza dubbio c’erano valide ragioni finanziarie per questa sollecitudine diffusa in tutto il mondo, mai espressa in altra maniera, riguardo a quali pezzi di cartone non sono descritti dalla Convenzione di Varsavia. Ellie pensava che tutte quelle righe stampate messe assieme potevano invece essere destinate a qualcosa di utile: la storia dell’esplorazione del mondo, per esempio, o i fatterelli scientifici, o persino il numero medio di miglia per passeggero prima che il velivolo si schianti a terra. Se avesse accettato l’offerta di der Heer di un aereo militare, si sarebbe trovata impegnata in altre casuali associazioni di idee. Ma sarebbe stato fin troppo comodo, forse un cedimento che avrebbe portato a un’eventuale militarizzazione del progetto. Avevano preferito viaggiare con un vettore di linea. Gli occhi di Valerian erano già chiusi mentre finiva di sistemarsi nel posto accanto al suo. Non c’era stata una particolare fretta, neppure dopo che avevano preso in considerazione quei dettagli dell’ultimo minuto sull’analisi dei dati, con l’idea che la seconda tunica della cipolla stava per venire via. Erano stati in grado di prendere un volo di linea che sarebbe giunto a Washington con un certo anticipo sulla riunione fissata per l’indomani; così avrebbero avuto tutto il tempo per una buona dormita. Gettò un’occhiata al telefax ben chiuso in una borsa da viaggio di cuoio sotto il sedile di fronte. Era di parecchie centinaia di kilobit al secondo più veloce del vecchio modello di Peter e offriva informazioni grafiche assai migliori. Bene, forse l’indomani sarebbe stata costretta a usarlo per spiegare alla Presidente degli Stati Uniti che cosa ci stesse facendo Adolf Hitler su Vega. Lei era, lo ammise con se stessa, un po’ nervosa per quell’incontro. Non si era mai trovata con un Presidente prima, e secondo lo standard della fine del ventesimo secolo, questa signora a capo dell’America non era poi così male. Non aveva avuto tempo di farsi fare i capelli, e ancor meno un massaggio al viso. Beh, non stava andando alla Casa Bianca per essere guardata. Che cosa avrebbe pensato il suo patrigno? Credeva ancora che fosse inadatta per la scienza? O sua madre, ora costretta su una sedia a rotelle in una casa di cura? Era riuscita a farle solo una breve telefonata dal momento della scoperta, più di una settimana prima, e si ripromise di chiamarla ancora l’indomani. Come aveva fatto centinaia di volte in precedenza, scrutò fuori dal finestrino dell’aereo e immaginò quale impressione avrebbe fatto la Terra a un osservatore extraterrestre, a quella quota di crociera di dodici o quattordici chilometri, e presumendo che gli alieni avessero gli occhi pressappoco come i nostri. C’erano vaste aree del Midwest completamente geometrizzate con quadrati, rettangoli e cerchi, fossero queste rurali o urbane; e, come qui, vaste aree del Southwest in cui l’unico segno di vita intelligente era rappresentato da un’occasionale linea retta che si allungava tra monti e attraverso deserti. I mondi di civiltà più avanzate sono totalmente geometrizzati, interamente ricostruiti dai loro abitanti? O la firma di una civiltà davvero avanzata sarebbe quella di non aver lasciato neppure un segno? Sarebbero in grado di dire con precisione, in base a uno sguardo rapido, a quale stadio si sia nella grande sequenza cosmica evolutiva, dello sviluppo di esseri intelligenti? Che altro potrebbero dire? In base all’azzurro del cielo, essi potrebbero procedere a una stima approssimativa del numero di Loschmidt, cioè del numero di molecole contenuto in un centimetro cubo di gas a zero gradi e alla pressione di un’atmosfera. Circa 2,7 x IO19. Potrebbero stabilire facilmente l’altezza delle nubi dalla lunghezza delle loro ombre sul terreno. Se sapessero che le nubi sono un insieme di gocce d’acqua dovuto alla condensazione di vapore saturo, potrebbero calcolare approssimativamente l’andamento della variazione della temperatura negli strati dell’atmosfera, perché la temperatura scenda a circa quaranta gradi centigradi sotto zero all’altitudine delle nubi più rarefatte che riusciva a vedere. L’erosione delle forme del terreno, i disegni dendritici e i meandri dei fiumi, la presenza di laghi e di cupole vulcaniche consumate, tutto parlava di un’antica lotta tra i processi formativi e quelli erosivi. Bastava davvero un’occhiata per capire che si trattava di un pianeta antico con una civiltà recentissima. La maggior parte dei pianeti della Galassia dovevano essere antichissimi e pretecnologici, forse addirittura senza vita. Alcuni potevano ospitare civiltà molto più vecchie della nostra. Mondi con civiltà tecnologiche che stessero appena cominciando a emergere dovevano essere incredibilmente rari. Era forse l’unica caratteristica peculiare della Terra. Durante il pranzo, il paesaggio a poco a poco si fece verdeggiante mentre si avvicinavano alla valle del Mississippi. Non ci si rendeva quasi conto del movimento nei moderni viaggi aerei, pensò Ellie. Guardò Peter che stava ancora dormendo; egli aveva respinto con una certa indignazione la prospettiva di un pasto a bordo. Accanto a lui, al di là del corridoio, c’era un giovanissimo essere umano, forse di appena tre mesi, comodamente sistemato tra le braccia del padre. Che idea poteva farsi un neonato di un viaggio aereo? Si andava in un posto speciale, si entrava in una grande stanza che conteneva delle poltrone e ci si sedeva. La stanza rombava e vibrava per quattro ore. Poi ci si alzava e si usciva. Come per magia, ci si trovava in qualche altro luogo. I mezzi di trasporto di certo gli sembravano oscuri, ma l’idea fondamentale doveva essere facile da afferrare, e una padronanza precoce delle equazioni di Navier-Stokes non era richiesta. Era il tardo pomeriggio quando volteggiarono sopra Washington, attendendo il permesso di atterrare. Ellie potè scorgere, tra il monumento a Washington e il Lincoln Memorial, una gran folla. Si trattava, come aveva appreso soltanto un’ora prima dal telefax del «Times», di un imponente raduno di Americani neri che protestavano per le disparità economiche e le ingiustizie nel campo dell’istruzione. Considerando la validità delle loro rimostranze, lei pensò, erano stati molto pazienti. Si chiedeva come avrebbe reagito la Presidente al raduno e alla trasmissione da Vega, che l’indomani sarebbero stati al centro di un inevitabile commento ufficiale. «Ken, cosa vuoi dire con ‘Escono’?» «Voglio dire, Presidente, che i nostri segnali televisivi lasciano questo pianeta e vanno nello spazio.» «Quanto vanno lontano esattamente?» «Con tutto il dovuto rispetto, Presidente, la cosa non funziona in questo modo.» «Bene, come funziona allora?» «I segnali si propagano dalla terra in onde sferiche, un po’ come increspature concentriche in uno stagno. Viaggiano alla velocità della luce — circa 300.000 chilometri al secondo — e fondamentalmente proseguono per sempre. Se un’altra civiltà possiede delle radioriceventi sensibilissime, per quanto lontana da noi possa essere, riuscirà ancora a captare i nostri segnali televisivi. Persino noi potremmo scoprire una forte trasmissione televisiva da un pianeta in orbita attorno alla stella più vicina.» Per un momento, la Presidente rimase impettita, guardando il roseto attraverso le porte-finestre. Si volse verso der Heer. «Vuoi dire… qualsiasi segnale?» «Sì, qualsiasi.» «Intendi dire tutte quelle porcherie che ci mostra la televisione? Gli incidenti automobilistici? La lotta libera? I film porno? I notiziari serali?» «Tutto, signor Presidente.» Der Heer scosse il capo costernato, esprimendo così la sua solidarietà. «Der Heer, ti capisco bene? Questo significa che tutte le mie conferenze stampa, i miei dibattiti, il mio discorso inaugurale, sono là fuori?» «Queste sono le notizie buone, Presidente. Pensi alle cattive, a tutte le apparizioni televisive dei suoi predecessori, a quelle di Dick Nixon e della leadership sovietica. E pensi anche a tutte le cose spiacevoli che il suo avversario ha detto di lei. Ci sono i lati positivi e quelli negativi della cosa.» «Mio Dio! Okay, prosegui.» La Presidente si era allontanata dalle porte-finestre e adesso era apparentemente intenta a esaminare un busto marmoreo di Tom Paine, restaurato di recente, che proveniva dal seminterrato della Smithsonian Institution, dove era stato relegato dal suo predecessore. «Guardi la cosa in questo modo: quei pochi minuti di televisione da Vega furono tramessi originariamente nel 1936 in occasione dell’apertura dei giochi olimpici a Berlino. Anche se vennero mostrati soltanto in Germania, si trattò della prima trasmissione televisiva sulla Terra con una potenza ancora modesta. A differenza delle comuni trasmissioni radio degli anni Trenta, quei segnali televisivi attraversarono la nostra ionosfera e filtrarono nello spazio. Stiamo cercando di scoprire esattamente ciò che venne trasmesso indietro allora, ma ci metteremo probabilmente un po’ di tempo. Forse quel benvenuto di Hitler è l’unico frammento della trasmissione che sono stati in grado di captare su Vega. Perciò, dal loro punto di vista, Hitler è la prima manifestazione di vita intelligente sulla Terra. Non sto cercando di fare dell’ironia. Non sanno quello che la trasmissione significa, così la registrano e ce la ritrasmettono. E’ un modo per dire: ‘Hello, vi abbiamo sentiti.’ Mi sembra un atto piuttosto amichevole.» «Dunque dici che non c’è stata nessun’altra trasmissione televisiva fin dopo la seconda guerra mondiale?» «Niente d’importante. Ci fu una trasmissione locale in Inghilterra per l’incoronazione di Giorgio VI, e cose di questo tipo. Le trasmissioni televisive regolari cominciarono alla fine degli anni Quaranta. Tutti quei programmi si stanno allontanando dalla Terra alla velocità della luce. Immagini che la Terra sia qui» — der Heer gesticolava — «e che ci sia una piccola onda sferica che parte da essa alla velocità della luce, nel 1936. Continua a espandersi e ad allontanarsi dalla Terra. Presto o tardi, raggiunge la più vicina civiltà. Sembra che siano sorprendentemente vicini, a soli ventisei anni luce di distanza, su qualche pianeta della stella Vega. La registrano e ce la rimandano indietro. Ma ci vogliono altri ventisei anni perché le olimpiadi di Berlino ritornino sulla Terra. Così gli abitanti di Vega non hanno impiegato decenni a decifrarla. Dovevano essere stati ben sintonizzati, perfettamente attrezzati, pronti ad andare in onda, in attesa dei nostri primi segnali televisivi. Li scoprono, li registrano, e dopo un po’ ce li rispediscono. Ma a meno che essi non siano già stati qui — sa, qualche missione di rilevamento un centinaio di anni fa — non avrebbero potuto sapere che stavamo per inventare la televisione. Quindi il dottor Arroway pensa che questa civiltà stia controllando tutti i sistemi planetari adiacenti, per vedere se qualcuno dei suoi vicini stia sviluppando un’alta tecnologia.» «Ken, qui ci sono moltissime cose a cui pensare. Sei sicuro che gli… gli abitanti di Vega non sappiano di che trattasse quel programma televisivo?» «Presidente, non c’è alcun dubbio che siano intelligenti. Quello del 1936 era un segnale debolissimo. I loro rilevatori devono essere incredibilmente sensibili per captarlo. Ma non vedo come potrebbero capirne il significato. Probabilmente hanno un aspetto molto diverso dal nostro. Devono avere una diversa storia, consuetudini diverse. Non c’è modo per loro di sapere che cosa sia una svastica o chi fosse Adolf Hitler.» «Adolf Hitler! Ken, questa cosa mi rende furiosa. Quaranta milioni di persone muoiono per sconfiggere quel megalomane e lui è la star della prima trasmissione a un’altra civiltà? Sta rappresentando noi. E loro. Si è avverato il sogno più ambizioso di quel pazzo.» Fece una pausa e quindi proseguì con un tono più calmo. «Sai, non ho mai pensato che Hitler potesse fare quel saluto alla Hitler. Non l’ha mai fatto a braccio teso, era sempre deviato secondo un angolo ridicolo. E allora c’era quel saluto da finocchio a gomito piegato. Se chiunque altro avesse fatto in maniera così maldestra il suo Heil Hitler sarebbe stato spedito sul fronte russo.» «Ma non c’è una differenza? Stava solo contraccambiando i saluti degli altri. Non stava facendo Heil Hitler.» «Oh, credo proprio di sì,» ribattè la Presidente e, con un gesto, accompagnò der Heer fuori della Sala Rosa e lungo un corridoio. All’improvviso si arrestò e guardò il suo consigliere scientifico. «E se i Nazisti non avessero avuto la televisione nel 1936? Che cosa sarebbe successo allora?» «Beh, allora suppongo che si sarebbe trattato dell’incoronazione di Giorgio VI, o di una delle trasmissioni sull’Esposizione Universale di New York nel 1939, se una di esse fosse stata abbastanza forte per essere ricevuta su Vega. O di alcuni programmi della fine degli anni Quaranta e degli inizi dei Cinquanta. Ha presente, Howdy Doody, Milton Berle, le udienze Esercito-McCarthy, tutti quei meravigliosi segni di vita intelligente sulla Terra.» «Quei maledetti programmi sono i nostri ambasciatori nello spazio… l’Emissario della Terra.» Tacque un attimo per assaporare la frase. «Con un ambasciatore, si suppone che si faccia del proprio meglio, e noi abbiamo continuato per quarantenni a inviare nello spazio soprattutto della merda. Vorrei vedere i dirigenti delle reti televisive alle prese con questa patata bollente. E quel folle di Hitler, è la prima notizia che hanno della Terra? Che penseranno di noi?» Mentre der Heer e la Presidente entravano nella sala del consiglio, quelli che erano rimasti in piedi, a piccoli gruppi, smisero di parlare e alcuni che erano rimasti seduti fecero l’atto di alzarsi. Con un gesto meccanico la Presidente espresse la sua preferenza per l’informalità e salutò alla buona il Segretario di Stato e un Sottosegretario della Difesa. Con un lento e studiato giro del capo, scrutò il gruppo. Alcuni ricambiarono il suo sguardo con un’espressione di attesa. Altri, scorgendo un’aria di leggero fastidio sul volto della Presidente, distolsero lo sguardo. «Ken, non c’è quella tua astronomia? Arrowsmith? Arro-wroot?» «Arroway, Presidente. Lei e il dottor Valerian sono arrivati la notte scorsa. Forse sono rimasti imbottigliati nel traffico.» «Il dottor Arroway ha chiamato dal suo hotel, Presidente,» spiegò con zelo un giovanotto dall’aspetto estremamente raffinato. «Ha detto che c’erano alcuni nuovi dati che stavano arrivando sul suo telefax, e che voleva portarli a questa riunione. Presumibilmente dovremo cominciare senza di lei.» Michael Kitz si sporse in avanti e prese la parola con un tono e un’espressione di incredulità. «Stanno trasmettendo nuovi dati su questo argomento con un telefono aperto, insicuro, in una stanza di un albergo di Washington?» Der Heer ribattè così piano che Kitz dovette sporgersi ancor di più per poter sentire. «Mike, penso che ci sia almeno una criptografia commerciale sul suo telefax. Ma ricordati che non ci sono istruzioni di sicurezza precise in questa faccenda. Sono certo che il dottor Arroway collaborerà se verranno fissate delle precise norme.» «Va bene, cominciamo,» disse la Presidente. «Questa è una riunione congiunta, e informale, del National Security Council e di quel che chiamiamo per il momento lo Special Contingency Task Group. Voglio che vi mettiate tutti in testa che nulla di quanto verrà detto in questa stanza — dico nulla — deve essere discusso con qualcuno che non si trova qui, tranne che con il Segretario della Difesa e il Vice Presidente che sono in Europa. Ieri, il dottor der Heer ha fornito alla maggior parte di voi dei ragguagli su questo incredibile programma televisivo dalla stella Vega. E opinione del dottor der Heer e di altri» — si guardò attorno — «che sia solo un caso fortuito che il primo programma televisivo a raggiungere Vega abbia avuto come protagonista Adolf Hitler. Ma è … imbarazzante. Ho chiesto al Direttore della Central Intelligence di preparare una stima di tutte le implicazioni per la sicurezza nazionale presenti in esso. C’è qualche diretta minaccia da chiunque ce lo stia inviando? Saremo nei pasticci se arriverà un nuovo messaggio e qualche altro paese lo decifrerà per primo? Ma per prima cosa lascia che ti chieda, Marvin, se ha qualcosa a che fare con i dischi volanti?» Il Direttore della Central Intelligence, un uomo autoritario alle soglie della senilità, che portava un paio di occhiali dalla montatura d’acciaio, riassunse. Gli oggetti volanti non identificati, chiamati comunemente UFO, avevano interessato saltuariamente la GIÀ e l’Air Force specialmente negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta, perché allora potevano essere considerati come un mezzo adottato da una potenza nemica per creare confusione o per sovraccaricare i canali delle comunicazioni. Alcuni degli incidenti più attendibili registrati risultarono essere delle penetrazioni nello spazio aereo statunitense o sorvolamenti di basi americane d’oltremare da parte di velivoli dalle prestazioni eccezionali provenienti dall’Unione Sovietica o da Cuba. Tali sorvolamenti erano un comune mezzo per verificare la prontezza di un potenziale avversario, e gli Stati Uniti avevano un bel curriculum di violazioni e tentativi di violazione dello spazio aereo sovietico. Un Mig cubano, che era penetrato nel bacino del Mississippi per duecento miglia prima di venir scoperto, veniva considerato una pubblicità indesiderabile dalla NORAD. Per l’Air Force la procedura consueta era stata quella di negare che qualche suo velivolo fosse nelle vicinanze del luogo di avvistamento dell’UFO, e di non comunicare nulla circa penetrazioni non autorizzate, rafforzando così l’inganno ai danni dell’opinione pubblica. A queste spiegazioni, il capo dello staff dell’Air Force apparve leggermente a disagio, ma non disse nulla. La grande maggioranza delle segnalazioni di UFO, proseguì il Direttore della Central Intelligence, riguardavano in realtà oggetti naturali interpretati in maniera errata dall’osservatore. Velivoli diversi dal solito o sperimentali, fari d’auto riflessi dalle nubi, palloni, uccelli, insetti luminescenti, persino pianeti e stelle visti in condizioni atmosferiche inusuali, erano stati tutti segnalati come UFO. Un significativo numero di rapporti si erano rivelati scherzi o semplici allucinazioni. C’erano stati più di un milione di avvistamenti di UFO segnalati in tutto il mondo dacché il termine «disco volante» era stato coniato alla fine degli anni Quaranta, e nessuno di essi era sembrato collegabile con fondamento a una visita di extraterrestri. Ma l’idea suscitò grandi emozioni, e ci furono gruppi periferici e pubblicazioni, e persino alcuni scienziati che tennero viva la presunta connessione fra gli UFO e la vita su altri mondi. La recente dottrina millenaristica includeva la sua parte di redentori extraterrestri a bordo di dischi volanti, Il dipartimento investigativo ufficiale dell’Air Force, chiamato in una delle sue ultime trasformazioni Progetto Libro Blu, era stato chiuso negli anni Sessanta per mancanza di progressi, benché l’Air Force e la CIA avessero continuato a nutrire congiuntamente un sottile interesse. La comunità scientifica era così convinta che non ci fosse nulla di vero al riguardo che quando Jimmy Carter chiese alla National Aeronautics and Space Administration di effettuare uno studio approfondito sugli UFO, la NASA oppose un inconsueto rifiuto alla richiesta. «In realtà,» interloquì uno degli scienziati attorno al tavolo, poco pratico del protocollo in simili riunioni, «la faccenda degli UFO ha reso più difficile lavorare seriamente al SETI.» «Benissimo.» La Presidente sospirò. «C’è qualcuno attorno a questo tavolo che pensa che gli UFO e questo segnale da Vega abbiano qualcosa in comune?» Der Heer si esaminava le unghie. Nessuno fiatò. «Però ci saranno lo stesso un sacco di ‘Te l’avevo detto io da parte di quei fanatici ufofili. Marvin, perché non continui?» «Nel 1936, Presidente, un debolissimo segnale televisivo trasmette le cerimonie di apertura delle olimpiadi a pochissimi apparecchi nell’area di Berlino. E’ un tentativo di far colpo sull’opinione pubblica. Mostra i progressi e la superiorità della tecnologia tedesca. C’erano state alcune trasmissioni televisive in precedenza, ma tutte a bassissimi livelli di potenza. Effettivamente noi l’abbiamo fatto prima dei Tedeschi. Il Segretario del Commercio Herbert Hoover fece una breve apparizione televisiva il … 27 aprile 1927. A ogni modo, il segnale tedesco lascia la Terra alla velocità della luce, e ventisei anni dopo arriva su Vega. Discutono il segnale per alcuni anni — chiunque essi siano — e quindi ce lo rimandano indietro enormemente amplificato. La loro capacità di ricevere quel segnale debolissimo è impressionante, ed è impressionante la loro capacità di rimandarcelo a così alti livelli di potenza. Qui ci sono certamente delle implicazioni per la sicurezza. La comunità dello spionaggio elettronico, per esempio, gradirebbe sapere come possano essere scoperti segnali tanto deboli. Quelle creature, o qualunque cosa siano, su Vega sono certamente più avanzate di noi: forse soltanto di pochi decenni, ma forse molto di più. Non ci hanno dato nessun’altra informazione su di loro tranne che a certe frequenze il segnale trasmesso non mostra l’effetto Doppler derivante dal moto del loro pianeta attorno alla loro stella. Hanno semplificato il passo del raffinamento dei dati per noi. Sono… servizievoli. Finora non è stato ricevuto nulla di militare o di qualsiasi altro interesse. Tutto quello che ci hanno detto è che sono bravi in radioastronomia, che amano i numeri primi, e che possono rimandarci indietro la nostra trasmissione televisiva. Non ci dovrebbe essere alcun danno se le altre nazioni ne sono informate. E ricordate: tutti gli altri paesi stanno ricevendo lo stesso clip di Hitler della durata di tre minuti in continuazione. Non hanno ancora scoperto come leggerlo. I Russi o i Tedeschi, o qualcun altro, arriveranno probabilmente a questa modulazione di polarizzazione, prima o poi. La mia impressione personale, Presidente — non so se lo Stato sia d’accordo — è che sarebbe meglio che noi la rendessimo nota al mondo prima di venir accusati di tener nascosto qualcosa. Se la situazione rimane statica — senza grandi cambiamenti rispetto a quella attuale — potremmo pensare di fare un annuncio pubblico, o addirittura di distribuire il clip. Detto per inciso, non siamo stati capaci di trovare nessuna indicazione negli archivi tedeschi di quello che c’era nella trasmissione originale. Non possiamo essere assolutamente sicuri che le creature di Vega non abbiano operato nessun cambiamento nel contenuto prima di rimandarcela indietro. Possiamo riconoscere Hitler, d’accordo, e il settore dello stadio olimpico che noi vediamo corrisponde perfettamente alla Berlino del 1936. Ma se in quel momento Hitler si fosse in realtà grattato i baffi invece di sorridere come nella trasmissione, non avremmo modo di saperlo.» Ellie arrivò un po’ ansante, seguita da Valerian. Cercarono di occupare delle sedie poco in vista contro la parete, ma der Heer se ne accorse e attirò l’attenzione della Presidente su loro. «Dottor Arrow-uh-way? Sono contenta di vedere che è arrivata sana e salva. Per prima cosa, lasci che mi congratuli con lei per una splendida scoperta. Splendida. Uhm, Marvin…» «Sono a una battuta d’arresto, Presidente.» «Bene. Dottor Arroway, sappiamo che ha qualcosa di nuovo. Vorrebbe dirci di che si tratta?» «Presidente, mi dispiace di essere in ritardo, ma penso che abbiamo appena avuto un colpo di fortuna cosmico. Abbiamo… E’… Lasci che tenti di spiegarglielo in questo modo: nei tempi classici, migliaia di anni fa, quando si era a corto di pergamena, gli antichi scrivevano sopra messaggi preesistenti, facendo ciò che è chiamato un palinsesto. C’era una scrittuta sotto una scrittura che celava un’altra scrittura. Questo segnale da Vega è, naturalmente, molto forte. Come lei sa, ci sono i numeri primi, e sotto di essi, in ciò che è chiamata modulazione di polarizzazione, la strana faccenda di Hitler. Ma sotto la sequenza di numeri primi e sotto la trasmissione olimpica che ci è stata rimandata, abbiamo appena scoperto un messaggio incredibilmente ricco… almeno, siamo abbastanza sicuri che si tratti di un messaggio. Per quanto possiamo dire, è sempre stato là. Lo abbiamo appena individuato. E’ più debole del segnale di annuncio, ma è imbarazzante che non lo abbiamo trovato prima.» «Che cosa dice il messaggio?» domandò la Presidente. «Di che si tratta?» «Non ne abbiamo la benché minima idea, Presidente. Alcuni scienziati del Progetto Argus ci sono arrivati stamattina presto, ora di Washington. Noi ci abbiamo lavorato tutta la notte.» «Con un telefono aperto?» chiese Kitz. «Con la criptografia commerciale standard.» Ellie appariva un po’ agitata. Aprendo la custodia del suo telefax, estrasse in fretta la diapositiva di un tabulato e, con un epidiascopio, la proiettò su uno schermo. «Ecco tutto quello che sappiamo al momento: riceveremo un blocco di informazioni comprendente circa un migliaio di bit. Ci sarà una pausa e quindi lo stesso blocco verrà ripetuto, bit per bit. Poi ci sarà un’altra pausa, e proseguiremo con il blocco seguente, che verrà ugualmente ripetuto. Probabilmente la ripetizione di ogni blocco serve a rendere minimi gli errori di trasmissione. Devono pensare che sia molto importante che noi riceviamo con precisione qualunque cosa sia quello che stanno dicendo. Ora, chiamiamo ciascuno di questi blocchi di informazioni in una pagina. Argus sta raccogliendo alcune dozzine di queste pagine al giorno. Ma non sappiamo che cosa riguardino. Non sono un semplice cifrario fotografico come il messaggio olimpico. E qualcosa di molto più profondo e molto più ricco. Sembra si tratti, per la prima volta, di informazioni che essi hanno prodotto. L’unica traccia che abbiamo finora è che le pagine sembrano numerate. All’inizio di ogni pagina si trova una cifra della numerazione binaria. La vedete qui? E ogni volta che arriva un altro paio di pagine identiche la cifra è quella successiva, in un regolare crescendo. Proprio adesso siamo alla pagina… 10.413. Si tratta di un grosso libro. Facendo dei calcoli all’indietro, sembra che il messaggio sia cominciato circa tre mesi fa. Siamo fortunati ad averlo captato così presto.» «Avevo ragione, non è vero?» Kitz si protese sul tavolo verso der Heer. «Non è il tipo di messaggio che vorresti dare ai Giapponesi o ai Cinesi o ai Russi, vero?» «Sarà facile da capire?» chiese la Presidente coprendo i sussurri di Kitz. «Naturalmente faremo del nostro meglio. E sarebbe probabilmente utile che ci lavorasse anche la National Security Agency. Ma senza una spiegazione da Vega, senza un manuale di istruzioni, sono del parere che non andremo molto lontano. Certamente non sembra scritto in inglese o in tedesco o in qualsiasi altro linguaggio terrestre. La nostra speranza è che il Messaggio finisca, forse a pagina 20.000 o 30.000 e che poi ricominci esattamente dall’inizio, così da metterci in grado di completare le parti mancanti. Forse prima che l’intero Messaggio si ripeta, ci sarà un sillabario, un manuale, una sorta di ‘McGuffrey’s Reader’, che ci metterà in grado di capire il Messaggio.» «Se mi è concesso, Presidente…» «Presidente, questi è il dottor Peter Valerian del California Institute of Technology, uno dei pionieri in questo campo.» «Prego, parli, dottor Valerian.» «Si tratta di una trasmissione intenzionale indirizzata a noi. Sanno che siamo qui. Si sono fatti una certa idea, avendo intercettato la nostra emissione del 1936, del nostro livello tecnologico e del nostro grado di intelligenza. Non si darebbero tanta pena se non volessero farci comprendere il Messaggio. In qualche punto c’è la chiave per aiutarci a capirlo. E’ solo una questione di accumulare tutti i dati e di analizzarli molto attentamente.» «Bene, di che cosa tratta il Messaggio, secondo lei?» «Non so che dire, Presidente. Posso solamente ripetere ciò che ha detto il dottor Arroway. E’ un messaggio intricato e complesso. La civiltà che lo trasmette è impaziente di farcelo ricevere. Forse non è che un piccolo volume dell’ ‘Enciclopedia galattica’. La stella Vega è circa tre volte più compatta del Sole e circa cinquanta volte più splendente. Poiché brucia il suo combustibile nucleare così velocemente, avrà una durata molto più breve di quella del Sole…» «Sì, forse qualcosa sta per andar male su Vega,» lo interruppe il Direttore della Central Intelligence. «Forse il loro pianeta verrà distrutto. Forse vogliono che qualcun altro sappia della loro civiltà prima che siano spazzati via.» «O,» suggerì Kitz, «forse stanno cercando un nuovo posto su cui trasferirsi, e la Terra sarebbe l’ideale per loro. Forse non è casuale che abbiano scelto di inviarci un filmato di Adolf Hitler.» «Un momento,» disse Ellie, «ci sono moltissime possibilità, ma non tutto è possibile. Per la civiltà che trasmette non c’è modo di sapere se abbiamo ricevuto il Messaggio, ancor meno se stiamo facendo qualche progresso nella sua decifrazione. Se troviamo il Messaggio offensivo non siamo obbligati a rispondere. E anche se rispondessimo ci vorrebbero ventisei anni prima che possano ricevere la risposta, e altri ventisei anni prima che possano replicare. La velocità della luce è grande, ma non infinitamente grande. Siamo a una notevole distanza di sicurezza da Vega. E se c’è qualcosa che ci preoccupa riguardo a questo nuovo Messaggio, abbiamo decenni per decidere sul da farsi. Non facciamoci già prendere dal panico.» Pronunciò queste ultime parole sorridendo amabilmente a Kitz. «Apprezzo tali osservazioni, dottor Arroway,» ribattè la Presidente. «Ma le cose stanno capitando in fretta. Maledettamente in fretta. E ci sono troppi forse. Non ho neppure rilasciato una dichiarazione pubblica a questo proposito. Neppure riguardo ai numeri primi, figurarsi poi a quella merda di Hitler. Adesso dobbiamo pensare a questo libro che, secondo lei, ci stanno mandando. E dal momento che voi scienziati vi parlate con una certa leggerezza, le voci stanno circolando. Phyllis, dov’è quell’incartamento? Ecco, guardate questi titoli.» Mostrò una serie di articoli che recavano tutti lo stesso messaggio, in uno stile giornalistico che non variava molto: «DOTTORE SPAZIALE PARLA DI COMUNICAZIONE RADIO DA MOSTRI CON OCCHI DA INSETTO», «TELEGRAMMA ASTRONOMICO ACCENNA A INTELLIGENZE EXTRATERRESTRI», «VOCE DAL CIELO?» e «GLI ALIENI STANNO ARRIVANDO! GLI ALIENI STANNO ARRIVANDO!» Lasciò Cadere i ritagli sul tavolo. «Almeno la storia di Hitler non è ancora saltata fuori. Sto aspettando titoli del tipo: ‘HITLER VIVO E VEGETO NELLO SPAZIO, DICONO GLI STATI UNITI’. E peggio. Molto peggio. Penso che faremmo meglio a sospendere la riunione e a riconvocarla più avanti.» «Se mi è concesso, Presidente,» intervenne der Heer con tono esitante e con evidente riluttanza. «Mi scusi, ma ci sono alcune implicazioni internazionali che penso debbano essere sollevate adesso.» La Presidente acconsentì con un sospiro. Der Heer proseguì. «Mi dica se ho capito bene, dottor Arroway. Ogni giorno la stella Vega sorge sul deserto del New Mexico, e allora riceverete una qualunque pagina di questa complessa trasmissione inviata per caso alla Terra in quel momento. Quindi, circa otto ore dopo, la stella tramonta. Esatto finora? Okay. Poi il giorno seguente la stella sorge nuovamente a est, ma avete perso alcune pagine durante il periodo in cui non eravate in grado di osservarla, dopo che era tramontata la notte precedente. Giusto? Perciò, è come se riceveste le pagine da trenta a cinquanta e successivamente quelle da ottanta a cento, e così via. Per quanta cura e pazienza ci si metta nell’osservazione, avremo enormi quantità di informazioni mancanti. Lacune. Anche se il messaggio per caso si ripeterà, avremo sempre delle lacune.» «Perfettamente esatto.» Ellie si alzò e si avvicinò a un gigantesco mappamondo. Evidentemente la Casa Bianca era contraria all’obliquità della Terra; l’asse di quel globo era verticale in maniera provocante. Cercò di dargli un movimento rotatorio. «La Terra gira. C’è bisogno di radiotelescopi distribuiti uniformemente su molte longitudini se non si vogliono delle lacune. Ogni nazione che osservi soltanto dal proprio territorio capterà solo parti del messaggio, perdendo forse le più interessanti. E lo stesso tipo di problema che si trova a dover affrontare un velivolo interplanetario americano, che trasmette le sue scoperte alla Terra quando passa accanto a qualche pianeta; ma gli Stati Uniti in quel momento possono trovarsi dall’altra parte. Perciò la NASA ha predisposto che tre stazioni radio di appoggio fossero distribuite uniformemente secondo la longitudine attorno alla Terra. Per decenni hanno funzionato superbamente. Ma…» La sua voce mostrò qualche esitazione e lei guardò direttamente P.L Garrison, l’Amministratore della NASA. Un uomo sottile, dal colorito giallastro e dall’aria cordiale, che le fece un cenno d’intesa. «Uh, grazie. Sì. Si chiama Deep Space Network, e ne siamo molto orgogliosi. Abbiamo stazioni nel deserto del Mojave, in Spagna e in Australia. Naturalmente, siamo a corto di fondi, ma con un piccolo aiuto sono certo che potremmo riprenderci in fretta.» «Spagna e Australia?» chiese la Presidente. «Per attività puramente scientifica,» stava dicendo il Segretario di Stato, «sono sicuro che non ci sia nessun problema. Tuttavia, se questo programma di ricerca avesse delle implicazioni politiche, potrebbe essere un po’ delicato.» Da qualche tempo le relazioni americane con entrambi i paesi si erano raffreddate. «Non c’è alcun dubbio: il programma presenta implicazioni politiche,» ribattè la Presidente un po’ stizzita. «Ma non siamo costretti a essere vincolati alla superficie terrestre,» intervenne un generale dell’Air Force. «Possiamo superare il periodo di rotazione. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un grande radiotelescopio in orbita terrestre.» «Benissimo.» La Presidente volse lo sguardo di nuovo attorno al tavolo. «Abbiamo un radiotelescopio spaziale? Quanto tempo ci vorrebbe per averne uno in orbita? Chi ne sa qualcosa? Dottor Garrison?» «Uh, no, Presidente. Alla NASA abbiamo presentato un progetto per l’Osservatorio Maxwell negli ultimi tre anni fiscali, ma l’OMB lo ha tolto dal bilancio ogni volta. Siamo in possesso di uno studio dettagliato, naturalmente, ma ci vorrebbero anni — tre in ogni caso — prima di poterlo avere in orbita. E mi sento in dovere di rammentare a tutti che fino all’autunno scorso i Russi avevano un telescopio a onde millimetriche e submillimetriche in funzione attorno alla Terra. Non sappiamo perché si sia guastato, ma sarebbe più facile per loro inviare alcuni cosmonauti a ripararlo che per noi costruirne e lanciarne uno partendo da zero.» «E’ così?» la Presidente chiese. «La NASA ha un comune telescopio nello spazio ma nessun grande radiotelescopio. Non c’è nulla di adatto allo scopo che si trovi già lassù? Che mi dite della comunità dello spionaggio? E della National Security Agency? Nessuno?» «Allora, proprio per seguire il filo del ragionamento,» disse der Heer, «si tratta di un forte segnale ed è su moltissime frequenze. Dopo il tramonto di Vega sugli Stati Uniti, ci sono dei radiotelescopi in sei o sette paesi che stanno individuando e registrando il segnale. Non sono sofisticati come quelli del Progetto Argus, e probabilmente non hanno ancora ricavato la modulazione di polarizzazione. Se indugiamo a preparare un radiotelescopio spaziale e a lanciarlo, il messaggio in quel momento potrebbe già essere finito, sparito completamente. Non ne consegue allora, dottor Arroway, che l’unica soluzione è un’immediata collaborazione con un certo numero di altre nazioni?» «Non credo che ci sia una nazione in grado di portare a termine l’impresa da sola. La cosa richiederà molte nazioni, allineate, longitudinalmente lungo tutta la superficie della Terra. Coinvolgerà ogni importante installazione radioastronomica ora in funzione — i grandi radiotelescopi presenti in Australia, Cina, India, Unione Sovietica, Medio Oriente ed Europa occidentale. Sarebbe da irresponsabili concludere con una serie di lacune nella copertura perché qualche sezione critica del Messaggio è arrivata quando non c’era nessun telescopio puntato su Vega. Dobbiamo fare qualcosa per il Pacifico orientale tra le Hawaii e l’Australia, e forse qualcosa anche per la zona centrale dell’Atlantico.» «Dunque,» replicò malvolentieri il Direttore della Central Intelligence, «i Russi hanno parecchie navi per l’intercettazione dei satelliti, che operano sia in banda S sia in banda X, 1’ ‘Akademik Keldysh’, per esempio. O la ‘Marshal Nedelin. Se ci mettiamo d’accordo con loro, potrebbero essere in grado di piazzare delle navi nell’Atlantico o nel Pacifico e riempire i buchi.» Ellie contrasse le labbra per ribattere, ma la Presidente aveva già preso la parola. «Benissimo, Ken. Puoi aver ragione. Ma torno a ripetere che la cosa sta procedendo troppo in fretta. Ci sono alcune altre cose a cui devo badare adesso. Apprezzerei se il Direttore della Central Intelligence e lo staff della National Security volessero considerare durante la notte se abbiamo qualche altra scelta oltre alla collaborazione con altri paesi, specialmente paesi di cui non siamo alleati. Gradirei che il Segretario di Stato preparasse, in cooperazione con gli scienziati, una lista speciale di nazioni e di persone da contattare se dobbiamo collaborare, e una valutazione delle conseguenze. Qualche nazione si infurierà con noi se non chiederemo loro di mettersi in ascolto? Possiamo essere ricattati da qualcuno che promette i dati e poi se li tiene? Dovremmo tentare di avere più di un paese a ogni longitudine? Esaminate le implicazioni. E per Dio» — il suo sguardo passò in rassegna tutti i volti che stavano attorno alla lunga tavola lucente — «mantenete il silenzio sulla faccenda. Anche lei, Arroway. Abbiamo già abbastanza problemi.» 7 L’ETANOLO NELLA W-3 «Non si deve prestare alcuna fede all’opinione… che i demoni agiscano come messaggeri e interpreti tra gli dei e gli uomini per portare tutte le petizioni da noi agli dei e per riportarci l’aiuto degli dei. Al contrario, dobbiamo ritenerli spiriti bramosi di fare del male, totalmente alieni dalla rettitudine, gonfi d’orgoglio, lividi d’invidia, scaltri nell’inganno…»      AGOSTINO, De civitate Dei, VIII, 22 «Abbiamo le profezie di Cristo per le eresie future, ma non abbiamo predizione alcuna per la scomparsa di quelle passate.»      THOMAS BROWNE, Religio Medici, I, 8 (1642) Ellie aveva progettato di incontrare Vaygay all’aeroporto di Albuquerque e di accompagnarlo all’Argus con la sua Thunder-bird. Il resto della delegazione sovietica avrebbe viaggiato sulle auto dell’osservatorio. Avrebbe provato il piacere di sfrecciare all’aeroporto nella fresca aria dell’alba, forse di nuovo salutata da una guardia d’onore di conigli rampanti. E aveva pregustato un lungo e sostanzioso colloquio privato con Vaygay sulla strada del ritorno. Ma i nuovi addetti alla sicurezza della General Services Administration avevano posto il veto all’idea. L’attenzione dei media e il sobrio annuncio rilasciato dalla Presidente al termine della sua conferenza stampa di due settimane prima avevano attirato folle enormi in mezzo al deserto. C’era la possibilità di un’esplosione di violenza, avevano detto a Ellie. In futuro avrebbe dovuto viaggiare soltanto in auto governative, e per di più sotto scorta armata. Il loro piccolo convoglio stava avviandosi alla volta di Albuquerque a un’andatura così misurata e responsabile che istintivamente si trovò a premere con il piede destro un immaginario acceleratore sul tappetino di gomma davanti a lei. Sarebbe stato piacevole passare di nuovo un po’ di tempo con Vaygay. Lo aveva visto l’ultima volta a Mosca tre anni prima, durante uno di quei periodi in cui gli si proibiva di visitare l’Occidente. L’autorizzazione per viaggi all’estero era stata concessa o negata nel corso dei decenni a seconda del mutamento delle tendenze politiche e della condotta imprevedibile di Vaygay. Il permesso gli veniva negato dopo una qualche leggera provocazione politica da cui egli sembrava incapace di trattenersi, e poi accordato nuovamente quando non si poteva trovare nessuno altrettanto valido per dar corpo a questa o quella delegazione scientifica. Riceveva inviti da tutto il mondo per lezioni, seminari, incontri, conferenze, gruppi di studio associati, e commissioni internazionali. Come vincitore di un premio Nobel per la fisica e come membro effettivo dell’Accademia Sovietica delle Scienze, egli poteva permettersi di essere un po’ più indipendente della maggior parte dei suoi colleghi. Spesso sembrava in una posizione di equilibrio precario ai limiti estremi della pazienza e del controllo dell’ortodossia governativa. Il suo nome per esteso era Vasilj Gregorovic Lunacarskij, conosciuto nella comunità mondiale dei fisici come Vaygay dalle iniziali del nome di battesimo e del patronimico. Le sue incerte e ambigue relazioni con il regime sovietico erano motivo di perplessità per lei e gli altri scienziati in Occidente. Era un parente alla lontana di Anatolj Vasilievic Lunacarskij, un vecchio collega bolscevico di Gorkij, Lenin e Trotzkij: costui era stato in seguito Commissario del Popolo per l’Educazione e ambasciatore sovietico in Spagna fino alla sua morte avvenuta nel 1933. La madre di Vaygay era ebrea. Si diceva che lui avesse lavorato alle armi nucleari sovietiche, benché a quell’epoca, certo fosse troppo giovane per aver sostenuto un ruolo di una certa importanza nella prima esplosione termonucleare sovietica. Il suo istituto aveva un buono staff e un buon equipaggiamento, e la sua produttività scientifica era prodigiosa, sì da attirare quasi costantemente l’attenzione del Comitato per la Sicurezza di Stato. Nonostante le concessioni e le sospensioni dei permessi per i viaggi all’estero, aveva partecipato spesso alle più importanti conferenze internazionali compresi i simposi «Rochester» sulla fisica delle particelle, i convegni «Texas» sull’astrofisica relativistica, e le informali ma talvolta autorevoli riunioni scientifiche «Pugwash» sui mezzi per ridurre la tensione internazionale. Le era stato detto che negli anni Sessanta Vaygay aveva visitato l’Università di California a Berkeley e si era entusiasmato per la proliferazione di slogan irriverenti, scatologici e politicamente offensivi stampati su distintivi da pochi soldi. Ellie con una leggera nostalgia ricordò come fosse possibile allora farsi un’idea al primo sguardo delle convinzioni sociali più profonde di qualcuno. I distintivi erano popolari e andavano a ruba anche nell’Unione Sovietica, ma di solito celebravano la squadra di calcio «Dynamo», o uno dei veicoli spaziali della fortunata serie «Luna», che era stato il primo ad atterrare sul nostro satellite. I distintivi di Berkeley erano diversi e Vaygay ne aveva comperati a decine, ma gli piaceva portarne uno in particolare. Era grande come il palmo della sua mano e diceva: «Pregate per il sesso». Lo sfoggiava persino alle riunioni scientifiche e quando gliene si chiedeva la ragione, solea dire: «Nel vostro paese, è offensivo soltanto in un modo. Nel mio, invece, è offensivo in due modi indipendenti.» Se gli altri ne volevano sapere di più, egli commentava soltanto che il suo famoso parente bolscevico aveva scritto un libro sul posto della religione in una società socialista. Da allora, il suo inglese era migliorato moltissimo — molto di più del russo di Ellie — ma la sua tendenza a portare distintivi oltraggiosi era, tristemente, diminuita. Una volta, durante un’animata discussione sui relativi meriti dei due sistemi politici, Ellie si era vantata di essere stata libera di marciare davanti alla Casa Bianca per protestare contro l’intervento americano nella guerra del Vietnam. Vaygay replicò che nello stesso periodo aveva avuto la stessa libertà di marciare davanti al Cremlino per protestare contro l’intervento americano nella guerra del Vietnam. Non aveva mai avuto la tentazione di fotografare le chiatte cariche di rifiuti maleodoranti su cui si abbattevano con grida rauche i gabbiani mentre sfilavano lente davanti alla Statua della Libertà, come aveva fatto un altro scienziato sovietico quando lei lo aveva accompagnato per un po’ di svago sul traghetto di Staten Island durante un intervallo di un convegno a New York City. E non aveva neppure fotografato con passione, come avevano fatto alcuni dei suoi colleghi, le capanne in rovina e le baracche di lamiere ondulate dei poveri portoricani durante un’escursione in bus da un lussuoso hotel sulla spiaggia all’osservatorio di Arecibo. A chi mostravano quelle foto? Ellie se lo era sempre chiesta. Fantasticava di una grande biblioteca del KGB dedicata alle miserie, alle ingiustizie e alle contraddizioni della società capitalistica. Era loro di conforto, quando si sentivano afflitti per qualcuno dei fallimenti della società sovietica, passare in rassegna le sbiadite istantanee dei loro imperfetti cugini americani? C’erano stati molti brillanti scienziati in Unione Sovietica che, per colpe sconosciute, non avevano ottenuto il permesso di visitare l’Europa occidentale per decenni. Kostantinov, per esempio, non era mai stato in Occidente fino alla metà degli anni Sessanta. Quando, a un congresso internazionale a Varsavia — attorno a un tavolo ingombro di decine di grandi bicchieri vuoti di brandy Azerbaijani, al termine dei lavori — fu chiesto a Kostantinov il perché, egli rispose: «Perché i bastardi sanno che se mi lasciano uscire non tornerei più indietro.» Ciò nondimeno, lo avevano lasciato uscire durante il disgelo delle relazioni scientifiche tra i due paesi tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, e lui era ritornato indietro ogni volta. Ma adesso non lo lasciavano più uscire ed era ridotto a mandare ai suoi colleghi occidentali dei biglietti per il Nuovo Anno in cui si ritraeva miseramente a gambe incrociate, a testa china, seduto su una sfera sotto cui c’era l’equazione di Schwarzschild per il raggio di un buco nero. Egli si trovava in una profonda buca di potenziale, diceva a quelli che lo andavano a trovare a Mosca, usando una metafora tratta dalla fisica. Non lo avrebbero mai più lasciato uscire di nuovo. Alle domande che gli venivano poste, Vaygay rispondeva che il governo sovietico riteneva per certo che la rivoluzione ungherese del 1956 fosse stata organizzata da criptofascisti e che la Primavera di Praga del 1968 fosse stata provocata da un gruppo antisocialista in seno alla leadership che non rappresentava affatto la volontà del popolo cecoslovacco. Ma, soggiungeva, se ciò che gli era stato detto era falso, se quelle erano state genuine rivolte popolari, allora il suo paese aveva fatto male a reprimerle. A proposito dell’Afghanistan non si preoccupava neppure di citare le giustificazioni ufficiali. Una volta nel suo ufficio all’Istituto, egli aveva insistito per mostrare a Ellie la sua radio personale a onde corte, su cui vi erano delle frequenze con l’indicazione Londra, Parigi e Washington in caratteri cirillici. Era libero, le disse, di ascoltare la propaganda di tutte le nazioni. C’era stato un periodo in cui molti dei suoi colleghi si erano abbandonati alla retorica nazionale del pericolo giallo. «Immagini l’intera frontiera tra la Cina e l’Unione Sovietica occupata da soldati cinesi, spalla a spalla, un esercito d’invasori,» le chiese uno di loro, stimolando la fantasia di Ellie. Erano in piedi attorno al samovar nell’ufficio del Direttore all’Istituto. «Quanto ci vorrà, con l’attuale incremento demografico cinese, prima che passino tutti la frontiera?» E la risposta fu pronunciata in un tono a metà tra l’oscuro presagio e la gioia aritmetica: «Non avverrà mai!» William Randolph Hearst si sarebbe sentito invitato a nozze. Ma non Lunacarskij. Portando tanti soldati cinesi alla frontiera, si sarebbe automaticamente ridotto l’incremento demografico, argomentò lui; i loro calcoli erano perciò errati. Si era espresso come se l’abuso di modelli matematici fosse l’oggetto della sua disapprovazione, ma pochi non intesero il suo pensiero. Per quanto ne sapeva Ellie, anche al culmine delle tensioni cino-sovietiche non si era mai lasciato travolgere dalla paranoia e dal razzismo endemici. Ellie amava i samovar e poteva capire come piacessero tanto ai russi. Il loro «Lunakhod», il veicolo lunare privo di equipaggio che somigliava a una tinozza su ruote a raggi, le sembrava un po’ il discendente di un samovar. Vaygay una volta l’aveva accompagnata a vedere un modello di «Lunakhod» in una grande mostra nei dintorni di Mosca, in una splendida mattina di giugno. Là, accanto a un padiglione che presentava i manufatti e le attrattive della repubblica autonoma del Tadzikistan, c’era una sala piena fino al soffitto di modelli a grandezza naturale di veicoli spaziali sovietici per uso civile. «Sputnik 1», il primo satellite artificiale; «Sputnik 2», il primo satellite a portare un animale, la cagnetta Laika, che morì nello spazio; «Luna 2», il primo veicolo spaziale a raggiungere un altro corpo celeste; «Luna 3», il primo veicolo spaziale a fotografare l’emisfero invisibile della Luna; «Venus 7», la prima sonda spaziale ad atterrare senza danni su un altro pianeta; e «Vostok 1», il primo veicolo spaziale con un uomo a bordo, che aveva fatto compiere un giro attorno alla Terra al cosmonauta Yurij A. Gagarin, eroe dell’Unione Sovietica. Fuori, i bambini stavano usando come scivoli le alette del booster di lancio del «Vostok» e i loro bei riccioli biondi e i fazzoletti rossi del Komsomol si gonfiavano al vento mentre, con grande ilarità, scendevano a terra. «Zemlya», si diceva in russo. La grande isola sovietica nel Mar Glaciale Artico si chiamava Novaya Zemlya, Nuova Terra. Era là che nel 1961 avevano fatto esplodere un ordigno termonucleare da cinquantotto megatoni, la più grande esplosione fino ad allora provocata dalla specie umana. Ma in quella giornata di primavera, con i venditori di gelati di cui i moscoviti vanno così fieri, con le famiglie in gita e un vecchio sdentato che sorrideva a Ellie e a Lunacarskij come se fossero amanti, la vecchia terra era sembrata abbastanza piacevole. Durante le rare visite di lei a Mosca o a Leningrado, Vaygay spesso organizzava le serate. Un gruppo di sei o otto di loro si recava al Bolshoi o ai Kirov. Lunacarskij in qualche modo si procurava i biglietti. Ellie ringraziava i suoi ospiti per la serata e loro — spiegando che solo in compagnia di visitatori stranieri erano in grado di assistere a tali spettacoli — ringraziavano lei. Vaygay le sorrideva soltanto. Non portò mai con sé la moglie ed Ellie non l’aveva mai incontrata. Era, lui disse, un medico che si dedicava con abnegazione ai suoi pazienti. Ellie gli aveva chiesto quale fosse il suo più grande rammarico, giacché i suoi genitori non erano emigrati in America come avevano una volta progettato. «Ho un solo rammarico,» disse nella sua voce stridula. «Mia figlia ha sposato un Bulgaro.» Una sera, egli aveva organizzato una cena in un ristorante caucasico di Mosca. In tale occasione era stato ingaggiato un «ta-mada», cioè un autore di brindisi, che si chiamava Khaladze. L’uomo era un maestro in questa forma d’arte, ma il russo di Ellie era così scadente che la obbligò a farsi tradurre la maggior parte dei brindisi. Khaladze si rivolse a lei e, prevedendo come sarebbe andata a finire la serata, osservò: «Noi definiamo alcoolizzato un uomo che beve senza un brindisi.» Uno dei primi brindisi, piuttosto mediocre, era terminato con un invito «alla pace su tutti i pianeti», e Vaygay le aveva spiegato che la parola «mir» significava mondo, pace e una comunità autonoma di famiglie contadine che risaliva a tempi antichi. Avevano discusso se il mondo fosse stato più in pace quando le sue più grandi unità politiche non superavano i confini dei villaggi. «Ogni villaggio è un pianeta,» Lunacarskij aveva detto con il suo bicchiere levato in alto. «E ogni pianeta un villaggio,» aveva ribattuto lei. Tali riunioni erano un po’ rumorose. Si bevevano enormi quantità di brandy e di vodka, ma nessuno sembrava veramente ubriaco. Uscivano rumorosamente dal ristorante all’una o alle due del mattino e cercavano, spesso invano, di trovare un taxi. Parecchie volte lui l’aveva accompagnata a piedi per cinque o sei chilometri dal ristorante al suo albergo. Era premuroso, un po’ protettivo, tollerante nei suoi giudizi politici, fiero nelle sue dichiarazioni scientifiche. Benché le sue scappatelle sessuali fossero leggendarie tra i suoi colleghi, con Ellie non andò mai oltre il bacio della buonanotte. Ciò l’aveva sempre angustiata un po’, benché il suo affetto per lei fosse evidente. C’erano molte donne nella comunità scientifica sovietica, in proporzione più che in quella statunitense; ma di solito occupavano delle posizioni subordinate o di media importanza, e gli scienziati sovietici, come i loro colleghi americani, erano perplessi davanti a una bella donna con un’evidente competenza scientifica che esprimesse con forza i propri punti di vista. Alcuni la interrompevano o facevano finta di non sentirla. Allora, Lunacarskij si chinava sempre su lei e chiedeva con una voce più alta del consueto: «Che cosa ha detto, dottor Arroway? Non sono riuscito a sentire.» Gli altri allora facevano silenzio e lei proseguiva a parlare dei rivelatori trattati ad arsenuro di gallio, o dell’etanolo presente nella nube galattica W-3. La quantità di alcool a 200 gradi in quella singola nube interstellare sarebbe stata più che sufficiente a rifornire l’attuale popolazione terrestre, se ogni adulto fosse stato un alcoolizzato cronico, per l’età del sistema solare. Il «tamada» aveva apprezzato l’osservazione. Nei brindisi che seguirono essi si chiesero se altre forme di vita potevano essere intossicate dall’etanolo, se l’etilismo fosse un problema a livello galattico, e se un autore di brindisi su un qualsiasi altro mondo potesse essere abile come il loro Trofim Sergejvie Khaladze. Arrivarono all’aeroporto di Albuquerque per scoprire che, miracolosamente, il volo di linea proveniente da New York con la delegazione sovietica a bordo era atterrato con mezz’ora di anticipo. Ellie trovò Vaygay in un negozio di souvenir dell’aeroporto intento a contrattare sul prezzo di una sciocchezza. Doveva averla vista con la coda dell’occhio, perché senza voltarsi alzò un dito invitandola ad attendere un secondo. «Diciannove e novantacinque?» continuò rivolgendosi al commesso dall’aria del tutto indifferente. «Ne ho visto una serie identica ieri a New York per diciassette e cinquanta.» Ellie gli si accostò e osservò Vaygay sparpagliare una serie di carte da gioco tridimensionali illustrate con nudi dei due sessi in pose considerate ora semplicemente poco dignitose, ma che avrebbero scandalizzato la generazione precedente. L’impiegato stava tentando, senza molto entusiasmo, di raccogliere le carte, mentre Lunacarskij si adoperava con successo per sparpagliarle ancora di più sul banco. Vaygay stava avendo la meglio. «Mi dispiace, signore, non sono io a fissare i prezzi. Io qui ci lavoro soltanto,» si lamentò il commesso. «Si vedono le deficienze di un’economia pianificata,» disse Vaygay a Ellie mentre porgeva un biglietto da venti dollari all’impiegato. «In un sistema fondato veramente sulla libera iniziativa, probabilmente potrei acquistarle a quindici dollari. Forse a dodici e novantacinque. Non guardarmi in quella maniera, Ellie, non sono per me. Comprese le matte, ci sono cinquantaquattro carte in questa confezione. Ciascuna di esse costituirà un bel regalo per gli operatori del mio istituto.» Lei sorrise e lo prese sottobraccio. «E’ bello rivederti, Vaygay.» «Un piacere raro, mia cara.» Lungo la strada per Socorro, per un muto accordo reciproco, si scambiarono soprattutto delle battute di spirito. Valerian e l’autista, uno dei nuovi agenti di sicurezza, stavano davanti. Peter, un uomo poco loquace anche in circostanze normali, si limitava ad abbandonarsi all’indietro e ad ascoltare la loro conversazione, che sfiorava soltanto il problema che i russi erano venuti a discutere: il terzo livello del palinsesto, l’elaborato, complesso, e ancora indecifrato Messaggio che stavano ricevendo collettivamente. Il governo statunitense con una certa riluttanza aveva concluso che la partecipazione sovietica era essenziale. Ciò era vero soprattutto perché il segnale da Vega era così forte che per-sino i radiotelescopi modesti potevano scoprirlo. Anni prima, i sovietici avevano prudentemente disseminato una certa quantità di piccoli telescopi lungo l’intero territorio euroasiatico, coprendo 9-000 chilometri di superficie terrestre, e di recente avevano completato un radio-osservatorio importante vicino a Samarcanda. Inoltre, navi oceaniche russe per l’intercettazione dei satelliti stavano solcando sia l’Atlantico che il Pacifico. Alcuni dei dati raccolti dai sovietici erano superflui, perché anche gli osservatori in Giappone, in Cina, in India e in Iraq stavano registrando quei segnali. Certamente, ogni importante radiotelescopio del mondo che avesse Vega nel suo cielo stava in ascolto. Astronomi britannici, francesi, olandesi, svedesi, tedeschi, cecoslovacchi, canadesi, venezuelani e australiani stavano registrando piccoli frammenti del Messaggio, seguendo Vega dal suo sorgere al suo tramontare. In alcuni osservatori le apparecchiature di rivelazione non avevano neppure la sensibilità sufficiente per scoprire i singoli impulsi. Comunque ascoltavano un ronzio indistinto. Ognuna di queste nazioni possedeva un pezzette del puzzle, perché, come Ellie aveva ricordato a Kitz, la Terra gira. Ogni nazione tentava di trovare un qualche significato negli impulsi. Ma era difficile. Nessuno riusciva a dire nemmeno se il Messaggio fosse scritto in simboli o in fotogrammi. Era chiaro che non avrebbero decifrato il Messaggio fintantoché non fosse ritornato alla pagina uno — se mai fosse accaduto — e fosse ricominciato con l’introduzione, le istruzioni per l’uso, la chiave di decodificazione. Forse si trattava di un messaggio lunghissimo, pensava Ellie mentre Vaygay paragonava la taigà al deserto a cespugli; forse ci avrebbe messo un centinaio di anni prima di ricominciare dall’inizio. O forse non c’erano le istruzioni. Forse il Messaggio (su tutto il pianeta, si cominciava a scrivere la parola con l’iniziale maiuscola) era un test di intelligenza, così quei mondi troppo stupidi per decifrarlo sarebbero stati incapaci di far un uso errato del suo contenuto. All’improvviso la colpì il pensiero della profonda umiliazione che avrebbe provato per il genere umano se alla fine non fossero riusciti a capire il Messaggio. Nel momento in cui gli americani e i russi decisero di collaborare e il testo dell’accordo fu solennemente firmato, ogni altra nazione in possesso di un radiotelescopio aveva acconsentito a cooperare. Ci fu una sorta di Associazione mondiale per il Messaggio e i popoli stavano veramente parlando in quei termini. Avevano bisogno dei rispettivi dati e dei rispettivi cervelloni se si voleva decifrare il Messaggio. I giornali non riportavano quasi altro che questo. I pochi modesti fatti conosciuti — i numeri primi, la trasmissione olimpica, l’esistenza di un complesso messaggio — venivano recensiti in continuazione. Era difficile trovare qualcuno sul pianeta che non avesse avuto notizia, in un modo o nell’altro, del Messaggio proveniente da Vega. Sette religiose, affermate o marginali, e alcune create apposta da poco, stavano analizzando le implicazioni teologiche del Messaggio. Alcune pensavano che venisse da Dio, altre dal Diavolo. Sorprendentemente, alcune erano persino dubbiose. C’era stata una pericolosa rinascita di interesse per Hitler e il regime nazista, e Vaygay le raccontò di aver trovato ben otto svastiche negli annunci domenicali del «New York Times Book Review». Ellie replicò che otto era abbastanza normale come media, ma sapeva di stare esagerando; alcune settimane ce n’erano soltanto due o tre. Un gruppo che si era battezzato «Spaziariano» dichiarò senz’ombra di dubbio che i dischi volanti erano stati inventati nella Germania hitleriana. Una nuova razza «pura» di nazisti si era sviluppata su Vega e ora era pronta a sistemare le cose sulla Terra. Cerano quelli che consideravano l’ascolto del segnale una cosa infame ed esortavano gli osservatori a smetterla; c’erano quelli che lo consideravano un segno dell’Avvento ed esortavano alla costruzione di radiotelescopi ancor più grandi, da collocare in parte nello spazio. Alcuni mettevano in guardia dal lavorare con i dati sovietici, con il pretesto che potevano essere contraffatti o alterati, benché nelle longitudini sovrapposte concordassero pienamente con i dati iracheni, indiani, cinesi e giapponesi. E c’erano quelli che avevano la sensazione di un cambio nel clima politico del mondo e sostenevano che proprio l’esistenza del Messaggio, anche se non fosse stato mai decifrato, stava esercitando un’influenza equilibratrice sulle nazioni più aggressive. Dato che la civiltà che trasmetteva era chiaramente più avanzata della nostra, e dal momento che chiaramente — almeno fino a ventisei anni prima — non si era autodistrutta, ne conseguiva, secondo il parere di alcuni, che le civiltà tecnologiche non finivano inevitabilmente per autodistruggersi. In un mondo che stava sperimentando con precauzione la riduzione delle armi nucleari e dei loro vettori, il Messaggio veniva considerato da tutti i popoli come un motivo di speranza. Per molti il Messaggio rappresentava la notizia migliore che fosse arrivata da molto tempo. Per decenni, i giovani avevano cercato di non pensare al domani troppo attentamente. Adesso, ci poteva essere un futuro benigno, dopo tutto. Quelli con predisposizioni favorevoli a tali fausti pronostici talvolta si trovarono a sconfinare spiacevolmente nel campo occupato per un decennio dal movimento chiliastico. Alcuni chiliasti ritenevano che l’imminente arrivo del terzo millennio sarebbe stato accompagnato dal ritorno di Gesù o di Buddha o di Krishna o del Profeta, che avrebbero instaurato sulla Terra una benevola teocrazia, severa nel suo giudizio dei mortali. Forse questo avrebbe presagito la grande ascesa al cielo degli Eletti. Ma c’erano altri chiliasti, e di gran lunga più numerosi, che erano convinti che la distruzione fisica del mondo dovesse essere l’indispensabile prerequisito per l’Avvento, come era stato predetto con precisione in diverse antiche opere profetiche, per il resto in contrasto tra loro. I chiliasti del Giudizio Universale erano inquieti e preoccupati perché c’era nell’aria un presagio di ecumenismo, e turbati dalla costante riduzione annuale degli arsenali di armi strategiche. Gli strumenti che erano più a portata di mano per la realizzazione del dogma centrale della loro fede subivano duri attacchi ogni giorno. Le altre catastrofi prospettate — sovrappopolazione, inquinamento industriale, terremoti, eruzioni vulcaniche, effetto serra, glaciazioni, o un impatto cometario con la Terra — erano troppo lente, troppo improbabili, o insufficientemente apocalittiche per lo scopo. Alcuni capi dei chiliasti avevano persuaso imponenti adunate di loro devoti seguaci che, eccetto che per gli incidenti, l’assicurazione sulla vita era un segno di fede ribelle; che, fatta eccezione per quelli davvero anziani, l’acquisto di un posto al cimitero o l’organizzazione del funerale senza un’urgente necessità costituivano una flagrante empietà. Tutti coloro che credevano sarebbero stati innalzati al cielo con i loro corpi e si sarebbero trovati davanti al trono di Dio di lì a pochi anni. Ellie sapeva che il famoso parente di Lunacarskij era stato un personaggio eccezionale, un rivoluzionario bolscevico che aveva nutrito un interesse erudito per le religioni mondiali. Ma l’attenzione che Vaygay rivolgeva al crescente fermento teologico mondiale veniva evidentemente soffocata. «La principale questione religiosa nel mio paese,» egli disse, «sarà di appurare se i Vegani abbiano denunciato come si conviene Lev Trotzkij.» Via via che ci si avvicinava al luogo dell’Argus, ai bordi della strada aumentavano le auto parcheggiate, i veicoli da svago, le roulottes, le tende e gli assembramenti di curiosi. Di notte, le pianure di San Augustin, una volta tranquille, erano illuminate da fuochi da campo. Le persone assiepate lungo l’autostrada erano ben lontane dall’essere tutte benestanti. Ellie notò due giovani coppie. Gli uomini indossavano delle T-shirts e dei jeans logori con cinture sui fianchi, camminavano con un’aria da bulli come era stato insegnato loro dagli allievi più anziani quando erano entrati alla scuola superiore, e parlavano animatamente. Uno di loro spingeva un passeggino scassato in cui stava uno spensierato bimbette di circa due anni. Le donne seguivano i loro mariti, una tenendo per mano un infante che muoveva i primi passi, l’altra esibendo un ventre sporgente da cui sarebbe uscita di lì a un mese o due un’altra vita. C’erano dei mistici di comunità isolate, distaccatesi dal taoismo, che usavano la psilocibina come un sacramento e suore di un convento nei pressi di Albuquerque che usavano Petanolo per lo stesso scopo. Cerano uomini dalla pelle simile a cuoio e dagli occhi sepolti tra le rughe che avevano passato l’intera vita all’aperto, e studenti dai visi esangui e dall’espressione intellettuale dell’Università dell’Arizona. C’erano fazzoletti di seta e cravattini stretti con le punte di argento brunito venduti da commercianti Navajo a prezzi esorbitanti, un piccolo rovesciamento delle relazioni commerciali storiche tra i bianchi e gli indigeni americani. Dei soldati semplici in licenza, della base aerea di Davis-Monthan stavano masticando energicamente tabacco e gomma. Un uomo dai capelli bianchi, molto elegante nel suo abito da 900 dollari con un cappello Stetson intonato al colore del vestito, era, molto probabilmente, il proprietario di un ranch. C’erano persone che vivevano in baracche e grattacieli, in tuguri di fango, in dormitori, in parcheggi per roulottes. Alcuni erano venuti perché non avevano nulla di meglio da fare, altri perché volevano dire ai loro nipotini di essere stati lì. Alcuni arrivavano con la speranza di un fallimento, altri speravano di essere testimoni di un miracolo. Mormoni di tranquilla devozione, violenti scoppi di risa, estasi mistica e attesa controllata si levavano dalla folla nella luce vivida del pomeriggio. Pochi sguardi indifferenti si posavano sul corteo di auto che stavano passando, ognuna contrassegnata dalla scritta: AUTOPARCO GOVERNATIVO AMERICANO INTERMINISTERIALE. Alcune persone stavano facendo uno spuntino sulle sponde di furgoncini; altre stavano scegliendo gli articoli di venditori ambulanti i cui empori su ruote erano sfacciatamente definiti SNACKMOBILI o SUPERMERCATI DI RICORDINI SPAZIALI. C’erano lunghe file davanti a piccoli gabinetti per una persona sola che la base aveva fatto costruire con premura. I bambini scorrazzavano tra i veicoli, i sacchi a pelo, le coperte e i tavoli pieghevoli da picnic senza che gli adulti li rimproverassero, a eccezione di quando si avvicinavano troppo all’autostrada o al recinto del telescopio 61, dove un gruppo di giovani dalle teste rasate, in tuniche zafferano si prostravano intonando solennemente la sacra sillaba «Om». C’erano dei poster con rappresentazioni fantastiche di creature extraterrestri, alcune delle quali rese popolari dai fumetti o dai film. Uno diceva: «Ci sono gli alieni tra noi». Un uomo con orecchini d’oro si stava facendo la barba servendosi dello specchietto retrovisore laterale di un autocarro e una donna dai capelli neri avvolta in uno scialle alzò una tazza di caffè in gesto di saluto mentre il convoglio le sfrecciava davanti. Mentre si dirigevano al nuovo cancello principale, vicino al telescopio 101, Ellie potè scorgere un giovanotto su un’impalcatura di fortuna intento ad arringare una folla considerevole. Indossava una T-shirt su cui era disegnata la Terra colpita da un fulmine celeste. Parecchi altri tra la folla portavano lo stesso enigmatico simbolo. Su richiesta di Ellie, una volta oltrepassato il cancello, si fermarono a lato della strada, tirarono giù i finestrini e si misero ad ascoltare. Il predicatore volgeva loro le spalle ed essi potevano vedere i volti degli astanti. Quella gente era profondamente commossa, Ellie pensò. Il giovane era in pieno discorso: «… e altri dicono che c’è stato un patto con il Diavolo, che gli scienziati hanno venduto le loro anime. Ci sono pietre preziose in ognuno di questi telescopi.» Indicava con un ampio gesto della mano il telescopio 101. «Per-sino gli scienziati lo ammettono. Alcuni dicono che è quanto il patto destina al Diavolo.» «Teppismo religioso,» borbottò cupamente Lunacarskij, dimostrando con lo sguardo il suo desiderio di proseguire. «No, no. Restiamo,» disse lei. Sulle sue labbra aleggiava l’ombra di un sorriso di meraviglia. «Ci sono alcune persone — persone religiose, persone timorate di Dio — che credono che questo Messaggio provenga da esseri spaziali, entità, creature ostili, alieni che vogliono farci del male, nemici dell’umanità.» Il predicatore urlò quasi quest’ultima frase e poi fece una pausa per fare impressione. «Ma tutti voi siete stanchi e disgustati per la corruzione, la decadenza di questa società, una decadenza prodotta dalla sconsiderata, sfrenata, empia tecnologia. Non so chi di voi abbia ragione. Io non posso dirvi che cosa significhi il Messaggio, o da chi provenga. Ho i miei sospetti. Lo sapremo abbastanza presto. Ma so che gli scienziati, i politici e i burocrati ci stanno tenendo all’oscuro. Non ci hanno detto tutto quello che sanno. Ci stanno imbrogliando, come fanno sempre. Per troppo tempo, o Signore, abbiamo mandato giù le menzogne che ci propinano, la corruzione che portano con sé.» Con stupore di Ellie un ruggito di consenso si levò dalla folla. Il giovane aveva fatto sgorgare una corrente di rancore che lei aveva temuto solo vagamente. «Questi scienziati non credono che siamo i figli di Dio. Loro pensano che siamo i discendenti delle scimmie. Ci sono noti comunisti fra loro. Volete che gente del genere decida il destino del mondo?» La folla rispose con un tonante «No!» «Volete che un branco di miscredenti parli con Dio?» «No!» ruggirono di nuovo. «O con il Diavolo? Stanno mercanteggiando il nostro futuro con mostri di un mondo alieno. Fratelli e sorelle, c’è del male in questo posto.» Ellie aveva pensato che l’oratore non si fosse reso conto della loro presenza. Ma ora si girò di scatto e indicò attraverso la barriera il convoglio che indugiava. «Non parlano in nome nostro! Non ci rappresentano! Non hanno il diritto di parlamentare per noi!» Quelli che si trovavano più vicini alla barriera cominciarono a spingere ritmicamente con violenza. Sia Valerian che il conducente si misero in allarme. I motori non erano stati spenti e in un attimo accelerarono dal cancello verso l’edificio dell’amministrazione dell’Argus, ancora lontano molte miglia nel deserto di cespugli spinosi. Mentre filavano via tra lo stridio delle gomme e il brontolio della folla, Ellie potè udire la risonante voce dell’oratore. «Il male che imperversa in questo luogo sarà neutralizzato. Lo giuro.» 8 ACCESSO CASUALE «Il teologo può indulgere nel piacevole compito di parlare della Religione come se discendesse dal Gelo, adorna della sua nativa purezza. Un dovere più malinconico si impone allo storico. Egli deve scoprire l’inevitabile miscuglio di errore e di corruzione in cui essa si è invischiata dopo un lungo soggiorno sulla Terra, tra una razza debole e degenerata di esseri.»      EDWARD GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano. Ellie trascurò l’accesso casuale e passò ordinatamente in rassegna le stazioni televisive. «Abitudini degli autori di stragi» e «Scommettete il vostro culo» si trovavano su canali adiacenti. Bastava un’occhiata per capire che la promessa del mezzo televisivo restava inadempiuta. C’era un’animata partita di basket tra i Johnson City Wildcats e le Union-Endicott Tigers; i giocatori, maschi e femmine, stavano mettendocela tutta. Sul canale seguente c’era un’esortazione in Parsi sulla corretta osservanza del Ramadam. Proseguendo, c’era uno dei canali chiusi, apparentemente riservato a pratiche sessuali aberranti. Si imbattè poi in uno dei primi canali per elaboratore, dedicato a fantasiosi giochi di destrezza, che ora aveva un bassissimo indice di ascolto. Accessibile con l’home computer, esso offriva un’unica entrata in una nuova avventura, che quel giorno era, evidentemente, «Gilgamesh galattico», nella speranza che il pubblico la trovasse abbastanza attraente per ordinare il corrispondente minidisco su uno dei canali di vendita. Venivano prese particolari precauzioni elettroniche perché non si potesse registrare il programma durante l’unica volta che si giocava. La maggior parte di questi videogames, pensò lei, erano tentativi maldestri di preparare gli adolescenti a un ignoto futuro. Il suo sguardo venne attratto da un serio commentatore di una delle vecchie reti televisive che stava discutendo con evidente preoccupazione di ciò che veniva descritto come un attacco ingiustificato da parte di siluranti nordvietnamite ai danni di due cacciatorpediniere della Settima Flotta degli Stati Uniti nel Golfo del Tonchino, e della richiesta del Presidente americano di essere autorizzato a «prendere tutte le misure necessarie» in risposta. Il programma era uno dei pochi che le piacessero, «Notizie di ieri», repliche di telegiornali degli anni passati. La seconda parte del programma consisteva in un’analisi accuratissima delle informazioni inesatte della prima parte, e dell’ostinata credulità delle agenzie di informazione prima di qualsiasi reclamo da parte di qualsiasi amministrazione per quanto privo di fondamento e interessato potesse essere. Era una delle numerose serie televisive prodotte da un’organizzazione chiamata REALTV — che includeva «Promesse, Promesse», dedicato ad analisi supplementari di impegni elettorali non mantenuti a livello locale, statale, nazionale, e «Inganni e Stupidità», settimanale di ridimensionamento verso diffusi pregiudizi, propagande e miti. La data in basso sullo schermo era 5 agosto 1964 ed Ellie fu sommersa da un’ondata di ricordi — nostalgia non era il termine appropriato — dei giorni passati alla scuola superiore. Passò oltre, continuando a premere i tasti del telecomando. Scorrendo tra i canali, diede un’occhiata a una trasmissione di cucina orientale in cui si presentava la ricetta per l’hibachi, a un lungo spot pubblicitario per la prima generazione di robot domestici tuttofare della Cibernetica Hadden, al programma di notizie e commenti in lingua russa dell’ambasciata sovietica, a numerosi spettacoli per bambini e ai notiziari, alla stazione di matematica che mostrava gli strabilianti disegni fatti da un elaboratore del nuovo corso Cornell di geometria analitica, al canale degli appartamenti e beni immobili locali, e a un gruppo compatto di orrendi serial diurni, finché non trovò le reti religiose, dove, con grande e generale eccitazione, si stava discutendo il Messaggio. Le presenze in chiesa erano aumentate in tutta l’America. Ellie era convinta che il Messaggio fosse una sorta di specchio in cui ognuno poteva vedere il proprio credo sconfessato o confermato. Esso veniva considerato un’apologia omnicomprensiva di dottrine apocalittiche ed escatologiche che si escludevano a vicenda. In Perù, in Algeria, in Messico, nello Zimbabwe, in Ecuador, e fra gli Hopi, si tenevano in tutta serietà pubblici dibattiti sulla possibilità di un’origine spaziale delle loro civiltà; le opinioni a favore di tale ipotesi venivano tacciate di colonialismo. I cattolici dibattevano lo stato di grazia degli extraterrestri. I protestanti discutevano l’eventualità di precedenti missioni di Gesù su pianeti vicini e naturalmente di un suo ritorno sulla Terra. I musulmani erano preoccupati che il Messaggio potesse contravvenire al comandamento che proibiva gli idoli. Nel Kuwait, saltò fuori un uomo che dichiarò di essere l’imano segreto degli Sciiti. Un fervore messianico era sorto tra i Ciasidi Sossaferi. In altre congregazioni di Ebrei ortodossi ci fu un’improvvisa ripresa di interesse per Astruc, un fanatico assertore del pericolo rappresentato dalla conoscenza per la fede, che nel 1305 aveva indotto il rabbino di Barcellona, capo religioso del tempo, a vietare lo studio della scienza o della filosofia ai minori di venticinque anni, sotto pena di scomunica. Tendenze simili, in costante aumento, erano riscontrabili nell’Islam. Un filosofo della Tessaglia, dal nome augurale di Nicholas Polydemos, stava attirando l’attenzione con una serie di appassionate argomentazioni su ciò che chiamava la «riunificazione» delle religioni, dei governi e dei popoli del mondo. I critici cominciarono col mettere in discussione quel prefisso «ri-». I gruppi ufologici avevano organizzato picchettaggi ininterrotti attorno alla base aerea di Brooks, vicino a San Antonio, dove si diceva stessero rinchiusi in congelatori i corpi perfettamente conservati di quattro occupanti di un disco volante che si era schiantato al suolo nel 1947; gli extraterrestri sarebbero stati alti un metro e avrebbero avuto minuscoli denti perfetti. Erano state segnalate apparizioni di Visnù in India e dell’Amida Buddha in Giappone; venivano annunciate centinaia di guarigioni miracolose a Lourdes; un nuovo Bodhisattva si fece avanti nel Tibet. Un insolito culto esotico venne importato dalla Nuova Guinea in Australia; predicava la costruzione di rozze copie di radiotelescopi per attrarre la generosità degli extraterrestri. L’unione mondiale dei Liberi Pensatori definì il Messaggio una confutazione dell’esistenza di Dio. La chiesa mormone dichiarò che si trattava di una seconda rivelazione dell’angelo Moroni. Il Messaggio venne considerato dai differenti gruppi come una prova dell’esistenza di molti dei o di un solo dio o di nessun dio. Il Chiliasmo era diffuso. Cerano quelli che predicevano il millennio per il 1999 — come un’inversione cabalistica del 1666, l’anno che Sabbatai Zevi aveva adottato per il suo millennio; altri scelsero il 1996 o il 2033, i presunti bimillenari della nascita o della morte di Gesù. Il grande cielo degli antichi Maya doveva completarsi nell’anno 2011, quando — secondo questa tradizione culturale indipendente — il cosmo sarebbe finito. L’intrecciarsi della profezia maya con il millenarismo cristiano stava producendo una sorta di frenesia apocalittica in Messico e nell’America centrale. Alcuni chiliasti, che credevano nelle prime date, avevano cominciato a donare le loro ricchezze ai poveri, in parte perché presto non avrebbero avuto comunque nessun valore e in parte come caparra a Dio, un dono interessato per l’Avvento. Fanatismo, timore, speranza, accesi dibattiti, pacate preghiere, introspezione angosciosa, esemplare altruismo, ottusa bigotteria, e un entusiasmo per idee drammaticamente nuove erano epidemici, dilagando febbrilmente sulla superficie del piccolo pianeta Terra. Da tutto questo fermento pareva a Ellie di veder emergere lentamente un nascente riconoscimento del mondo come filo di un immenso arazzo cosmico. Intanto, il Messaggio continuava a resistere a tutti i tentativi di decifrazione. Sui canali della maldicenza, protetti dal Primo Emendamento, lei, Vaygay, der Heer, e in minor misura Peter Valerian venivano puniti per una vasta gamma di colpe, che includevano l’ateismo, il comunismo, e l’incameramento del Messaggio. A suo parere, Vaygay non era poi così comunista, e Valerian aveva una fede cristiana profonda, tranquilla, ma sofisticata. Se fossero stati così fortunati da arrivare vicino alla soluzione del mistero del Messaggio, lei avrebbe voluto annunciarlo personalmente a quel cretino ipocrita di un commentatore televisivo. David Drumlin, tuttavia, veniva presentato come l’eroe, l’uomo che aveva decifrato veramente i numeri primi e la trasmissione olimpica; era il tipo di scienziato di cui si aveva più bisogno. Ellie sospirò e cambiò canale ancora una volta. Era arrivata al TABS, il Turner-American Broadcasting System, l’unico superstite dei grandi networks commerciali che avevano dominato la telediffusione negli Stati Uniti fino all’avvento delle trasmissioni via satellite su vasta scala e del cavo da 180 canali. Su questa stazione, Palmer Joss stava facendo una delle sue rare apparizioni televisive. Come la maggior parte degli americani, Ellie riconobbe all’istante la sua voce risonante, il suo bell’aspetto leggermente trascurato e il pallore attorno agli occhi che faceva pensare che non dormisse mai per preoccuparsi del suo prossimo. «Che cosa ha veramente fatto la scienza per noi?» declamava Joss. «Siamo davvero più felici? Non parlo soltanto di ricevitori olografici e di uva senza vinaccioli. Siamo fondamentalmente più felici? O gli scienziati ci corrompono con inezie, con gingilli tecnologici, mentre indeboliscono la nostra fede?» Ecco un uomo, lei pensò, che stava agognando tempi più semplici, un uomo che aveva passato la vita a tentare di conciliare l’inconciliabile, che aveva condannato i più evidenti eccessi di religione popolare e giustificato gli attacchi all’evoluzione e alla relatività. Perché non attaccare l’esistenza degli elettroni? Palmer Joss non ne aveva mai visto uno, e la Bibbia ignorava l’elettromagnetismo. Perché credere negli elettroni? Sebbene non l’avesse mai sentito predicare, era certa che prima o poi sarebbe arrivato a parlare del Messaggio, e fu ciò che fece: «Gli scienziati tengono le scoperte che fanno per loro, a noi danno solo le briciole, quel tanto che basta per farci stare tranquilli. Credono che siamo troppo stupidi per capire ciò che stanno facendo. Ci danno conclusioni senza importanza, ci propinano scoperte come se fossero la Sacra Scrittura e non speculazioni, teorie, ipotesi: ciò che la gente comune chiamerebbe congetture. Non si chiedono mai se qualche nuova teoria abbia per la gente lo stesso valore della credenza che tenta di rimpiazzare. Sopravvalutano quello che sanno e sottovalutano quello che sappiamo noi. Quando noi chiediamo spiegazioni, ci dicono che ci vogliono anni per capire. Me ne rendo conto, poiché anche nella religione ci sono cose che esigono anni perché si possa arrivare a comprenderle. Si può spendere una vita e non avvicinarsi mai alla comprensione della natura di Dio onnipotente. Ma non si vedono gli scienziati accostarsi ai capi religiosi per chiedere loro degli anni che hanno dedicato allo studio, alla meditazione e alla preghiera. Non pensano a noi che quando ci ingannano e ci illudono. E adesso dicono di avere un Messaggio dalla stella Vega. Ma una stella non può inviare un messaggio. Qualcuno lo sta inviando. Chi? L’intento del Messaggio è divino o satanico? Quando avranno decifrato il Messaggio terminerà con ‘Vostro devotissimo Dio’… o ‘Cordialmente, il Diavolo’? Quando gli scienziati si decideranno a rivelarci il contenuto del Messaggio, ci diranno tutta la verità? O ci taceranno qualcosa poiché pensano che non possiamo capirlo, o poiché non si accorda con quello che credono loro? Non sono quelle persone, che ci hanno insegnato come autoannientarci? Vi dico, amici miei, che la scienza è troppo importante perché venga lasciata agli scienziati. I rappresentanti delle fedi maggiori dovrebbero prender parte all’operazione di decodificazione. Dovremmo esaminare i dati originali. Altrimenti… altrimenti, dove andremo a finire? Ci diranno qualcosa del Messaggio. Forse quello in cui credono davvero. Forse no. E noi dovremo accettarlo, qualunque cosa ci dicano. Ci sono cose che gli scienziati conoscono. Ci sono altre cose — vi do la mia parola — di cui non sanno nulla. Forse hanno ricevuto un messaggio da un altro essere nei cicli. Forse no. Possono essere sicuri che il Messaggio non sia un vitello d’oro? Non credo che lo riconoscerebbero nemmeno se ne avessero visto uno. Sono quelli che ci hanno portato la bomba all’idrogeno. Perdonami, o Signore, per non essere più grato a queste anime gentili. Ho visto Dio in faccia. Lo adoro, confido in Lui, Lo amo, con tutta l’anima, con tutto il mio essere. Non credo che qualcuno possa credere con un’intensità maggiore della mia. Non riesco a vedere come gli scienziati possano credere nella scienza più di quanto io creda in Dio. Sono pronti a gettar via le loro ‘verità’ quando appare alla ribalta una nuova idea. Ne sono orgogliosi. Non vedono alcuna fine per il processo conoscitivo. Immaginano che siamo prigionieri dell’ignoranza fino alla fine dei tempi, che non vi sia alcuna certezza in natura. Newton ha sorpassato Aristotele, Einstein ha sorpassato Newton. Domani, qualcun altro sorpasserà Einstein. Non appena riusciamo a capire una teoria, ce n’è già un’altra al suo posto. Non me ne importerebbe tanto se ci avessero avvertiti che le vecchie idee erano sperimentali. Quella di Newton l’hanno chiamata ‘legge’ di gravitazione universale. La chiamano ancora così. Ma se era una legge di natura, come poteva essere sbagliata? Come poteva essere sorpassata? Soltanto Dio può abrogare le leggi di natura, non gli scienziati. Si sono solo sbagliati. Se Albert Einstein aveva ragione, Isaac Newton era un dilettante, un confusionario. Ricordatevi che gli scienziati non hanno sempre ragione. Vogliono portarci via la nostra fede, le nostre convinzioni, e non ci offrono in cambio nulla che abbia un valore spirituale. Non ho nessuna intenzione di abbandonare Dio perché gli scienziati scrivono un libro e dicono che è un messaggio da Vega. Non adorerò la scienza. Non trasgredirò al primo comandamento. Non mi prostrerò davanti al vitello d’oro.» Quando era un ragazzo, prima di diventare largamente conosciuto e ammirato, Palmer Joss era stato un fenomeno da baraccone. La cosa era stata menzionata nel suo profilo su «Times-week»; non era un segreto. Per far fortuna si era fatto tatuare sul torso con grande precisione un planisfero in proiezione cilindrica. Si esibiva alle fiere di contea e in spettacoli secondari dal-l’Oklahoma al Mississippi, come un vagabondo superstite di un’epoca più vigorosa di intrattenimenti rurali viaggianti. Nella distesa dell’azzurro oceano c’erano le quattro divinità dei venti, con le gote gonfie che soffiavano in prevalenza da ponente e da nord-est. Curvando i pettorali, riusciva a far gonfiare Borea e l’Atlantico centrale. Poi, declamava agli spettatori meravigliati un passo del VI libro delle Metamorfosi di Ovidio: A me s’addice la forza: con essa disperdo le fosche nuvole, il mare sconturbo, le roveri schianto nodose […]. Quando poi entro sotterra e sommetto feroce le spalle alle profonde caverne, spavento gli estinti e tremare faccio l’intero universo. Fuoco e zolfo dall’antica Roma. Con l’aiuto delle mani dava una dimostrazione della deriva dei continenti, premendo l’Africa occidentale contro il Sud America sì da farle combaciare come i pezzi di un puzzle quasi perfettamente alla longitudine del suo ombelico. Lo annunciavano come «Geos, l’Uomo Terra». Joss era un grande lettore e, essendo sgombro da un’educazione formale dopo la scuola elementare, non si era sentito dire che la scienza e i classici non sono pane per la gente comune. Aiutato dal suo fascino selvaggio, si ingraziava le bibliotecarie delle città toccate dal luna-park e chiedeva quali libri seri dovesse leggere. Voleva, diceva loro, migliorare se stesso. Seguendo scrupolosamente i loro consigli, lesse dei manuali su come farsi degli amici, investire in beni immobili e intimidire i propri conoscenti a loro insaputa, ma si rese conto che quei libri avevano poco valore. Invece, nella letteratura antica e nella scienza moderna pensò di aver scoperto la qualità. Quando c’erano periodi di inattività, passava molto tempo nella biblioteca della cittadina locale o della contea. Imparò un po’ di geografia e di storia. Avevano attinenza con il suo lavoro, disse a Elvira, la ragazza elefante, che gli faceva continue domande sulle sue assenze. Lei lo sospettava di travolgenti passioni — una bibliotecaria in ogni porto, disse una volta — ma dovette ammettere che il suo modo di imbonire il pubblico stava migliorando. Il contenuto dei suoi discorsi era troppo intellettuale, ma l’esposizione era fatta con un linguaggio familiare. Sorprendentemente, il piccolo padiglione di Joss cominciò a fruttar denaro al luna-park. Un giorno, con le spalle rivolte al pubblico, stava dimostrando la collisione dell’India con l’Asia e il conseguente corrugamento himalayano, quando, da un cielo grigio ma senza pioggia si sprigionò un fulmine che lo colpì a morte. C’erano stati dei tornado nel sud-est dell’Oklahoma, e il tempo era insolito in tutto il Sud. Egli ebbe la sensazione chiarissima di lasciare il proprio corpo — pietosamente inerte sull’assito coperto di segatura sotto gli sguardi circospetti e quasi timorosi di una piccola folla — e di innalzarsi per una sorta di lungo tunnel oscuro, avvicinandosi lentamente a una vivida luce. E nel fulgore egli potè discernere via via una figura di proporzioni eroiche, certo divine. Quando si riebbe, trovò una parte di sé delusa di essere vivo. Era sdraiato su una branda in una camera ammobiliata poveramente. Chinato su lui c’era il reverendo Billy Jo Rankin, non l’attuale possessore di tale nome, ma suo padre, un venerabile surrogato di predicatore degli anni tra il 1950 e il 1975. Sullo sfondo, Joss credette di vedere una dozzina di figure incappucciate che intonavano il «Kyrie Eleison». Ma non potè esserne sicuro. «Mi salvo o muoio?» sussurrò il giovane. «Ragazzo mio, entrambe le cose,» rispose il reverendo Rankin. Joss fu presto sopraffatto da un acuto senso di scoperta davanti all’esistenza del mondo. Ma in un modo per lui difficile da esprimere, quella sensazione era in conflitto con la beatifica visione avuta, e con l’infinita gioia che tale visione preannunciava. Poteva percepire le due sensazioni in conflitto entro il suo petto. In varie circostanze, talvolta a metà di una frase, si sentiva consapevole dei diritti reclamati sulla parola o sull’azione dall’una o dall’altra di tali sensazioni. Dopo un certo tempo, fu soddisfatto di vivere con entrambe. Era davvero morto, gli dissero in seguito. Un dottore lo aveva dichiarato morto. Ma loro avevano pregato sul suo corpo, avevano cantato inni, avevano persino tentato di rianimarlo mediante massaggi (soprattutto in prossimità della Mauritania). Lo avevano riportato in vita. Egli era veramente e letteralmente rinato. Poiché ciò corrispondeva così perfettamente alla sua personale percezione dell’esperienza, accettò il resoconto e con piacere. Anche se non ne parlava quasi mai, arrivò a persuadersi dell’importanza dell’evento. Non era stato colpito a morte per caso. Non era stato riportato indietro senza una ragione. Sotto la tutela del suo benefattore, cominciò a studiare seriamente le Scritture. Fu profondamente commosso dall’idea della Resurrezione e dalla dottrina della Salvezza. Assistette il reverendo Rankin dapprima in piccole cose, alla fine assolvendo per lui incarichi di predicazione più pesanti o più distanti — specialmente dopo che il giovane Billy Jo Rankin partì per Odessa, nel Texas, rispondendo a una chiamata di Dio. Presto Joss trovò uno stile di predicazione personale, più esplicativo che esortativo. In un linguaggio semplice e con metafore familiari, spiegava il battesimo e la vita futura, il collegamento tra la Rivelazione cristiana e i miti della Grecia e della Roma classiche, l’idea del piano divino per il mondo, e la conformità di scienza e religione una volta che fossero entrambe comprese correttamente. Non era la predicazione convenzionale, ed era troppo ecumenica per i gusti di molti, ma si dimostrò stranamente popolare. «Tu sei rinato, Joss,» gli aveva detto il vecchio Rankin. «Perciò dovresti cambiarti nome. Ma Palmer Joss è un così bel nome per un predicatore che saresti un pazzo a non tenertelo.» Come i dottori e gli avvocati, i venditori di religione raramente criticano gli articoli dei colleghi, osservava Joss. Ma una notte assistette alle funzioni alla nuova Chiesa di Dio, a Crusa-der, per ascoltare il giovane Billy Jo Rankin, ritornato trionfalmente da Odessa, predicare alla folla. Billy Jo enunciò una rigida dottrina di Ricompensa, di Punizione e di Estasi. Ma quella notte era una notte risanatrice. Alla congregazione fu detto che lo strumento terapeutico era la più santa delle reliquie: più santa di una scheggia della Sacra Croce, più santa persino del femore di santa Teresa d’Avila che il generalissimo Francisco Franco aveva custodito nel suo ufficio per intimidire le persone pie. Ciò che Billy Jo Rankin andava mostrando era il vero liquido amnio-tico che aveva avvolto e protetto nostro Signore. Il liquido era stato conservato con cura in un antico vaso di terracotta appartenuto un tempo, così si diceva, a sant’Anna. Egli promise che la più piccola goccia di quella sostanza avrebbe curato tutte le afflizioni per uno speciale atto di Grazia Divina. La più santa delle sante acque era con loro quella notte. Joss rimase sconvolto non tanto perché Rankin tentasse un raggiro così lampante, ma per il fatto che tutti i parrocchiani fossero così creduli da accettarlo. Nella sua vita precedente era stato testimone di molti tentativi di turlupinare il pubblico. Ma quello era spettacolo. Questa era una cosa diversa. Questa era religione. La religione era troppo importante per mascherare la verità, tanto meno per fabbricare miracoli. Egli si mise a denunciare tale impostura dal pulpito. Quando il suo fervore crebbe, se la prese con altre forme devianti di fondamentalismo cristiano, compresi quegli aspiranti erpetologi che mettevano alla prova la loro fede accarezzando i serpenti, secondo l’enunciato biblico che i puri di cuore non devono temere il veleno dei serpenti. In un sermone ampiamente citato, egli parafrasò Voltaire. Non aveva mai pensato, disse, di poter trovare dei religiosi così venali da suffragare le affermazioni dei blasfemi secondo cui il primo prete era stato il primo vagabondo che aveva incontrato il primo sciocco. Tali religioni stavano danneggiando la religione. Agitò con grazia il dito in aria. Joss arguì che in ogni religione c’era una linea dottrinale al di là della quale si offendeva l’intelligenza dei suoi praticanti. Persone ragionevoli potevano non essere d’accordo su dove si dovesse tracciare quella linea, ma le religioni erano andate ben oltre a loro rischio e pericolo. La gente non era scema, egli disse. Il giorno prima della sua morte, mentre stava sistemando le sue cose, il vecchio Rankin aveva fatto sapere a Joss di non volerlo più vedere. Nello stesso tempo, Joss cominciò a predicare che neppure la scienza aveva tutte le risposte. Riscontrò delle incoerenze nella teoria dell’evoluzione. Le scoperte imbarazzanti, i fatti anomali gli scienziati li facevano passare sotto silenzio, egli disse. Non conoscevano l’età esatta della Terra come non la conosceva l’arcivescovo Ussher. Nessuno aveva visto l’evoluzione nel suo divenire, nessuno aveva rilevato il tempo dal momento della Creazione. («Duecento quadrilioni-Mississippi…» si immaginò una volta di sentir scandire dal paziente cronometrista, che contava i secondi passati dall’origine del mondo.) E anche la teoria della relatività di Éinstein era da dimostrare. Einstein aveva affermato che in natura nessun segnale, e quindi anche nessun corpo, può muoversi a velocità superiore a quella della luce. Come poteva saperlo? Quanto c’era andato vicino alla velocità della luce? La relatività era soltanto un modo di vedere il mondo. Einstein non poteva prevedere ciò che l’umanità avrebbe potuto fare in un lontano futuro. Ed Einstein certamente non poteva porre dei limiti all’operato di Dio. Dio non potrebbe muoversi più velocemente della luce se lo volesse? Dio non potrebbe farci muovere più velocemente della luce se lo volesse? C’erano degli eccessi nella scienza come ce n’erano nella religione. Un uomo ragionevole non avrebbe perso la testa né per l’una né per l’altra. C’erano molte interpretazioni delle Scritture e molte in-terpretazioni del mondo naturale. Entrambi erano stati creati da Dio, perciò entrambi dovevano essere compatibili l’uno con l’altro. Dovunque sembrasse esistere una discrepanza, o uno scienziato o un teologo — forse tutt’e due — non aveva fatto bene il suo lavoro. Palmer Joss univa alla sua imparziale critica della scienza e della religione una fervida difesa della rettitudine morale e un rispetto per l’intelligenza del suo gregge. A poco a poco si conquistò una fama nazionale. Nel corso di dibattiti sull’insegnamento del «creazionismo scientifico» nelle scuole, sull’eticità dell’aborto e degli embrioni congelati, sull’ammissibilità dell’ingegneria genetica, egli cercò, a suo modo, di mantenersi in una posizione mediana, di conciliare le esasperazioni della scienza e della religione. Entrambe le parti in lotta si ritennero oltraggiate dai suoi interventi e la sua popolarità crebbe. Divenne un confidente dei presidenti. Passi dei suoi sermoni venivano riportati negli editoriali di importanti giornali laici d’opinione. Ma resistette ai molti inviti e ad alcune offerte allettanti di fondare una chiesa elettronica. Continuò a vivere con semplicità, e raramente — tranne che per inviti presidenziali e congressi ecumenici — si allontanò dal Sud rurale. Limitandosi a un patriottismo di maniera, si fece un dovere di non immischiarsi nella politica. In un campo in cui c’erano rivali in abbondanza, molti dei quali di dubbia onestà, Palmer Joss divenne, per erudiziene e autorità morale, il predicatore fondamentalista di maggior spicco della sua epoca. Der Heer le aveva chiesto se potevano cenare in qualche posticino tranquillo. Stava arrivando in volo per la riunione informale con Vaygay e la delegazione sovietica sui più recenti progressi compiuti nell’interpretazione del Messaggio. Ma il New Mexico centromeridionale era brulicante di giornalisti e non c’era un ristorante nel raggio di un centinaio di miglia in cui essi potessero parlare indisturbati. Perciò, preparò la cena lei stessa nel suo modesto appartamento vicino agli alloggi per gli ospiti, all’Argus. C’era moltissimo di cui discutere. Talvolta sembrava che il destino dell’intero progetto dipendesse dalla Presidente. Ma la leggera ansietà che lei provò poco prima dell’arrivo di Ken era dovuta, se ne rendeva vagamente conto, a ben altro. Joss non era precisamente una componente del lavoro, così ne parlarono mentre caricava la lavastoviglie. «Quell’uomo ha una paura matta,» disse Ellie. «Le sue vedute sono limitate. E’ preoccupato che il Messaggio finisca per essere un’inaccettabile esegesi biblica o qualcosa che scuota la sua fede. Non ha idea di còme un nuovo paradigma scientifico riesca a includere quello che l’ha preceduto. Vuole sapere quello che la scienza ha fatto per lui ultimamente. E lo si ritiene la voce della ragione.» «Confrontato con i chiliasti del giorno del Giudizio e con i Primigei, Palmer Joss è la moderazione in persona,» replicò der Heer. «Forse non abbiamo spiegato i metodi della scienza come avremmo dovuto. Me ne preoccupo molto in questi giorni. E puoi essere davvero sicura, Ellie, che non si tratti di un messaggio da…» «Da Dio o dal Diavolo? Ken, non riesci a essere serio.» «Allora, che mi dici di esseri progrediti dediti a ciò che potremmo chiamare il bene o il male, che qualcuno come Joss considererebbe indistinguibili da Dio o dal Diavolo?» «Ken, chiunque siano quegli esseri del sistema di Vega, ti garantisco che non hanno creato l’universo. E non hanno nulla a che vedere con il Dio dell’Antico Testamento. Ricordati che Vega, il Sole, e tutte le altre stelle in prossimità del Sole si trovano in una tranquilla 2ona di una galassia assolutamente comune. Perché P’Io Sono Colui che Sono’ dovrebbe aggirarsi nei paraggi? Dovrebbe avere cose ben più urgenti da fare.» «Ellie, siamo in un pasticcio. Sai che Joss è molto influente. E’ stato vicino a tre presidenti, incluso l’attuale. La Presidente è propensa a fare qualche concessione a Joss, benché io non creda che voglia inserire lui e un gruppo di altri predicatori nel Comitato Preliminare per la Decifrazione assieme a te, a Valerian e a Drumlin, per non parlare di Vaygay e dei suoi colleghi. E’ difficile immaginare i russi che vanno d’accordo con il clero fondamentalista in seno al Comitato. L’intera faccenda potrebbe diventare esplosiva. Allora, perché non andiamo a parlargli? La Presidente dice che Joss è veramente affascinato dalla scienza. E se riuscissimo a tirarlo dalla nostra parte?» «Ci metteremo a convertire Palmer Joss?» «Non sto pensando di fargli cambiare religione: facciamogli solo capire le finalità dell’Argus, che non siamo obbligati a rispondere al Messaggio se non ci piace il suo contenuto, e che le distanze interstellari ci tengono al sicuro da Vega.» «Ken, lui non crede neppure che la velocità della luce rappresenti un limite cosmico di velocità. Finiremo per non capirci a vicenda. Inoltre, i miei tentativi di adattarmi alle religioni convenzionali si sono risolti in una serie di insuccessi. Tendo ad andare fuori dai gangheri quando mi scontro con la loro incoerenza e la loro ipocrisia. Non sono certa che un incontro tra me e Joss sia quello che vuoi. O quello che voglia la Presidente.» «Ellie,» disse lui, «so su chi punterei il mio denaro. Non vedo come si potrebbe peggiorare la situazione incontrando Joss.» Lei gli ricambiò il sorriso con una certa condiscendenza. Con le navi da intercettazione al loro posto e alcuni radiotelescopi, piccoli ma adatti alla bisogna, installati in località come Reykjavik e Giacarta, c’era adesso, a ogni longitudine, una copertura più che sufficiente del segnale proveniente da Vega. Era stato previsto che si dovesse tenere un summit dell’Associazione Mondiale per il Messaggio a Parigi. In vista della grande riunione francese, era naturale che le nazioni in possesso delle quantità più cospicue di dati tenessero un dibattito scientifico preparatorio. Gli incontri erano proseguiti quasi ininterrottamente per quattro giorni e tale sessione sommaria mirava soprattutto a persuadere quelli come der Heer, che facevano da intermediari tra gli scienziati e i politici, a darsi da fare. La delegazione sovietica, ufficialmente capeggiata da Lunacarskij, includeva parecchi scienziati e tecnici di grande esperienza. Tra loro figuravano Genrikh Arkhangelskij, nominato di recente capo dell’associazione spaziale internazionale, diretta dai Sovietici, chiamata Intercosmos, e Timofei Gotsridze, ministro dell’Industria semipesante, e un membro del Comitato Centrale. Vaygay si sentiva palesemente in preda a insolite tensioni: aveva ripreso a fumare accanitamente. Teneva la sigaretta tra il pollice e l’indice, con il palmo verso l’alto, mentre parlava. «Sono d’accordo che c’è un’adeguata sovrapposizione in longitudine, ma sono ancora preoccupato per la ridondanza. Un guasto all’apparecchio per liquefare l’elio a bordo della ‘Marshal Nedelin’ o un calo di potenza a Reykjavik, e la continuità del Messaggio è messa a repentaglio. Supponiamo che il Messaggio impieghi due anni per ricominciare da capo. Se ne perdiamo un pezzo, dovremo attendere altri due anni per riempire il buco. E tenete presente che non sappiamo se il Messaggio verrà ripetuto. Se non c’è ripetizione, i buchi non verranno mai riempiti. Penso che dobbiamo essere pronti a ogni evenienza, anche alla più remota. «A che sta pensando?» chiese der Heer. «A generatori d’emergenza per ogni osservatorio dell’Associazione?» «Sì, e ad amplificatori, spettrometri, autocorrelatori, unità disco indipendenti in ogni osservatorio. E ad aerei velocissimi in grado di consegnare nel minor tempo possibile l’elio liquido agli osservatori posti in località remote, in caso di necessità.» «Ellie, sei d’accordo?» «Completamente.» «Qualcos’altro?» «Penso che dovremmo continuare a osservare Vega su un’ampia gamma di frequenze,» Vaygay disse. «Forse domani arriverà un messaggio diverso su una sola delle frequenze del messaggio. Dovremmo anche controllare altre regioni del cielo. Forse la chiave del Messaggio non verrà da Vega, ma da altrove…» «Permettetemi di dire perché ritenga importante il punto di Vaygay,» interloquì Valerian. «Questo è un momento unico, stiamo ricevendo un messaggio ma non abbiamo compiuto alcun progresso nella sua decifrazione. Non abbiamo esperienze precedenti che ci suggeriscano la linea da seguire. Dobbiamo prevedere tutto. Non vogliamo finire col prenderci a calci tra un anno o due per aver dimenticato di prendere qualche semplice precauzione o per aver trascurato qualche semplice provvedimento. L’idea che il Messaggio potrebbe ricominciare da capo è una mera congettura. Non c’è nulla nel Messaggio, da quanto ci è dato di vedere, che lasci presagire un andamento ciclico. Qualsiasi opportunità perduta adesso può essere perduta per sempre. Sono anche d’accordo circa un potenziamento degli strumenti. Per quanto ne sappiamo, c’è un quarto strato nel palinsesto.» «C’è anche la questione del personale,» proseguì Vaygay. «Supponiamo che questo messaggio continui non per un anno o due ma per decenni. O supponiamo che questo sia solo il primo di una lunga serie di messaggi da tutto il cielo. Ci sono al massimo alcune centinaia di radioastronomi davvero capaci nel mondo. E’ un numero esiguo quando la posta in gioco è così alta. I paesi industrializzati devono cominciare a produrre più radioastronomi e ingegneri radio con un addestramento di prim’or-dine.» Ellie osservò che Gotsridze, che aveva detto poco, stava prendendo appunti dettagliati. Fu nuovamente colpita dalla padronanza dell’inglese dimostrata dai russi, di gran lunga superiore a quella del russo dimostrata dagli americani. Verso l’inizio del secolo, in tutto il mondo, gli scienziati parlavano — o almeno leggevano — il tedesco. La lingua usata in precedenza era stata il francese, e prima ancora il latino. In un altro secolo avrebbe potuto esserci un’altra lingua scientifica d’obbligo: il cinese, forse. Per il momento si trattava dell’inglese, e gli scienziati su tutto il pianeta si sforzavano di impararne le ambiguità e le irregolarità. Accendendo una nuova sigaretta con il mozzicone di quella che stava per finire, Vaygay proseguì: «C’è qualcos’altro da dire. E’ soltanto una congettura. Non è neppure plausibile come l’idea che il Messaggio ricomincerà da capo, definita giustamente dal professor Valerian come una pura e semplice supposizione. Non è mia abitudine esporre un’idea tanto speculativa così presto. Ma se la speculazione è valida, ci sono dei fatti nuovi e sicuri cui dobbiamo cominciare a pensare immediatamente. Non avrei il coraggio di sollevare tale evenienza se l’accademico Arkhangelskij non fosse pervenuto a titolo di prova alla stessa conclusione. Lui e io siamo stati in disaccordo circa la quantizzazione dello spostamento verso il rosso delle quasar, la spiegazione delle sorgenti di luce superluminali, la massa a riposo del neutrino, la fisica dei quark nelle stelle di neutroni… Abbiamo avuto molti dissensi. Devo ammettere che talvolta ha avuto ragione lui e talvolta io. Mi sembra che non ci siamo mai trovati d’accordo allo stadio iniziale, speculativo di un problema. Ma in questo caso concordiamo. Genrikh Dmit’c, vuoi spiegare?» Arkhangelskij appariva tollerante, persino divertito. Lui e Lunacarskij erano stati impegnati per anni in una rivalità personale, avevano animato dispute scientifiche e una famosa controversia sul prudente livello di supporto alla ricerca sovietica sulla fusione nucleare. «Noi crediamo,» egli disse, «che il Messaggio sia un libro di istruzioni per costruire una macchina. Naturalmente, non sappiamo come decodificare il Messaggio. La prova è data da riferimenti interni. Vi do un esempio. Qui, a pagina 15441 c’è un chiaro riferimento a una pagina precedente, la numero 13097, di cui fortunatamente siamo pure in possesso. La prima è stata ricevuta qui nel New Mexico, la seconda nel nostro osservatorio nei pressi di Taskent. A pagina 13097 è presente un altro riferimento, relativo a un periodo in cui non stavamo coprendo tutte le longitudini. Ci sono molti casi di tali rimandi a pagine precedenti. In generale, e questo è il punto importante, ci sono istruzioni complicate in una pagina recente, ma istruzioni più semplici in una pagina ricevuta prima. In un caso ci sono otto accenni a un materiale precitato in una sola pagina.» «Non è certo un’argomentazione irresistibile, signori,» ribattè Ellie. «Forse si tratta di una serie di esercizi di matematica, di difficoltà crescente e in stretta concatenazione. Forse è un lungo romanzo — potrebbero avere vite lunghissime paragonate alle nostre — in cui gli eventi sono connessi alle esperienze infantili o a qualunque cosa abbiano su Vega quando sono giovani. Forse si tratta di un manuale religioso con rinvii continui a principi già enunciati.» «I Dieci Bilioni di Comandamenti,» disse der Heer ridendo. «Forse,» disse Lunacarskij, fissando attraverso il fumo della sigaretta i telescopi fuori della finestra. Essi sembravano contemplare il cielo con vivo desiderio. «Ma quando si guardano i tipi di riferimenti, penso sarete d’accordo con me che sembra più un manuale di istruzioni per costruire una macchina, Dio solo sa quale.» 9 IL NUMINOSO «Il prodigio è alla base del culto.»      THOMAS CARLYLE, Sartor Resartus (1833-34) «Io affermo che il senso religioso cosmico è il movente più forte e più nobile per la ricerca scientifica.»      ALBERT EINSTEIN, Idee e Opinioni (1954) Ellie poteva ricordare il momento esatto in cui, in uno dei suoi molti viaggi a Washington, aveva scoperto che stava innamorandosi di Ken der Heer. Gli accordi per l’incontro con Palmer Joss andavano piuttosto per le lunghe. Apparentemente Joss era riluttante a visitare l’Argus; era l’empietà degli scienziati, non la loro interpretazione del Messaggio, diceva ora, che lo interessava. E per sondare il loro carattere, si richiedeva un terreno più neutrale. Ellie era disposta a recarsi ovunque e uno speciale assistente del Presidente stava negoziando. Non dovevano essere altri radioastronomi ad andare all’appuntamento; la Presidente voleva che fosse Ellie soltanto. Ellie stava anche attendendo il giorno, ancora lontano alcune settimane, in cui sarebbe volata a Parigi per la prima riunione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio. Lei e Vaygay stavano coordinando il programma globale di raccolta dati. L’acquisizione del segnale era ormai un fatto di routine, e negli ultimi mesi non c’era stato un solo buco nella copertura. Così scoprì, con sua grande meraviglia, di avere un po’ di tempo a sua disposizione. Si ripromise di avere una lunga conversazione con sua madre, e di essere gentile e amichevole a dispetto di qualsiasi provocazione. C’era un’incredibile quantità di carte ammonticchiate e di posta elettronica da evadere, non solo congratulazioni e critiche da parte dei colleghi, ma moniti religiosi, speculazioni pseudoscientifiche proposte con grande sicurezza, e lettere di ammiratori da tutto il mondo. Non aveva letto per mesi «Il Giornale Astrofisico», sebbene fosse l’autrice principale di un recentissimo saggio che era certamente il più straordinario articolo mai apparso in quella prestigiosa pubblicazione. Il segnale da Vega era così forte che molti radioamatori — stanchi dei loro apparecchi — avevano cominciato a costruire dei piccoli radiotelescopi personali e degli analizzatori di segnali. Nei primi stadi dell’acquisizione del Messaggio, essi avevano scoperto alcuni dati utili, ed Ellie era ancora assediata da dilettanti che pensavano di essere venuti in possesso di qualcosa di ignoto ai professionisti del SETI. Si sentiva in obbligo di scrivere lettere di incoraggiamento. C’erano altri programmi radioastronomici meritevoli all’osservatorio — il rilevamento delle quasar, ad esempio — di cui ci si sarebbe dovuti occupare. Ma invece di fare tutte queste cose, finì per passare quasi tutto il suo tempo con Ken. Naturalmente era suo dovere coinvolgere il consigliere scientifico della Presidente nel Progetto Argus come egli desiderava. Era importante che la Presidente venisse informata esaurientemente e con la debita competenza. Ellie sperava che i capi delle altre nazioni fossero aggiornati sulle scoperte di Vega come lo era la Presidente degli Stati Uniti. Costei, benché digiuna di scienza, si appassionava davvero a quel mistero ed era disposta a dare appoggio alla scienza non solo per i benefici pratici che ne potevano derivare, ma, almeno un po’, per la gioia di conoscere. Solo pochi suoi predecessori si erano comportati così. Tuttavia, era sorprendente che der Heer fosse in grado di trascorrere tanto tempo ali’Argus. Egli dedicava un’ora o più al giorno alle comunicazioni cifrate a passabanda alta con il suo ufficio per la politica scientifica e tecnologica di Washington. Ma il resto del tempo, da quello che le era dato vedere, Ken era semplicemente… in giro. Ficcava il naso nel sistema di elaboratori, o andava a vedere i singoli radiotelescopi. Talvolta era con lui un assistente venuto da Washington; più spesso era solo. Lei lo vedeva dalla porta aperta dell’ufficio provvisorio che gli avevano assegnato, con i piedi sulla scrivania, intento a leggere qualche rapporto o a parlare al telefono. Le faceva un cenno cordiale e ritornava, al suo lavoro. Lo trovava che parlava per caso con Drumlin o Valerian; ma pure con tecnici di minore importanza e con lo staff di segreteria che lo aveva definito in più di un’occasione «affascinante», come le era capitato di sentire. Der Heer aveva molte domande anche per lei. Dapprima erano puramente tecniche e programmatiche, ma ben presto si estesero a piani per un’ampia varietà di possibili eventi futuri e quindi a una sbrigliata speculazione. In quei giorni, sembrava quasi che la discussione del progetto fosse soltanto un pretesto per trascorrere un po’ di tempo insieme. In un bel pomeriggio d’autunno a Washington, la Presidente si vide costretta a rinviare una riunione dello Special Contin-gency Task Group a causa della crisi di Tyrone Free. Dopo un volo notturno dal New Mexico, Ellie e der Heer si trovarono dunque con alcune ore libere e decisero di andare a visitare il Vietnam Memorial, progettato da Maya Ying Lin quando era ancora una studentessa di architettura all’università di Vale. Tra i cupi e dolenti ricordi di una guerra insensata, der Heer sembrava stranamente allegro ed Ellie cominciò di nuovo a meditare sulle pecche del suo carattere. Un paio di agenti di sicurezza in borghese della General Service Administration con speciali auricolari color carne infilati nelle orecchie li seguivano discretamente. Ken aveva costretto un bellissimo bruco azzurro a salire su un ramoscello. L’animaletto si muoveva svelto, con il corpo iridescente ondulante al movimento di quattordici paia di zampette. All’estremità del ramoscello, vi si aggrappò con i suoi ultimi cinque segmenti e sferzò l’aria in un coraggioso tentativo di trovare un nuovo appoggio. Visti vani i suoi sforzi, si voltò prontamente e ritornò sui suoi passi. Der Heer allora cambiò la sua presa sul ramoscello cosicché quando il bruco ritornò al suo punto di partenza, non sapeva di nuovo dove andare. Come certi mammiferi carnivori chiusi in gabbia, la larva andò su e giù molte volte, ma le sembrò che negli ultimi passaggi mostrasse una crescente rassegnazione. Ellie cominciava a sentir pietà per la povera creatura anche se fosse stata la larva responsabile della distruzione dell’orzo. «Che meraviglioso programma in questa testolina!» esclamò lui. «Funziona ogni volta: ottimo software di sicurezza. E sa non cadere giù. Voglio dire che il ramoscello è davvero sospeso in aria. Il bruco non lo sperimenta mai in natura, perché il ramoscello è sempre attaccato a qualcosa. Ellie, ti sei mai chiesta come risulterebbe quel programma se si trovasse nella tua testa? Intendo, ti sembrerebbe ovvio il da farsi una volta che tu sia giunta all’estremità di un ramoscello? Avresti l’impressione di rifletterci sopra? Ti domanderesti come hai appreso ad agitare in aria le tue dieci zampette anteriori, mentre ti tieni stretta con le altre diciotto?» Lei piegò leggermente il capo ed esaminò lui più che il bruco. Sembrava che non facesse molta fatica a immaginarsela come un insetto. Cercò di rispondere vagamente, ricordando che per lui sarebbe stata una faccenda di interesse professionale. «Che ne farai adesso?» «Lo rimetterò nell’erba, suppongo. Che altro ne dovrei fare?» «Qualcuno lo ucciderebbe.» «E’ difficile uccidere una creatura una volta che ti ha fatto vedere la sua coscienza.» Continuò a portare il ramoscello e la larva. Camminarono per un po’ in silenzio davanti ai quasi 55000 nomi scolpiti sul lucido granito nero. «Ogni governo che prepari una guerra dipinge i suoi awersari come mostri,» ella disse. «Non vogliono che si pensi all’umanità della parte avversa. Se il nemico può avere dei pensieri e dei sentimenti, si possono avere delle esitazioni a uccidere. E uccidere è molto importante. Meglio vederli come mostri.» «Ecco, guarda questa bellezza,» ribattè lui dopo un attimo. «Davvero. Guardala da vicino.» Lo fece. Reprimendo un leggero brivido di disgusto, Ellie cercò di vedere il bruco attraverso gli occhi di Ken. «Osserva quello che fa,» egli proseguì. «Se fosse grande come te o me, spaventerebbe tutti a morte. Sarebbe un autentico mostro, non è vero? Ma è piccolo. Mangia le foglie, bada ai fatti suoi, e aggiunge un po’ di bellezza al mondo.» Ellie gli prese la mano senza preoccuparsi del bruco e continuarono a passeggiare senza dire una parola accanto alle file di nomi incisi in ordine cronologico di morte. C’erano, naturalmente, soltanto le perdite americane. Tranne che nei cuori dei loro familiari e amici, non c’era un momento simile sul pianeta per i due milioni di uomini del Sud-est asiatico che erano morti nello stesso conflitto. In America, il commento pubblico più comune a proposito di questa guerra riguardava l’opposizione politica al potere militare, psicologicamente simile, lei pensò, alla spiegazione della «pugnalata nella schiena» data dai militaristi tedeschi della loro disfatta nella prima guerra mondiale. Il Vietnam rappresentava un bubbone nella coscienza nazionale che nessun Presidente finora aveva avuto il coraggio di incidere. (La politica successiva della Repubblica Democratica del Vietnam non aveva facilitato il compito.) Ricordava come fosse comune per i soldati americani chiamare i loro avversari vietnamiti «musi gialli», «teste storte», «crape di riso», «mongoloidi» e peggio. Sarebbe stato possibile guidare la prossima fase della storia umana senza prima occuparsi di questa tendenza a disumanizzare l’avversario? Nei discorsi di ogni giorno, der Heer non parlava come un accademico. Se lo si incontrava all’edicola all’angolo mentre comprava un giornale, non lo si sarebbe mai detto uno scienziato. Non aveva perduto il suo accento popolare newyorkese. Al principio, l’apparente discordanza tra il suo linguaggio e la qualità del suo lavoro scientifico sembrò divertente ai suoi colleghi. Quando le sue ricerche e l’uomo stesso divennero più conosciuti, il suo accento divenne puramente idiosincratico. Ma il modo con cui pronunciava, per esempio, guanosina trifosfato, sembrava conferire a questa benigna molecola proprietà esplosive. Ci avevano messo molto a riconoscere che stavano innamorandosi. A molti altri, invece, doveva essere apparso evidente. Alcune settimane prima, quando si trovava ancora all’Argus, Lunacarskij si era lanciato in una delle sue occasionali filippiche contro l’irrazionalità del linguaggio. Stavolta era il turno dell’angloamericano. «Ellie, perché la gente dice ‘fare di nuovo lo stesso errore’? Che cosa aggiunge il ‘di nuovo’ alla frase? E ho ragione che ‘bruciare interamente’ e ‘distruggere col fuoco’ significano la stessa cosa? E ‘rallentare’ e ‘ritardare’ non vogliono dire la medesima cosa? Perciò, se ‘stropicciare’ è accettabile, perché non lo è ‘scartacciare’?» Ellie aveva annuito stancamente. Lo aveva sentito più di una volta lamentarsi con i suoi colleghi sovietici delle incoerenze della lingua russa, ed era certa che ne avrebbe udito una versione francese alla conferenza di Parigi. Era disposta ad ammettere che le lingue avevano delle improprietà, ma esse avevano tante fonti e si evolvevano sotto l’azione di tante piccole pressioni che sarebbe stato sorprendente se fossero state perfettamente coerenti e intrinsecamente logiche. Vaygay però si divertiva tanto a lamentarsi che di solito lei non aveva il coraggio di obiettare. «E considera l’espressione idiomatica ‘essere innamorato con la testa sui talloni’,» proseguì lui. «E’ un’espressione comune, non è vero? Ma è esattamente alla rovescia. O, piuttosto, capovolta. Di solito si è con la testa sopra i talloni. Quando si è innamorati, si dovrebbe essere con i talloni sopra la testa. Ho ragione? Tu ne dovresti sapere qualcosa. Ma chiunque abbia inventato tale frase non aveva esperienza dell’amore. Immaginava che si vada in giro nella maniera consueta, invece di fluttuare per aria capovolti, come nei quadri di quel pittore francese… come si chiama?» «Era russo», ribattè lei. Mare Chagall aveva fornito un esile pretesto per uscire da una conversazione che si stava facendo imbarazzante e spinosa. In seguito lei si chiese se Vaygay avesse voluto stuzzicarla o provocare una sua reazione rivelatrice. Forse si era accorto soltanto inconsciamente del legame che stava nascendo tra Ellie e der Heer. Una parte almeno della riluttanza di der Heer era chiara. Il consigliere scientifico della Presidente stava dedicando un’enorme quantità di tempo a una faccenda senza precedenti, delicata e incerta. Un coinvolgimento emotivo con uno dei protagonisti era rischioso. La Presidente di certo voleva che il suo giudizio fosse lucidissimo. Egli sarebbe stato libero di raccomandare linee di condotta cui Ellie era contraria, e di consigliare il rifiuto di scelte caldeggiate da lei. Innamorarsi di Ellie avrebbe compromesso in qualche modo l’efficienza di der Heer. Per Ellie la cosa era più complicata. Prima di aver acquistato la rispettabilità un po’ manierata confacente alle sue funzioni di direttore di uno dei più importanti osservatori radio, aveva avuto molti compagni. Anche se si era sentita innamorata e lo aveva manifestato, il matrimonio non l’aveva mai tentata seriamente. Ricordava vagamente la quartina — era di William Butler Yeats? — con cui aveva cercato di consolare i suoi innamorati di un tempo dal cuore spezzato perché, come sempre, era stata lei a decidere che la storia era finita: Dici che non c’è amore, amor mio, Se non dura sempre. Ah, è follia! Ci sono episodi assai migliori dell’opera tutta. Ricordava come John Staughton fosse stato carino con lei mentre corteggiava sua madre e come avesse ben presto abbandonato tale atteggiamento una volta divenuto il suo patrigno. Una nuova e mostruosa personalità, fino a quel momento appena intravista, poteva emergere negli uomini poco dopo il matrimonio. Era convinta che le sue predisposizioni romantiche la rendessero vulnerabile. Non avrebbe ripetuto l’errore di sua madre. Un po’ più in profondità c’era il timore di innamorarsi perdutamente, di abbandonarsi a qualcuno che le poteva poi essere strappato, o che semplicemente l’avrebbe abbandonata. Ma se non ci si innamora mai sul serio, non si sente mai sul serio la mancanza dell’amore. (Non si soffermava su questo sentimento, vagamente consapevole che non risuonava del tutto vero.) Inoltre, se non si fosse mai realmente innamorata di qualcuno, non lo avrebbe mai realmente tradito, come nel profondo del suo cuore sentiva che sua madre aveva tradito suo padre, morto da tanto tempo. Ne sentiva ancora la mancanza in maniera terribile. Con Ken la cosa sembrava diversa. O le sue aspettative erano giunte gradualmente a un compromesso con il passare degli anni? A differenza di molti altri uomini cui poteva pensare, Ken quando veniva provocato o messo alle strette, mostrava un lato più gentile, più comprensivo. La sua inclinazione al compromesso e la sua abilità nella politica scientifica facevano parte dei requisiti del suo lavoro; ma lei sentì di aver intravisto sotto quelle parvenze qualcosa di solido. La rispettava per il modo con cui aveva integrato la scienza con la totalità della sua vita, e per il coraggioso appoggio alla scienza che aveva cercato di inculcare in due amministrazioni. Erano stati insieme il più discretamente possibile nel suo piccolo appartamento all’Argus. I loro discorsi erano una gioia, con le idee che andavano e venivano come le piccole sfere piumate del volano. Talvolta l’uno completava i pensieri rimasti in sospeso dell’altra con una quasi perfetta preconoscenza. Lui era un amante sensibile, premuroso e pieno di fantasia. Talvolta Ellie si stupiva di quello che era capace di fare e di dire alla presenza di Ken, a causa del loro amore. Arrivò ad ammirarlo tanto che il suo amore per lui modificò la stima che aveva di se stessa. Si piacque di più proprio grazie a lui. E poiché egli sentiva chiaramente le stesse cose, c’era una sorta di infinito flusso d’amore e di rispetto alla base della loro relazione. Almeno, era come la vedeva lei. Alla presenza di tanti suoi amici aveva provato, sotto sotto, un senso di solitudine, che con Ken era sparito. Si sentiva a proprio agio quando gli descriveva le sue fantasticherie, i frammenti di ricordi, i problemi infantili. E lui non era solamente interessato, ma affascinato. La interrogava per ore sulla sua infanzia. Le sue domande erano sempre dirette, talvolta indagatrici, ma immancabilmente gentili. Lei cominciò a capire perché gli amanti usano tra di loro un linguaggio bambinesco. Non c’era nessun’altra circostanza socialmente accettabile in cui le bambine che c’erano in lei avessero il permesso di uscire. Se la creatura di un anno, quella di cinque, quella di dodici, e quella di venti trovano tutte delle personalità compatibili nell’essere amato, c’è una possibilità reale di mantenere felici tutte queste sub-persone. L’amore pone fine alla loro lunga solitudine. Forse la profondità dell’amore può essere misurata dal numero di differenti ego che sono attivamente coinvolti in un dato rapporto. Con i suoi partner precedenti, a quanto pareva, uno al massimo di questi ego era stato in grado di trovare una controparte ideale; le altre personalità erano state fastidiosi seccatori. Il fine settimana precedente il previsto incontro con Joss, erano a letto, e la luce del tardo pomeriggio che penetrava nella stanza tra le stecche delle veneziane creava degli arabeschi sulle loro forme allacciate. «In una comune conversazione,» stava dicendo Ellie, «posso parlare di mio padre senza sentire più di… una leggera stretta al cuore per la sua perdita. Ma se mi lascio andare a ricordarlo davvero — il suo spirito o quella… straordinaria onestà — allora la facciata si sgretola e ho voglia di singhiozzare perché se n’è andato.» «Non c’è dubbio, il linguaggio è catartico, può liberarci da quello che proviamo, o quasi,» replicò der Heer accarezzandole le spalle. «Forse è una delle sue funzioni, così possiamo capire e accettare il mondo senza esserne completamente sopraffatti.» «Se è così, allora l’invenzione del linguaggio non è soltanto una benedizione. Sai Ken, darei qualunque cosa — intendo dire davvero qualunque cosa in mio possesso — se potessi solo passare alcuni minuti con il papa.» Ellie immaginava un paradiso con tutte quelle care mamme e quei papa fluttuanti nell’aria o diretti a una vicina nuvola. Avrebbe dovuto essere un luogo spazioso per accogliere tutte le decine di bilioni di persone vissute e morte dalla comparsa della specie umana. Poteva essere molto affollato, pensava, a meno che il cielo religioso non fosse delle proporzioni di quello astronomico. Allora, ci sarebbe stato spazio a volontà. «Ci deve essere un numero,» disse Ellie, «che misura la popolazione totale di esseri intelligenti presenti nella Via Lattea. Di quante cifre pensi che sia? Se c’è un milione di civiltà, ciascuna con circa un bilione di individui, gli esseri intelligenti devono essere allora dieci alla quindicesima potenza. Ma se la maggior parte di loro sono più avanzati di noi, forse l’idea di individui diventa impropria; forse è solo un altro sciovinismo terrestre.» «Certo. E allora puoi calcolare il volume della produzione galattica di Gauloises e di Twinkies, di auto Volga e di trasmettitori tascabili Sony. Quindi potremmo calcolare il prodotto galattico lordo. Una volta in possesso di tali dati, potremmo lavorare sul prodotto cosmico lordo…» «Mi stai prendendo in giro,» disse lei con un sorriso tenero, niente affatto dispiaciuta. «Ma pensa a tali cifre. Voglio dire, pensaci davvero. Tutti quei pianeti con tutti quegli esseri, più progrediti di noi. Non senti una specie di brivido a pensarci su?» Poteva dire ciò che lui stava pensando, ma saltò a un altro argomento. «Ehi, guarda qui. Mi sto documentando per l’incontro con Joss.» Allungò la mano verso il tavolino da notte per prendere il volume 16 di una vecchia «Encyclopaedia Britannica Macropaedia», con le voci «Rubens-Somalia», e lo aprì a una pagina dove un pezzette di un tabulato di elaboratore era stato inserito come segnalibro. Indicò la voce «Sacro o Santo». «I teologi sembrano aver individuato uno speciale, non razionale — non lo chiamerei irrazionale — aspetto del senso del sacro o santo. Lo chiamano ‘numinoso’. Il termine è stato usato per la prima volta da… vediamo… qualcuno che si chiamava Rudolph Otto in un libro del 1923, L’idea del sacro. Costui credeva che gli uomini fossero portati a scoprire e venerare il numinoso. Lo chiamava il ‘misterium tremendum’. Persino con il mio latino ci arrivo. Alla presenza del ‘misterium tremendum’, l’umanità si sente totalmente insignificante, ma, se capisco bene, non personalmente alienata. Otto pensava al numinoso come a una cosa ‘completamente altra’, e alla reazione umana verso esso come a un ‘assoluto stupore’. Ora, se è ciò di cui parlano i religiosi quando usano parole come sacro o santo, sono d’accordo con loro. Ho provato qualcosa di simile anche solo nell’attesa di un segnale, non importa se poi l’ho ricevuto davvero. Penso che tutta la scienza susciti questo senso di meraviglia, di timore reverenziale. Adesso ascolta questo passo.» Ellie lesse dal testo: Negli ultimi cent’anni numerosi filosofi e sociologi hanno sostenuto la scomparsa del sacro e predetto la morte della religione. Uno studio della storia delle religioni mostra che le forme religiose mutano e che non c’è mai stata unanimità sulla natura e sull’espressione della religione. Se l’uomo sia… «Anche i maschilisti scrivono e pubblicano articoli religiosi, naturalmente.» Riprese a leggere: Se l’uomo sia o no attualmente in una nuova situazione per sviluppare strutture di valori fondamentali radicalmente diverse da quelle fornite nella consapevolezza del sacro tradizionalmente affermata è una questione di vitale importanza. «E allora?» «Allora, sono del parere che le religioni burocratiche cerchino di istituzionalizzare la percezione del numinoso invece di fornire i mezzi per far percepire il numinoso direttamente: come guardare attraverso un telescopio da sei pollici. Se la percezione del numinoso è al centro dell’esperienza religiosa, chi diresti sia più religioso, quelli che seguono le religioni burocratiche o quelli che imparano la scienza da soli?» «Vediamo se ho inteso bene,» ribattè lui. Era una frase di lei che aveva fatto sua. «E’ un indolente sabato pomeriggio e c’è una coppia che sta a letto nuda a leggere P’Encyclopaedia Britannica’ e a discutere se la nebulosa di Andromeda sia più ‘numinosa’ della Resurrezione. Sanno come spassarsela, o no?» SECONDA PARTE LA MACCHINA «L’Onnipotente Conferenziere, mettendo in mostra i principi della scienza nella struttura dell’universo, ha invitato l’uomo allo studio e all’imitazione. E’ come se Egli avesse detto agli abitanti di questo globo che chiamiamo nostro: ‘Ho creato una terra perché sia di dimora all’uomo, e ho reso visibili i cicli stellati per insegnargli la scienza e le arti. Egli può ora provvedere al suo personale benessere e imparare dalla mia munificenza cosmica a essere magnanimo con il suo prossimo.»      THOMAS PAINE, L’età della ragione (1794) 10 PRECESSIONE DEGLI EQUINOZI «Credendo che gli dei esistano, inganniamo noi stessi con sogni inconsistenti e menzogne, mentre l’incurante sorte e i mutamenti controllano da soli il mondo» EURIPIDE, Ecuba Era strano il modo in cui era andata la cosa. Ellie si era immaginata che Palmer Joss sarebbe venuto all’Argus, avrebbe guardato il segnale che veniva raccolto dai radiotelescopi, e avrebbe osservato attentamente l’enorme stanza piena di nastri magnetici e di dischi su cui i dati dei molti mesi precedenti erano stati memorizzati. Avrebbe posto alcune domande di carattere scientifico e quindi esaminato, nella loro molteplicità di zeri e di unità, alcune delle risme del tabulato uscito dall’elaboratore che presentavano l’ancor incomprensibile Messaggio. Non aveva previsto di passare ore intere a discutere di filosofia e di teologia. Ma Joss si era rifiutato di venire all’Argus. Non era un nastro magnetico che voleva esaminare, egli disse, era il carattere umano. Peter Valerian sarebbe stato l’ideale per questa discussione: semplice, capace di comunicare con chiarezza, protetto da una genuina fede cristiana che lo impegnava quotidianamente. Ma la Presidente aveva evidentemente posto il veto all’idea; aveva voluto un piccolo incontro e aveva esplicitamente chiesto che fosse Ellie a intervenire. Joss aveva insistito che il colloquio avesse luogo lì, all’Istituto e Museo della Ricerca Scientifica Biblica a Modesto, in California. Lo sguardo di Ellie, dopo essersi posato per un attimo su der Heer, si rivolse alla parete di vetro che divideva la biblioteca dall’area espositiva. Appena fuori c’era un calco di gesso ricavato da un’arenaria del Red River di orme di dinosauri frammiste a quelle di un bipede in sandali, che stava a dimostrare, così diceva la didascalia, che l’Uomo e il Dinosauro erano stati contemporanei, almeno nel Texas. Nel mesozoico dovevano esserci stati anche i calzolai. La conclusione cui si giungeva nella didascalia era che l’evoluzione fosse un’impostura. L’opinione di molti paleontologi che l’arenaria fosse un falso non veniva citata, come aveva osservato Ellie due ore prima. Quelle orme facevano parte di una vasta esposizione intitolata «L’errore di Darwin». Sulla sinistra vi era un pendolo di Foucault, a riprova dell’asserzione scientifica, quest’ultima evidentemente incontestata, che la Terra gira. Sulla destra, Ellie poteva vedere parte di un’imponente unità olografica di Matsushita sul podio di un piccolo teatro, da cui le immagini tridimensionali dei più importanti teologi potevano comunicare direttamente con i fedeli. Chi stava comunicando con lei in maniera ancor più diretta in quel momento era il reverendo Billy Jo Rankin. Aveva appreso solo all’ultimo istante che Joss aveva invitato Rankin e ne era rimasta sorpresa. C’erano state continue dispute teologiche tra loro, se l’Avvento fosse imminente, se il giorno del Giudizio fosse un inevitabile accompagnamento dell’Avvento, e sul ruolo dei miracoli nel sacerdozio, tra le altre cose. Ma recentemente erano arrivati a una riconciliazione ampiamente pubblicizzata, fatta, era stato detto, per il bene comune della comunità fondamentalista americana. I segni di un riavvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano influenzando anche l’arbitrato delle controversie. Tenere la riunione in quel luogo era forse parte del prezzo che Palmer Joss aveva dovuto pagare per la riconciliazione. Probabilmente, Rankin aveva considerato che gli oggetti in mostra avrebbero dato un reale supporto alla sua posizione, se ci fosse stata qualche questione scientifica in discussione. Al momento, dopo due ore di animata conversazione, Rankin stava ancora ricorrendo a una serie altalenante di rimproveri severi e di suppliche imploranti. Il suo abito aveva un taglio impeccabile, le sue unghie appena uscite dalle mani di una manicure, e il suo sorriso raggiante contrastavano con l’aria sciupata, confusa e più sbattuta di Joss che, con appena l’ombra di un sorriso sul volto, teneva gli occhi socchiusi e il capo piegato in un atteggiamento che richiamava da vicino quello della preghiera. Non aveva avuto molto da dire. Le osservazioni di Rankin fino a quel momento — tranne che per la tirata sull’Estasi, suppose Ellie — erano dottrinalmente indistinguibili dai discorsi televisivi di Joss. «Voi scienziati siete così riservati,» stava dicendo Rankin. «Vi piace nascondere la vostra fiaccola sotto il moggio. Dai titoli non si riuscirebbe mai a immaginare il contenuto dei vostri scritti. La prima opera di Einstein sulla teoria della relatività era intitolata L’elettrodinamica dei corpi in movimento. Non c’era la formula E=mc2 sul frontespizio. Nossignore. ‘L’elettrodinamica dei corpi in movimento’. Presumo che se Dio apparisse a un intero branco di scienziati, forse a una di quelle grandi riunioni dell’Associazione, ci scriverebbero su qualcosa e lo intitolerebbero, probabilmente ‘La combustione spontanea dendritoforme nell’aria’. Avrebbero un mucchio di equazioni; parlerebbero di ‘economia di ipotesi’; ma non direbbero mai una parola di Dio. Vedete, voi scienziati siete troppo scettici.» Da un suo cenno laterale del capo, Ellie dedusse che anche der Heer era incluso in tale valutazione. «Voi mettete in dubbio ogni cosa, o cercate di farlo. Non avete mai sentito ‘Accontentati, non pretendere troppo’, o ‘Se non si è rotto, non aggiustarlo’. Volete sempre controllare se una cosa sia, come dite, ‘vera’. E ‘vero’ significa solo dati empirici, sensibili, cose che potete vedere e toccare. Non c’è spazio per l’ispirazione o la rivelazione nel vostro mondo. Fondamentalmente rifiutate quasi tutto ciò che riguarda la religione. Io diffido degli scienziati perché gli scienziati diffidano di tutto.» Suo malgrado, Ellie pensò che Rankin avesse esposto bene le proprie ragioni. Ed era ritenuto lo stupido fra i moderni videoevangelisti. No, non stupido, si corresse; egli era l’unico che considerava i suoi parrocchiani stupidi. Per quanto lei ne sapeva, poteva essere certamente molto acuto. Doveva rispondergli? Sia der Heer che il personale del museo stavano registrando la discussione, e benché si fosse stabilito che le registrazioni non sarebbero state divulgate, Ellie si preoccupava di poter procurare delle difficoltà al progetto o alla Presidente se avesse manifestato la sua opinione. Ma le osservazioni di Rankin si erano fatte sempre più offensive e non c’erano stati interventi né da parte di der Heer né da quella di Joss. «Suppongo che lei voglia un replica,» si lasciò sfuggire Ellie. «Non c’è una posizione scientifica ‘ufficiale’ per nessuno di questi problemi, e non pretendo di parlare a nome di tutti gli scienziati o del Progetto Argus. Ma posso fare qualche commento, se le va.» Rankin annuì energicamente, con un sorriso di incoraggiamento. Joss aspettava soltanto, con aria fiacca. «Voglio che lei capisca che non sto attaccando la fede di nessuno. Per quanto mi riguarda, lei ha diritto a tutte le dottrine che vuole, anche se sbagliate in modo dimostrabile. E molte delle cose che lei va dicendo, e che il reverendo Joss ha detto — ho visto la sua conversazione televisiva alcune settimane fa — non possono essere confutate seduta stante. Ci vuole un po’ di impegno. Ma lasci che cerchi di spiegare perché penso siano inverosimili.» Finora, lei pensò, sono stata la personificazione della misuratezza. «Le da fastidio lo scetticismo scientifico. Ma la ragione per cui si è sviluppato è che il mondo è complicato. E’ misterioso. La prima idea che si fa ciascuno di noi non è necessariamente quella giusta. Perciò gli uomini possono ingannarsi. Anche gli scienziati. Tutti i generi di dottrine socialmente odiose sono stati appoggiati una volta o l’altra, da scienziati, notissimi scienziati, famosissimi scienziati. E, naturalmente, da politici. E da rispettati capi religiosi. Lo schiavismo, per esempio, o il razzismo nazista. Gli scienziati commettono errori, i teologi commettono errori, tutti commettono errori. Fa parte dell’essere umano. Lo dite voi stessi: ‘Errare è umano.’ Allora, il modo per evitare gli errori, o almeno ridurre la possibilità di commetterne, è di essere scettici. Si mettono alla prova le idee, si controllano secondo rigorosi standard di evidenza. Non credo esista una verità generalmente accettata come tale. Ma quando si consente che le diverse opinioni si scontrino, quando ogni scettico può attuare il suo esperimento personale per controllare qualche opinione, allora la verità tende a emergere. Questa è la linea di condotta seguita in tutta la storia della scienza. Non sarà un procedimento perfetto, ma è il solo che sembri funzionare. Ora, quando guardo la religione, vedo molte opinioni contrastanti. Per esempio, i cristiani pensano che l’universo abbia un numero finito di anni. Dalle esposizioni là fuori risulta chiaro che alcuni cristiani (ed ebrei e musulmani) ritengono che l’universo abbia solo seimila anni. Gli indù d’altro canto — e ci sono moltissimi indù nel mondo — sono convinti che l’universo sia infinitamente antico, con un numero infinito di creazioni e distruzioni ulteriori nel corso della sua storia. Ora, non possono avere entrambi ragione. O l’universo ha un certo numero di anni o è infinitamente antico. I vostri amici là fuori» — Ellie indicò oltre la porta a vetri parecchi operai del museo che si soffermavano vicino all’Errore di Darwin’ — «dovrebbero contestare gli indù. Sembra che Dio abbia detto loro qualcosa di diverso da quello che ha detto a voi. Ma c’è la tendenza a riferirsi soltanto a se stessi.» Ellie si chiese se non fosse stata un po’ troppo dura. «Le più importanti religioni della Terra si contraddicono a vicenda riguardo a molti punti. Non possono essere tutte perfette. E se fossero tutte sbagliate? E una possibilità, sapete. Ci si deve preoccupare della verità, esatto? Ebbene il modo per vagliare tutte le diverse opinioni è l’essere scettici. Riguardo alle vostre convinzioni religiose non sono più scettica di quanto lo sia riguardo a ogni nuova idea scientifica di cui vengo a conoscenza. Ma nella prassi della mia professione, sono definite ipotesi, non ispirazione e neppure rivelazione.» Joss ora si agitava un po’, ma fu Rankin a rispondere. «Le rivelazioni, le predizioni confermate da Dio nel Vecchio e Nuovo Testamento sono una moltitudine. La venuta del Salvatore è profetizzata in Isaia 53, in Zaccaria 14, nei Primi Paralipomeni 17. Che Egli sarebbe nato a Betlemme era stato predetto in Michea 5. Che sarebbe disceso dalla stirpe di Davide era stato annunciato in Matteo 1 e…» «In Luca. Ma ciò dovrebbe rappresentare un motivo di imbarazzo per voi, non l’avverarsi di una profezia. Matteo e Luca attribuiscono a Gesù delle genealogie totalmente diverse. E peggio ancora, essi tracciano la discendenza da Davide a Giuseppe, non da Davide a Maria. O non credete in Dio Padre?» Rankin proseguì senza scomporsi. Forse non l’aveva capita: «… il Ministero e la Passione di Cristo sono predetti in Isaia 52 e 53 e nel salmo 22. Che Egli sarebbe stato tradito per trenta pezzi d’argento è detto esplicitamente in Zaccaria 11. Se voi scienziati siete onesti, non potete ignorare l’evidenza del compimento della profezia. E la Bibbia parla al nostro tempo. Israele e gli Arabi, Gog e Magog; l’America e la Russia, la guerra nucleare — si trova tutto nella Bibbia. Chiunque dotato di un pizzico di intelligenza può vederlo. Non c’è bisogno di essere un professore di qualche illustre college.» «Il vostro guaio,» ribattè Ellie, «è la mancanza di immaginazione. Queste profezie sono — quasi tutte — vaghe, ambigue, imprecise, aperte all’inganno. Ammettono un’infinità di possibili interpretazioni. Tentate di ignorare persino le profezie chiare, inequivocabili, venute direttamente dal vertice, come la promessa di Gesù che il Regno di Dio si sarebbe instaurato durante la vita di qualcuno di coloro che lo stavano ad ascoltare. E non ditemi che il Regno di Dio è dentro di me. Il suo uditorio lo intese proprio alla lettera. Voi citate soltanto i passi che vi sembra si siano avverati e ignorate il resto. E non dimenticate che c’è un ardente desiderio di vedere compiersi la profezia. Ma immaginate che il vostro tipo di dio — onnipotente, onni-scente, pietoso — avesse davvero voluto lasciare una testimonianza per le future generazioni, per rendere inequivocabile la sua esistenza ai remoti discendenti di Mosé. E’ facile, banale. Solo alcune enigmatiche frasi e qualche severo comandamento da tramandare immutati…» Joss si protese in avanti quasi impercettibilmente. «Come…?» «Come ‘Il Sole è una stella’. Oppure ‘Marte è un mondo rossastro con deserti e vulcani come il Sinai’. O ‘Un corpo in movimento tende a restare in movimento’. O — lasciatemi vedere» — in fretta scarabocchiò alcuni numeri su un blocco — «La Terra pesa un milione di un milione di un milione di un milione di volte più di un bambino.’ O — riconosco che voi due sembrate avere qualche difficoltà con la relatività speciale, ma viene confermata ogni giorno abitualmente negli acceleratori di particelle e nei raggi cosmici — che ne dite di ‘Non ci sono sistemi di riferimento privilegiati’? O addirittura ‘Non viaggerai più veloce della luce’. Qualcosa che non avrebbero potuto assolutamente conoscere tremila anni fa.» «Che altro?» Joss chiese. «Beh, ce n’è un numero indefinito — o almeno una per ogni principio di fisica. Vediamo… ‘Calore e luce si celano nel più piccolo ciottolo.’ O anche ‘Il modo della Terra è come un due, ma il modo della magnetite è come un tre’. Sto cercando di suggerire che la forza di gravita segue una legge dell’universo del quadrato della distanza, mentre la forza di un dipolo magnetico segue una legge dell’universo del cubo della distanza. O in biologia» — Ellie indicò der Heer, che sembrava aver fatto voto di silenzio — «che ne dite di ‘Due funi intrecciate sono il segreto della vita’?» «Questa è interessante,» disse Joss. «Lei sta parlando, naturalmente, del DNA. Ma lei conosce la verga dei medici, il simbolo della medicina? I dottori dell’esercito lo portano all’occhiello. Si chiama caduceo. Reca due serpenti simmetricamente intrecciati. E’ una doppia elica perfetta. Fin dai tempi antichi è stato il simbolo della conservazione della vita. Non è esattamente questo il tipo di collegamento che lei stava suggerendo?» «Beh, pensavo fosse una spirale, non un’elica. Ma se ci sono abbastanza simboli e abbastanza profezie e abbastanza miti e tradizioni folcloristiche, alla fine alcuni di loro si adatteranno a qualche conoscenza scientifica corrente per puro caso. Ma non ne posso essere sicura. Forse lei ha ragione. Forse il caduceo è un messaggio di Dio. Naturalmente, non è un simbolo cristiano, o un simbolo di una delle più importanti religioni attuali. Non credo che lei intendesse dire che gli dei parlavano soltanto agli antichi Greci. Ciò che sto dicendo è che, se Dio voleva inviarci un messaggio, e gli antichi scritti fossero stati l’unico mezzo che egli pensasse di impiegare a tale scopo, avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Che bisogno poi c’era di limitarsi agli scritti? Perché non c’è un crocifisso gigante in orbita attorno alla terra? Perché la superficie della Luna non è coperta dai Dieci Comandamenti? Perché Dio dovrebbe essere così chiaro nella Bibbia e così oscuro nel mondo?» Joss evidentemente era pronto a ribattere già da alcune frasi, con un’inattesa espressione di autentico piacere sul volto, ma il flusso di parole di Ellie stava aumentando di velocità e forse egli aveva ritenuto ineducato interromperla. «Inoltre, perché avrebbe dovuto abbandonarci? Aveva l’abitudine di chiacchierare con patriarchi e profeti ogni secondo martedì del mese, stando alle vostre convinzioni. E’ onnipotente, voi dite, e onnisciente. Perciò non è un grande sforzo da parte sua ricordarci direttamente, senza ambiguità, i suoi desideri almeno alcune volte in ogni generazione. Dunque, come si spiega, signori? Perché non lo vediamo con chiarezza, cristallina?» «Noi lo vediamo.» Rankin mise un’enorme enfasi in questa frase. «Egli è dovunque intorno a noi. Le nostre preghiere vengono esaudite. Decine di milioni di persone in questo paese sono rinate e sono state testimoni della gloriosa grazia di Dio. La Bibbia ci parla oggi con la stessa chiarezza con cui lo faceva ai tempi di Mosé e di Gesù.» «Oh, finitela! Sapete quello che voglio dire. Dove sono i roveti ardenti, i pilastri di fuoco, la voce tonante che ci dice ‘Io sono colui che sono’ dal cielo? Perché Dio dovrebbe manifestarsi in modi tanto misteriosi e discutibili quando potrebbe rendere la sua presenza completamente chiara e palese?» «Ma una voce dal cielo è proprio quello che dite di aver trovato.» Joss fece questo commento mentre Ellie prendeva fiato, fissandola negli occhi. Rankin prese la palla al balzo. «Giustissimo. Proprio quello che stavo per dire. Abramo e Mosé non avevano radio o telescopi. Non avrebbero certo potuto ascoltare l’Onnipotente in modulazione di frequenza. Forse oggi Dio ci parla in nuovi modi e ci permette di avere una nuova conoscenza. O forse non si tratta di Dio…» «Sì, Satana. Ho già sentito dei discorsi in proposito. Sembra pazzesco. Lasciatelo da parte per un momento, se siete d’accordo. Voi pensate forse che il Messaggio sia la Voce di Dio, del vostro Dio. Dov’è che Dio, nella vostra religione, risponde a una preghiera rimandandola indietro?» «Io non chiamerei preghiera un telegiornale nazista,» disse Joss. «Lei dice che è per attrarre la nostra attenzione.» «Allora perché pensate che Dio abbia scelto di parlare agli scienziati? Perché non ai predicatori come voi?» «Dio mi parla continuamente.» L’indice di Rankin battè sonoramente contro lo sterno. «E al reverendo Joss qui presente. Dio mi ha detto che una rivelazione è imminente. Se la fine del mondo è vicina, l’Estasi ci avvolgerà, il giudizio dei peccatori, l’ascesa al cielo degli eletti…» «Le ha detto che stava per fare quell’annuncio nello spettro delle radiofrequenze? La sua conversazione con Dio è registrata da qualche parte in modo che possiamo verificare se sia realmente avvenuta? O abbiamo soltanto la sua asserzione? Perché Dio avrebbe scelto di rivolgersi ai radioastronomi e non agli uomini e alle donne di chiesa? Non pensa che sia un po’ strano che il primo messaggio di Dio in duemila anni o più sia in numeri primi… e Adolf Hitler alle olimpiadi del 1936? Il suo Dio deve proprio avere un bel senso dell’umorismo.» «Il mio Dio può avere tutti i sensi che vuole.» Der Heer si era chiaramente spaventato per la prima comparsa di vero rancore. «Uh, forse potrei rammentare a noi tutti ciò che si spera di concludere in questo incontro,» cominciò a dire. Ecco Ken con i suoi modi accomodanti, pensò Ellie. Su certi punti è coraggioso, ma soprattutto quando non ha nessuna responsabilità d’azione. E’ un bravo parlatore… in privato. Ma riguardo alla politica scientifica, e specialmente quando rappresenta la Presidente, diventa molto compiacente, pronto a scendere a compromessi con il Diavolo in persona. Si sorprese. Il linguaggio teologico stava contagiandola. «Questa è un’altra faccenda.» Ellie interruppe il corso dei suoi pensieri e quello di der Heer. «Se quel segnale viene da Dio, perché proviene da un solo punto del cielo — in prossimità di una stella poco distante dalla Terra e particolarmente luminosa? Perché non proviene nel contempo da tutto il cielo, come la radiazione cosmica di fondo del corpo nero? — Venendo da una sola stella, sembra un segnale di un’altra civiltà. Venendo da ogni dove, somiglerebbe molto di più a un segnale del vostro Dio.» «Dio può far giungere un segnale dal buco del culo dell’Orsa Minore se vuole.» Il volto di Rankin si stava imporporando. «Mi scusi, ma lei mi ha fatto arrabbiare. Dio può fare qualsiasi cosa.» «Tutto quello che lei non capisce, signor Rankin, lo attribuisce a Dio. Dio per lei è dove si spazzano via tutti i misteri del mondo, tutte le sfide alla nostra intelligenza. Lei spegne semplicemente il suo cervello e dice che l’ha fatto Dio.» «Signora, non sono venuto qui per farmi insultare…» «Venuto qui? Io credevo che lei vivesse qui.» «Signora…» Rankin stava per dire qualcosa, poi ci ripensò. Inspirò profondamente e proseguì. «Questo è un paese cristiano e i cristiani hanno una conoscenza autentica di questo punto, una responsabilità sacra di assicurare che la sacra parola di Dio sia capita…» «Io sono una cristiana e lei non parla per me. E’ rimasto prigioniero di una sorta di mania religiosa da quinto secolo. Nel frattempo c’è stato il Rinascimento, c’è stato l’Illuminismo. E lei dov’è stato?» Sia Joss che der Heer stavano per cadere dalle loro sedie. «Per favore,» implorò Ken, guardando Ellie negli occhi. «Se non ci atteniamo di più all’ordine del giorno, non vedo come si possa portare a termine ciò che ci ha chiesto la Presidente.» «Ebbene, voi volevate ‘un franco scambio di vedute’.» «E’ quasi mezzogiorno,» osservò Joss. «Perché non facciamo un piccolo intervallo per il pranzo?» Fuori della sala per le conferenze della biblioteca, appoggiandosi alla ringhiera che circondava il pendolo di Foucault, Ellie cominciò a confabulare con der Heer. «Mi piacerebbe picchiarlo quel presuntuoso, saccente, bacchettone, bigotto…» «Ma perché Ellie? L’ignoranza e l’errore non sono dolorosi abbastanza?» «Sì, se tenesse la bocca chiusa. Ma sta corrompendo milioni di persone.» «Tesoro, lui pensa lo stesso di te.» Quando lei e der Heer ritornarono dal pranzo, Ellie si accorse immediatamente che Rankin appariva pacato, mentre Joss, che fu il primo a prendere la parola, sembrava di buon umore, certamente più cordiale del dovuto. «Dottor Arroway,» cominciò, «posso capire che lei sia impaziente di mostrarci le sue scoperte, e che lei non sia venuta qui per una disputa teologica. Ma la prego, sia paziente con noi solo per un altro po’. Lei ha una lingua tagliente. Non riesco a ricordare l’ultima volta che il fratello Rankin si è tanto scaldato per questioni di fede. Devono essere anni.» Diede un’occhiata fugace al suo collega, che stava facendo scarabocchi, con un’aria apparentemente distratta, su un blocco giallo di carta legale con il colletto sbottonato e la cravatta allentata. «Sono rimasto colpito da una o due cose che lei ha detto stamattina. Lei si è definita una cristiana. Posso chiederle in quale senso sia una cristiana?» «Sa, questo non era un requisito richiesto dal lavoro quando ho accettato la direzione del Progetto Argus,» disse Ellie con leggerezza. «Io sono una cristiana nel senso che trovo Gesù Cristo un’ammirevole figura storica. Ritengo che il sermone della montagna sia una delle più grandi dichiarazioni etiche e uno dei migliori discorsi della storia. Penso che ‘Amate i vostri nemici’ possa addirittura essere la soluzione azzardata al problema della guerra nucleare. Vorrei che fosse vivo oggi. Sarebbe un gran bene per tutti gli abitanti del pianeta. Ma credo che Gesù fosse soltanto un uomo. Un grand’uomo, un uomo coraggioso, un uomo che aveva compreso a fondo verità impopolari. Ma non credo fosse Dio o il figlio di Dio o il pronipote di Dio.» «Lei non vuoi credere in Dio.» Joss lo disse come una semplice constatazione. «Lei si immagina di poter essere una cristiana senza credere in Dio. Lasci che le chieda esplicitamente: lei crede in Dio?» «La domanda ha una struttura particolare. Se dico di no, significa che sono convinta che Dio non esiste, o che non sono convinta che Dio esiste? Sono due asserzioni molto diverse.» «Vediamo se sono così diverse, dottor Arroway. Posso chiamarla ‘dottore’? Lei crede nel rasoio di Occam, non è vero? Se lei ha due spiegazioni differenti della stessa esperienza, ma ugualmente valide, sceglie la più semplice. L’intera storia della scienza lo conferma, lei dice. Ora, se lei ha seri dubbi sull’esistenza di un Dio — dubbi sufficienti a renderla riluttante ad abbandonarsi alla Fede — deve essere in grado di immaginare un mondo senza Dio: un mondo che si realizza senza Dio, un mondo che vive la sua vita quotidiana senza Dio, un mondo in cui la gente muore senza Dio. Nessuna punizione. Nessuna ricompensa. Tutti i santi e i profeti, tutti i fedeli vissuti sulla Terra… sarebbero stati, a suo parere, degli stupidi. O gente che si è autoingannata, direbbe probabilmente. Sarebbe un mondo in cui non esisterebbe alcuna buona ragione di vivere, voglio dire nessuno scopo. Tutto si ridurrebbe soltanto a complicate collisioni di atomi, giusto? Compresi gli atomi che si trovano all’interno degli esseri umani. Per me sarebbe un mondo odioso e disumano. Non vorrei certo viverci. Ma se lei può immaginare un mondo simile, perché esitare? Perché stare in una posizione intermedia? Se lei crede già a tutto ciò, non è molto più semplice dire che non c’è nessun Dio? Non è fedele al rasoio di Occam. Io credo che lei stia dicendo delle sciocchezze. Come può uno scienziato decisamente scrupoloso essere un agnostico se lei può addirittura immaginare un mondo senza Dio? Non dovrebbe solo essere atea?» «Pensavo che lei volesse dimostrare che Dio è l’ipotesi più semplice,» disse Ellie, «ma questo è un argomento di gran lunga migliore. Se si trattasse soltanto di una faccenda da discutere scientificamente, sarei d’accordo con lei, reverendo Joss. La scienza si occupa essenzialmente dell’esame e della correzione delle ipotesi. Se le leggi di natura spiegano tutti i fatti che ci si presentano senza interventi soprannaturali, o anche se solo lo fanno bene quanto l’ipotesi di Dio, allora, per il momento, mi definirei un’atea. In seguito, se si scoprisse anche un solo elemento di discordanza, recederei dall’ateismo. Noi siamo perfettamente in grado di scoprire se c’è qualcosa che non va nelle leggi di natura. La ragione per cui non mi definisco un’atea è perché questa non è principalmente una questione scientifica. Si tratta di una questione religiosa e di una questione politica. La natura sperimentale dell’ipotesi scientifica non si estende a questi campi. Lei non parla di Dio come di un’ipotesi. Lei pensa di essersi accaparrato la verità, quindi io le faccio notare che possono esserle sfuggite una cosa o due. Ma se lei me lo chiede, sono felice di dirglielo: non posso essere sicura di avere ragione.» «Ho sempre pensato che un agostico fosse un ateo senza il coraggio delle sue convinzioni.» «Potrebbe dire altrettanto bene che un agnostico è una persona profondamente religiosa con almeno una rozza conoscenza della fallibilità umana. Quando dico di essere un’agnostica, voglio significare soltanto che non c’è l’evidenza. Non c’è una prova inconfutabile che Dio esiste — almeno la vostra specie di Dio — e non c’è una prova inconfutabile che non esista. Poiché più della metà della popolazione della Terra non è ebrea o cristiana o musulmana, direi che non ci siano argomenti irrefutabili e irresistibili per la vostra specie di dio. Altrimenti, tutti sulla Terra sarebbero stati convertiti. Ripeto, se il vostro Dio avesse voluto convincerci, avrebbe potuto fare un lavoro migliore. Guardi com’è chiara l’autenticità del Messaggio. Lo stanno raccogliendo in tutto il mondo. I radiotelescopi stanno ronzando in paesi con differenti storie, differenti lingue, differenti politiche, differenti religioni. Ognuno di essi sta ricevendo lo stesso tipo di dati dalla stessa regione del cielo, alle stesse frequenze con la stessa modulazione di polarizzazione. I musulmani, gli indù, i cristiani e gli atei stanno ricevendo tutti lo stesso messaggio. Ogni scettico può collegarsi a un radiotelescopio — non c’è bisogno che sia molto grande — e ottenere gli identici dati.» «Lei non sta suggerendo che il messaggio radio venga da Dio,» intervenne Rankin. «Niente affatto. Solo che la civiltà su Vega — con poteri infinitamente inferiori a quelli che voi attribuite al vostro Dio — è stata in grado di rendere le cose chiarissime. Se il vostro Dio avesse voluto parlarci tramite gli improbabili mezzi della trasmissione orale o degli scritti antichi di migliaia di anni, avrebbe dovuto farlo in modo tale da non lasciare spazio ai dibattiti sulla sua esistenza.» Si arrestò, ma né Joss né Rankin si misero a parlare, così lei cercò di nuovo di indirizzare la conversazione sui dati. «Perché non sospendiamo il giudizio finché non faremo qualche ulteriore progresso nella decifrazione del Messaggio? Gradireste vedere alcuni dei dati?» Questa volta assentirono e abbastanza volentieri, si sarebbe detto. Ma lei poteva produrre soltanto risme di zeri e di unità, né edificanti né ispirate. Illustrò con cura la presunta numerazione delle pagine del Messaggio e parlò della speranza che si aveva di ricevere un manuale, una sorta di sillabario. Per un tacito accordo lei e der Heer non dissero nulla dell’opinione sovietica che il Messaggio fosse il progetto per una macchina. Si trattava soltanto di una supposizione e non era stata ancora discussa pubblicamente dai Russi. Come spinta da un ripensamento, Ellie diede una sommaria descrizione anche di Vega, della sua massa, della temperatura superficiale, del suo colore, della distanza dalla Terra, della sua età, e dell’anello di detriti che le ruotavano attorno scoperto dal satellite astronomico all’infrarosso nel 1983. «Ma oltre a essere una delle più luminose stelle del cielo, ha qualcos’altro di speciale?» voleva sapere Joss. «O qualcosa che la |t colleghi alla Terra?» «Beh, in termini di caratteristiche stellari, non ci vedo niente di particolare. Ma c’è un fatto fortuito: Vega era la stella polare circa dodicimila anni fa, e lo sarà di nuovo fra circa quattordicimila anni.» «Pensavo che la stella polare fosse la stella Alfa dell’Orsa minore.» Rankin, che stava ancora scarabocchiando, disse ciò al suo blocco di carta. «Lo è, per alcune migliaia di anni. Ma non per sempre. La Terra è come una trottola in movimento. Il suo asse descrive lentamente un doppio cono avente per vertice il centro della sfera i terrestre.» Ellie cercò di dimostrare la cosa servendosi della sua matita come asse terrestre. «Il fenomeno è definito precessione degli equinozi.» «Scoperto da Ipparco di Rodi,» aggiunse Joss. «Nel secondo I secolo avanti Cristo.» Sembrò sorprendente che ne fosse a cono-; scenza. «Esatto. Allora,» lei proseguì, «una freccia sulla retta centro della Terra-polo Nord punta in direzione della stella che chiamiamo polare, nella costellazione del Piccolo Carro, o Orsa minore. Mi pare che lei abbia fatto riferimento a questa costellazione anche prima del pranzo, signor Rankin. Dal momento che l’asse terrestre compie un lento movimento di precessione, esso punta in diverse direzioni del cielo, non verso la stella polare, e in 26.000 anni circa la regione del cielo verso cui punta il polo nord descrive un cerchio completo. Il polo nord adesso punta molto vicino alla stella polare, abbastanza per essere di utilità alla navigazione. Dodicimila anni fa, per caso, puntava in direzione di Vega. Ma non c’è una connessione fisica. La distribuzione delle stelle nella Via Lattea non ha nulla a che vedere con il fatto che l’asse di rotazione terrestre è inclinato di ventitré gradi e mezzo.» «Allora, se risaliamo a dodicimila anni fa siamo attorno al 10.000 avanti Cristo, quando la civiltà stava proprio prendendo l’avvio. Non è vero?» chiese Joss. «A meno che lei non creda che la Terra sia stata creata nel 4004 avanti Gisto.» «No, noi non lo crediamo, vero fratello Rankin? Solo non pensiamo che l’età della Terra sia conosciuta con la stessa precisione sostenuta da voi scienziati. Sulla questione dell’età della Terra, siamo, come lei direbbe, agnostici.» Sorrise nella maniera più accattivante. «Allora, se le genti stavano navigando diecimila anni fa, veleggiando per il Mediterraneo o per il Golfo Persico, Vega sarebbe stata la loro guida?» «Si era ancora nell’ultima glaciazione. Probabilmente un po’ presto per navigare. Ma i cacciatori che attraversavano il braccio di terra di Bering diretti nel Nord America compivano la loro migrazione in quell’epoca. Deve essere sembrato un dono straordinario — provvidenziale se volete — che una stella così brillante si trovasse esattamente al nord. Scommetterei che moltissimi uomini siano stati debitori della loro vita a una simile coincidenza.» «Benissimo, è una cosa del più grande interesse.» «Non voglio che pensiate che abbia usato la parola ‘provvidenziale’ se non in senso metaforico.» «Non lo penserei mai, mia cara.» Joss ormai stava facendo segno che il pomeriggio volgeva al termine e non sembrava dispiaciuto. Ma c’erano ancora alcuni punti, a quanto pareva, sull’ordine del giorno di Rankin. «Mi meraviglia che lei non creda che sia stata la Divina Provvidenza a far sì che Vega fosse la stella polare. La mia fede è così salda che non ho bisogno di prove, ma ogni volta che si presenta un fatto nuovo, questo non fa semplicemente che confermare la mia fede.» «Bene allora, suppongo che non stesse ad ascoltare molto attentamente ciò che dicevo stamattina. Mi irrita l’idea che si stia partecipando a una sorta di gara di fede, e che lei sia il favorito. Per quanto ne so, lei non ha mai messo alla prova la sua fede. E’ disposto a dare la vita per la sua fede? Io sono disposta a farlo per la mia. Ecco, dia un’occhiata fuori da quella finestra. C’è un grande pendolo di Foucault là fuori. La massa oscillante deve pesare cinquecento libbre. La mia fede dice che l’ampiezza di un pendolo libero — per quanto si discosti oscillando dalla posizione verticale — non può mai aumentare. Può solo diminuire. Sono pronta ad andare là fuori, a collocare il peso davanti al mio naso, a lasciarlo andare, a farlo oscillare avanti e indietro nella mia direzione. Se le mie convinzioni sono errate, mi beccherò sul viso un colpo di cinquecento libbre. Andiamo. Vuole che saggi la mia fede?» «Veramente non è necessario. Le credo,» ribattè Joss. Rankin, tuttavia, sembrava interessato. Stava immaginando, lei suppose, che aspetto avrebbe avuto dopo una simile sberla. «Ma lei sarebbe disposto,» proseguì Ellie, «a stare più vicino di un piede allo stesso pendolo e a pregare Dio di abbreviare l’oscillazione? Che succederebbe se risultasse che si è sbagliato completamente, che ciò che lei va insegnando non è affatto la volontà di Dio? Forse è opera del Diavolo. Forse è una pura invenzione umana. Come può esserne davvero sicuro?» «Fede, ispirazione, rivelazione, timore reverenziale,» rispose Rankin. «Non giudichi gli altri in base alla sua personale e limitata esperienza. Il solo fatto che lei abbia rifiutato il Signore non impedisce che altri ne riconoscano la gloria.» «Guardi, noi tutti abbiamo sete di prodigi. E’ una caratteristica profondamente umana. La scienza e la religione ne sono entrambe permeate. Ciò che sto dicendo è che non si devono inventare storie, che non si deve esagerare. Ci sono meraviglie e timori reverenziali a sufficienza nel mondo reale. La natura è molto più brava di noi a inventare meraviglie.» «Forse noi siamo tutti viandanti sulla strada della verità,» replicò Joss. Su questa nota di speranza, der Heer intervenne abilmente e tra saluti improntati a una cordialità affettata, si prepararono ad andarsene. Lei si chiese se si fosse portato a termine qualcosa di utile. Valerian sarebbe stato molto più efficace e molto meno provocatorio, pensò Ellie, Rimpianse di non essere riuscita a controllarsi meglio. «E’ stata una giornata interessantissima, dottor Arroway, e gliene sono grato.» Joss sembrava di nuovo un po’ distante, cerimonioso ma turbato. Comunque, le strinse la mano calorosamente. Sulla strada che portava all’auto governativa in attesa, accanto a un’esposizione in cui si sprecavano gli ologrammi sull’Errata teoria dell’universo in espansione», un cartello diceva: «Il nostro Dio è vivo e vegeto. Ci dispiace che il vostro non lo sia altrettanto.» Ellie disse sottovoce a der Heer: «Mi rincresce se ho reso il tuo compito più difficile.» «Oh no, Ellie. Sei stata brava.» «Quel Joss è un uomo molto affascinante. Non credo di aver fatto molto per convertirlo. Ma devo dirtelo, è quasi riuscito a convertire me.» Stava scherzando, naturalmente. 11 L’ASSOCIAZIONE MONDIALE PER IL MESSAGGIO «Il mondo è quasi tutto spartito, e quel che ne resta è oggetto di divisioni ulteriori, conquiste e colonizzazioni. E pensare che ci sono le stelle visibili di notte sul nostro capo, quei vasti mondi che non potremo mai raggiungere. Vorrei annettere i pianeti se potessi; ci penso spesso. Mi rende triste vederli così chiari e tuttavia così lontani.»      CECIL RHODES, Ultime volontà e testamento (1902) Dal loro tavolo accanto alla finestra Ellie poteva vedere la pioggia torrenziale flagellare la strada. Un passante bagnato fradicio, con il bavero rialzato, si avventurava frettoloso in quel diluvio. Il proprietario del ristorante aveva arrotolato il tendone a strisce sulle ceste di ostriche, separate a seconda della grandezza e della qualità, che costituivano la specialità della casa. All’interno del locale, il famoso «Chez Dieux» in cui si riuniva la gente di teatro, Ellie si sentiva calda e protetta. Poiché era stato previsto bel tempo, non aveva con sé né impermeabile né ombrello. Vaygay, anche lui in tenuta leggera, introdusse un nuovo argomento: «Amica mia, Meera è una ecdisiaste: questo è il termine preciso, sì? Quando lavora nel tuo paese, si esibisce per gruppi di professionisti a congressi e a convenzioni. Meera dice che quando si toglie i vestiti per uomini della classe operaia — a raduni sindacali o simili — quelli diventano sfrenati, urlano suggerimenti volgari e tentano di salire in palcoscenico. Ma quando da esattamente lo stesso spettacolo per dottori o avvocati, quelli restano seduti immobili. A dire il vero, lei dice, alcuni di loro, si leccano le labbra. Il mio interrogativo è: gli avvocati sono più sani dei metallurgici?» Che Vaygay avesse svariate conoscenze femminili era stato sempre evidente. I suoi approcci con le donne erano così diretti e stravaganti — esclusa lei stessa per una ragione che la lusingava e l’irritava nello stesso tempo — che potevano sempre dire no senza imbarazzo. Molte dicevano di sì. Ma l’accenno a Meera giungeva un po’ inaspettato. Avevano trascorso la mattinata in un ultimo raffronto di note e interpretazioni dei nuovi dati. La trasmissione ininterrotta del Messaggio aveva raggiunto un nuovo importante stadio. Da Vega venivano trasmessi dei diagrammi col sistema delle telefoto usato dai giornali. Ogni immagine era originata da una schiera di impulsi. La quantità di minuscoli punti bianchi e neri che costituivano la foto era il prodotto di due numeri primi. Di nuovo i numeri primi facevano parte della trasmissione. C’era una lunga serie di tali diagrammi, uno di seguito all’altro, e non interfogliati con il testo. Era come una sezione di brillanti illustrazioni inserita in un libro. Dopo la trasmissione della lunga sequenza di diagrammi, l’oscuro testo continuava. Stando almeno ad alcuni dei diagrammi sembrava ovvio che Vaygay e Arkhan-gelskij avessero avuto ragione, che il Messaggio fosse almeno in parte una serie di istruzioni, di progetti per la costruzione di una macchina. Il suo scopo era ignoto. Durante la sessione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio, che si sarebbe tenuta l’indomani all’Eliseo, lei e Vaygay avrebbero presentato per la prima volta alcuni dei dettagli ai rappresentanti delle altre nazioni facenti parte dell’Associazione. Ma la voce dell’ipotesi della macchina si era sparsa sommessamente. Durante il pranzo, Ellie aveva riassunto il suo incontro con Rankin e Joss. Vaygay era stato attento, ma non aveva posto alcuna domanda. Era come se lei avesse confessato qualche indecente predilezione personale e forse ciò aveva scatenato in lui una sequenza di associazioni di idee. «Tu hai un’amica che si chiama Meera che fa la spogliarellista? Su palcoscenici internazionali?» «Da quando Wolfgang Pauli ha scoperto il principio di esclusione mentre assisteva a uno spettacolo delle Folies-Bergère, ho sentito il dovere professionale, come fisico, di visitare Parigi il più sovente possibile. Considero la cosa come un mio omaggio a Pauli. Ma non riesco mai a convincere i funzionari del mio paese ad approvare dei viaggi a questo solo scopo. Di solito devo fare anche un po’ di fisica prosaica. Ma nei posti in cui ho incontrato Meera sono uno studente istintivo in attesa dell’intuizione che consenta una scoperta.» Bruscamente il suo tono di voce passò dal fiorito al realistico. «Meera dice che i professionisti americani sono sessualmente repressi e tormentati da dubbi e sensi di colpa.» «Davvero. E che dice Meera dei professionisti russi?» «Ah, di quella categoria conosce solo me. Perciò, naturalmente, ha una buona opinione. Credo che preferirei stare con Meera domani.» «Ma tutti i tuoi amici saranno all’incontro dell’Associazione,» disse lei allegramente. «Sì, sono felice che tu ci sia,» ribattè Vaygay cupamente. «Che cosa ti sta preoccupando, Vaygay?» Ci mise molto prima di rispondere, e cominciò con una leggera ma inconsueta esitazione. «Forse non preoccupazioni. Forse soltanto inquietudini… Che accadrà se il Messaggio è davvero il progetto di una macchina? Costruiamo la macchina? Chi la costruisce? Tutti insieme? L’Associazione? Le Nazioni Unite? Alcuni stati in competizione? Che succederà se i costi saranno enormi? Chi paga? Perché dovrebbero volerlo fare? Che accadrà se non funziona? La costruzione della macchina potrebbe danneggiare economicamente alcune nazioni? Potrebbe danneggiarle in qualche altro modo?» Senza interrompere il suo profluvio di interrogativi, Lunacarskij vuotò il resto del vino nei loro bicchieri. «Anche se il Messaggio ricomincia da capo e anche se riusciamo a decifrarlo completamente, come sarebbe la qualità della traduzione? Conosci l’opinione di Cervantes? Lui diceva che leggere una traduzione è come esaminare il retro di un arazzo. Forse non è possibile tradurre il Messaggio perfettamente. Allora, non potremmo costruire la macchina perfettamente. Inoltre, siamo davvero sicuri di essere in possesso di tutti i dati? Forse ci sono informazioni essenziali su qualche altra frequenza che non abbiamo ancora scoperto. Sai Ellie, pensavo che si dovrebbe andare molto cauti nella costruzione della macchina. Ma può darsi che domani alcuni dei partecipanti ai lavori ne richiedano l’immediata realizzazione: intendo dire subito dopo aver ricevuto il sillabario e decodificato il Messaggio, presupponendo che ci si riesca. Che cosa proporrà la delegazione americana?» «Non lo so,» rispose lei lentamente. Ma ricordò che poco dopo che il materiale diagrammatico era stato ricevuto, der Heer aveva cominciato a chiedere se fosse probabile che la macchina rientrasse nelle possibilità economiche e tecnologiche della Terra. Lo potè rassicurare ben poco in proposito. Si rammentò di nuovo come fosse apparso preoccupato Ken nelle ultime settimane, talvolta addirittura nervoso. Le sue responsabilità in questa faccenda erano, naturalmente… «Il dottor der Heer e il signor Kitz sono scesi nel tuo hotel?» «No, sono ospiti dell’Ambasciata.» Era sempre così. A causa della natura dell’economia sovietica e della sentita necessità di acquistare tecnologie militari invece di generi di consumo con la loro limitata valuta pregiata, i russi avevano poco denaro a disposizione quando visitavano l’Occidente. Erano obbligati a soggiornare in alberghi di seconda o terza categoria, e persino in camere d’affitto, mentre i loro colleghi occidentali vivevano in un relativo lusso. Era una continua causa di imbarazzo per gli scienziati di entrambi i paesi. Pagare il conto per quel pasto relativamente semplice sarebbe stato facile per Ellie ma gravoso per Vaygay, nonostante la sua posizione relativamente elevata nella gerarchia scientifica sovietica. Adesso, Vaygay a che cosa stava… «Vaygay, vai diritto al punto. Che cosa intendi dire? Credi che Ken e Mike Kitz stiano agendo con troppa fretta?» «‘Diritto’. Una parola interessante; non a destra, né a sinistra, ma progressivamente in avanti. Mi preoccupa il fatto che nei prossimi giorni assisteremo a una prematura discussione sulla costruzione di qualcosa che non abbiamo nessun diritto di costruire. I politici ritengono che noi sappiamo tutto. In realtà, non sappiamo quasi niente. Una situazione simile può essere pericolosa.» Alla fine le fu chiaro che Vaygay si stava assumendo una personale responsabilità per aver prospettato la natura del Messaggio. Se avesse condotto a qualche catastrofe, si angustiava che potesse essere colpa sua. Aveva pure motivi meno personali, naturalmente. «Vuoi che parli con Ken?» «Se pensi che sia conveniente. Hai frequenti opportunità di parlargli, vero?» Lo disse con noncuranza. «Vaygay, non saresti geloso, vero? Credo che ti sia accorto dei miei sentimenti per Ken prima di me. Quando sei ritornato al-l’Argus. Io e Ken siamo stati più o meno insieme durante gli ultimi due mesi. Hai quache riserva da fare?» «Oh no, Ellie. Non sono tuo padre, né un amante geloso. Per te desidero soltanto una grande felicità. E’ solo che vedo tante spiacevoli possibilità.» Ma non si dilungò oltre. Ritornarono alle loro interpretazioni preliminari di alcuni diagrammi, che avevano finito col ricoprire il tavolo. Nel contempo, discussero anche un po’ di politica: del dibattito in America sulle Direttive di Mandela per risolvere la crisi in Sud Africa, e della crescente guerra verbale tra l’Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca. Come sempre, Arroway e Lu-nacarskij si divertivano a parlar male della politica estera dei loro rispettivi paesi. Era di gran lunga più interessante che sparlare della politica estera dell’altrui nazione, cosa che sarebbe stata ugualmente facile da farsi. Durante la loro rituale disputa sulla divisione del conto, Ellie si accorse che l’acquazzone si era trasformato in una pioggia leggera. Ormai, la notizia del Messaggio proveniente da Vega aveva raggiunto ogni angolo e recesso del pianeta Terra. Persone che non sapevano nulla di radiotelescopi e non avevano mai sentito parlare di un numero primo, vennero a conoscenza di una storia bizzarra che riguardava una voce dalle stelle, e stràni esseri — non esattamente uomini, ma neppure dei — che erano stati scoperti nel cielo notturno. Non erano originari della Terra. La stella che era la loro dimora poteva essere vista facilmente anche in una nottata di plenilunio. In mezzo alla frenesia di commenti settari che non accennava a placarsi, c’era anche — in tutto il mondo appariva ora evidente — un senso di meraviglia e persino di timore reverenziale. Qualcosa di sconvolgente, qualcosa di quasi miracoloso stava avvenendo. L’aria era piena di possibilità, aleggiava un senso di nuovo inizio. «L’umanità è stata promossa alla scuola superiore,» aveva scritto l’editorialista di un giornale americano. C’erano altri esseri intelligenti nell’universo. Si poteva comunicare con loro. Erano probabilmente più vecchi di noi, forse più saggi. Ci stavano mandando volumi di complesse informazioni. C’era una diffusa attesa di un’imminente rivelazione secolare. Allora gli specialisti di ogni materia cominciarono a preoccuparsi. I matematici si preoccupavano delle scoperte elementari che potevano esser loro sfuggite. I capi religiosi si preoccupavano che i valori spirituali di Vega, per quanto alieni, potessero trovare presto dei proseliti, specialmente fra i giovani ignoranti. Gli astronomi si preoccupavano che ci potessero essere dei principi fondamentali riguardanti le stelle vicine su cui si fossero sbagliati. I politici e i capi di governo si preoccupavano che qualche altro sistema di governo, completamente diverso da quelli vigenti, potesse essere ammirato da una civiltà superiore. Qualunque cosa gli abitanti di Vega conoscessero non era stata influenzata da istituzioni, storia o biologia umane. Che sarebbe accaduto se gran parte di ciò che riteniamo vero fosse stato un equivoco, un caso speciale, un errore di logica? Gli esperti cominciarono ansiosamente a ricontrollare i fondamenti delle loro materie. Oltre a questa ristretta inquietudine professionale, c’era la formidabile, crescente percezione di una nuova avventura per il genere umano, di una svolta, di un’irruzione in una nuova età: un simbolismo potentemente amplificato dalPawicinarsi del terzo millennio. C’erano ancora dei conflitti politici, alcuni dei quali — come la persistente crisi sudafricana — piuttosto seri. Ma c’era anche un notevole declino in molte parti del mondo di retorica sciovinista e di puerile nazionalismo autocelebratore. C’era la sensazione che l’umana specie, bilioni di minuscoli esseri sparsi per il mondo, avesse avuto in dono un’opportunità senza precedenti, ma anche un grave pericolo comune. A molti sembrava assurdo che gli stati in lotta continuassero le loro mortali contese quando si trovavano di fronte a una civiltà non umana di ben più grandi possibilità. C’era un soffio di speranza nell’aria. Alcuni ne avevano perso l’abitudine e la scambiarono per qualcos’altro: confusione, forse, o vigliaccheria. Per decenni, dopo il 1945, la riserva mondiale di armi strategiche nucleari era costantemente aumentata. I leader cambiavano, i sistemi di armi cambiavano, la strategia cambiava, ma il numero delle armi strategiche cresceva soltanto. Venne il tempo in cui ce n’erano più di 25.000 sul pianeta, dieci per ogni metropoli. La tecnologia stava velocemente evolvendosi, incentivando l’ottica del primato militare, l’essere i primi a colpire o, così veniva detto, a contrattaccare. Soltanto un così colossale pericolo poteva annientare una così colossale stupidità, alimentata da tanti leader in tante nazioni per tanto tempo. Ma alla fine il mondo rinsavì, almeno sino a un certo punto, e fu firmato un accordo tra Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina. Non si prefiggeva di liberare il mondo dalle armi nucleari. Pochi si aspettavano che trascinasse qualche Utopia sulla sua scia. Ma gli americani e i russi si impegnarono a ridurre i loro arsenali strategici a mille armi nucleari ciascuno. I particolari vennero attentamente vagliati affinchè nessuna delle due superpotenze si trovasse in posizione di svantaggio nelle varie fasi delle operazioni di disarmo. La Gran Bretagna, la Francia e la Cina si trovarono d’accordo nel cominciare a ridurre i loro arsenali una volta che le superpotenze fossero scese sotto le 3.200 unità. Vennero firmati gli Accordi di Hiroshima, tra l’esultanza generale, vicino alla famosa placca commemorativa per le vittime della prima città cancellata da un’arma nucleare: «Riposate in pace e che non accada mai più.» Ogni giorno gli elementi fissionabili asportati da un egual numero di testate americane e russe venivano consegnati a una base speciale diretta da tecnici statunitensi e russi. Il plutonio veniva estratto, registrato, sigillato e trasportato da squadre di entrambi i paesi in centrali nucleari dove veniva consumato e convertito in elettricità. Questo piano, chiamato Gayler dal nome di un ammiraglio americano, venne salutato ovunque come il non plus ultra per trasformare le spade in vomeri. Poiché ogni nazione possedeva ancora un potenziale bellico devastante, anche i militari alla fine ne furono soddisfatti. I generali, come chiunque altro, non desideravano certo la morte dei loro figli, e la guerra nucleare è la negazione delle virtù militari convenzionali: è difficile trovare un gran valore nel premere un bottone. La cerimonia del primo disinnesco — trasmessa in diretta e replicata molte volte — ebbe come protagonisti alcuni tecnici americani e russi in camice bianco che spingevano due di quegli oggetti metallici di color grigio scuro, ognuno grande come un divano e variamente decorati con stelle e strisce, falci e martelli. La trasmissione fu vista da una percentuale altissima della popolazione mondiale. I telegiornali serali informavano con regolarità sul numero delle armi strategiche che erano state disinnescate da entrambe le parti e sul numero di quelle che dovevano essere ancora smontate. Di lì a poco più di due decenni, anche tale notizia avrebbe raggiunto Vega. Negli anni seguenti, il disarmo continuò, quasi senza intoppi. Da principio venne consegnato il sovrappiù degli arsenali, con un modesto cambiamento nella dottrina strategica; ma ora le riduzioni cominciavano a farsi sentire e i sistemi di armi più destabilizzanti venivano smantellati. Era qualcosa che gli esperti avevano definito impossibile e dichiarato «contrario alla natura umana». Ma una sentenza di morte, come aveva osservato Samuel Johnson, riesce a far concentrare la mente in maniera prodigiosa. Negli ultimi sei mesi, il disarmo nucleare da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica aveva compiuto nuovi e più importanti passi in avanti, con la decisione di dare il via a controlli regolari effettuati da squadre di tecnici di entrambe le nazioni che dovevano agire l’una sul territorio dell’altra, nonostante la disapprovazione e la preoccupazione manifestate pubblicamente dagli staff militari di entrambi i paesi. Le Nazioni Unite si trovarono a mediare, con risultati inaspettatamente positivi, alcuni contrasti internazionali, giungendo alla risoluzione delle guerre di confine Cile-Argentina e Irak-Iran. Corse anche voce, non del tutto priva di fondamento, di un trattato di non aggressione stipulato tra la NATO e il Patto di Varsavia. I delegati che giungevano alla prima sessione plenaria dell’Associazione Mondiale per il Messaggio erano inclini a una cordialità che non trovava paragoni negli ultimi decenni. Ogni nazione, in possesso anche soltanto di frammenti del Messaggio, era rappresentata da inviati scientifici e politici; un numero sorprendente di paesi inviò pure delle rappresentative militari. In alcuni casi, le delegazioni nazionali erano guidate dai ministri degli esteri o addirittura dai capi di stato. La delegazione del Regno Unito includeva il visconte di Boxforth, lord del Sigillo Privato, una carica onorifica che Ellie trovava personalmente comica. La delegazione sovietica era capeggiata da B. Ya. Abukhimov, presidente dell’Accademia Sovietica delle Scienze, con Gotsridze, il ministro dell’Industria semipesante, e Arkhangelskij che rivestivano ruoli significativi. La Presidente degli Stati Uniti aveva insistito perché fosse der Heer a capeggiare la delegazione americana, sebbene questa includesse il Sottosegretario di Stato Elmo Honicutt e Michael Kitz, tra gli altri, per il Dipartimento della Difesa. Una grande e complessa carta in proiezione equiareale mostrava la disposizione dei radiotelescopi sul pianeta, comprese le navi russe per l’intercettazione. Ellie diede un’occhiata alla sala delle conferenze ultimata da poco, vicina agli uffici e alla residenza del presidente francese. Al secondo anno del suo mandato settennale, questi stava facendo ogni sforzo per garantire il successo dell’incontro. Una moltitudine di facce, di bandiere, di abiti nazionali veniva riflessa dai lunghi tavoli di mogano lucido e dalle pareti ricoperte di specchi. Riconobbe alcuni dei politici e dei militari, ma in ogni delegazione sembrava esserci almeno uno scienziato o un ingegnere che le erano familiari: Annunziata e lan Broderick per l’Australia; Fedirka per la Cecoslovacchia; Braude, Crebillon e Boileau per la Francia; Kumar Chandrapurana e Devi Sukhavati per l’India; Hironaga e Matsui per il Giappone… Ellie riflette sul forte background tecnologico più che radioastronomico di molti dei delegati, specialmente dei giapponesi. L’idea che la costruzione di una grande macchina potesse essere sull’ordine del giorno di quell’incontro aveva motivato dei cambiamenti dell’ultimo minuto nella composizione delle delegazioni. Ellie riconobbe anche l’italiano Malatesta; Badenbaugh, un fisico che si era dato alla politica, Clegg, e il venerando sir Arthur Chatos che stavano chiacchierando dietro una di quelle bandierine inglesi che si possono trovare sui tavoli dei ristoranti nelle località turistiche europee; lo spagnolo Jaime Ortiz; Prebula della Svizzera, fatto strano, dal momento che la confederazione elvetica non possedeva, per quanto lei ne sapeva, neppure un radiotelescopio; Bao, che era riuscito brillantemente a mettere insieme la schiera di radiotelescopi cinesi; Wintergaden della Svezia. C’erano delegazioni sorprendentemente numerose dell’Arabia Saudita, del Pakistan e dell’Irak; e, naturalmente, i russi, tra cui Nadya Rozhdestvenskaya e Genrikh Arkhangelskij che stavano condividendo un momento di genuina ilarità. Ellie cercò con lo sguardo Lunacarskij e finalmente lo individuò tra la delegazione cinese. Stava stringendo la mano a Yu Renqiong, il direttore del radio osservatorio di Beijing. Le venne in mente che i due uomini erano stati amici e colleghi durante il periodo della cooperazione cino-sovietica. Ma le ostilità tra le loro due nazioni avevano posto fine a ogni contatto tra di loro, e le restrizioni cinesi sui viaggi all’estero dei loro più importanti scienziati erano ancora severe quasi quanto le limitazioni sovietiche. Si rese conto di essere testimone del loro primo incontro dopo quasi venticinque anni. «Chi è quel vecchio cinese cui Vaygay sta stringendo la mano?» Questo era, per Kitz, un tentativo di essere cordiale. Aveva fatto piccole avances di questo tipo negli ultimissimi giorni: un’evoluzione che secondo lei non prometteva nulla di buono. «E’ Yu, il direttore dell’osservatorio di Beijing.» «Pensavo che quei due si odiassero a morte.» «Michael,» disse lei, «il mondo è migliore e peggiore di quel che lei possa immaginare.» «Può probabilmente battermi sul ‘migliore’,» replicò lui, «ma non può essere alla mia altezza sul ‘peggiore’.» Dopo il discorso di benvenuto del presidente francese (che, inaspettatamente rimase ad ascoltare le presentazioni di apertura) e una discussione sulla procedura e sull’ordine del giorno di der Heer e Abukhimov in vesti di copresidenti della conferenza, Ellie e Vaygay insieme riassunsero i dati. Fecero quelle che erano ormai le presentazioni tipo — non troppo tecniche, per la presenza di politici e di militari — del funzionamento e del lavoro dei radiotelescopi, della distribuzione delle stelle vicine nello spazio, e della storia del palinsesto del Messaggio. La loro presentazione in tandem si concluse con uno studio, che apparve sui monitor davanti a ogni delegazione, del materiale diagrammatico ricevuto di recente. Ellie fu scrupolosa nel mostrare come la modulazione di polarizzazione fosse stata convertita in una sequenza di zeri e di unità, come gli zeri e le unità si combinassero insieme a formare un’immagine e come nella maggior parte dei casi essi non avessero la benché minima idea di ciò che l’immagine poteva significare. I punti dei dati si raggruppavano sugli schermi degli elaboratori. Poteva vedere i volti illuminati di bianco, di giallo intenso e di verde dai monitor nella sala che era stata adesso parzialmente oscurata. I diagrammi mostravano intricate reti ramificate; forme biologiche dalle protuberanze quasi indecenti; un dodecaedro regolare perfettamente formato. Una lunga serie di pagine era stata riunita in una costruzione tridimensionale elaboratamente dettagliata, che ruotava lentamente. Ogni enigmatico oggetto era accompagnato da una didascalia incomprensibile. Vaygay sottolineò le incertezze con un’insistenza addirittura maggiore della sua. Tuttavia, egli riteneva, con una certa sicurezza ormai, che il Messaggio fosse un manuale per la costruzione di una macchina. Tralasciò di dire che l’idea che il Messaggio fosse un progetto era stata originariamente sua e di Arkhangelskij ed Ellie colse l’opportunità di riparare alla sua trascuratezza. Negli ultimi mesi Ellie aveva parlato dell’argomento a sufficienza per sapere che il pubblico scientifico e comune restava spesso affascinato dai dettagli della decifrazione del Messaggio, e stuzzicato dal concetto di sillabario che doveva ancora essere dì-mostrato. Ma era impreparata alla reazione di questo pubblico che si sarebbe detto serio ed equilibrato. Lei e Vaygay avevano fatto le loro presentazioni in perfetta armonia. Quand’ebbero finito, ci fu un prolungato scroscio di applausi. I russi e le delegazioni dell’Europa orientale applaudirono all’unisono, con una frequenza di circa due o tre battimani ogni battito cardiaco. Gli americani e molti altri applaudirono separatamente, e i loro battimani non sincronizzati erano simili a un turbine di rumore bianco che si sprigionasse dai presenti. Travolta da un inconsueto tipo di gioia, non riuscì a non pensare alle differenze di carattere nazionale: gli americani individualisti, e i russi impegnati in uno sforzo collettivo. Inoltre, si ricordò come gli americani quando si trovano in un assembramento cerchino di stare il più lontano possibile dai loro simili, mentre i russi hanno la tendenza a restare più vicini che possono. Entrambi gli stili di applausi, con una chiara predilezione per quello americano, le facevano piacere. Per un attimo soltanto si autorizzò a pensare al suo patrigno. E a suo padre. Dopo la pausa del pranzo, ci fu una serie di altre presentazioni sulla raccolta dei dati e la loro interpretazione. David Drumlin procedette a un esame straordinariamente accurato e competente di un’analisi statistica cui aveva sottoposto di recente tutte le precedenti pagine del Messaggio che si riferivano ai nuovi diagrammi numerati. Egli dimostrò che il Messaggio conteneva non solo un progetto per la costruzione di una macchina ma anche le descrizioni dei disegni e i metodi di realizzazione dei suoi componenti e subcomponenti. In alcuni casi, egli pensava, c’erano descrizioni di industrie totalmente nuove, non ancora conosciute sulla Terra. Ellie, a bocca aperta, puntò il dito contro Drumlin, chiedendo con lo sguardo a Valerian se ne avesse saputo qualcosa. Con le labbra contratte, Valerian alzò le spalle e girò le palme delle mani in su. Ellie passò in rassegna i volti degli altri delegati per leggervi un qualche segno di emozione, ma poteva scoprirvi soprattutto tracce di stanchezza; l’osticità del materiale tecnico e la necessità, prima o poi, di prendere delle decisioni politiche stavano già producendo una certa tensione sui partecipanti. Dopo la seduta, Ellie si complimentò con Drumlin per l’interpretazione data ma gli chiese anche perché fino a quel momento non ne avesse sentito parlare. Egli rispose prima di allontanarsi: «Oh, non pensavo che fosse abbastanza importante per venire a scomodarti. Si tratta di piccolezze di cui mi sono occupato mentre tu eri via a consultare quei fanatici religiosi.» Se Drumlin fosse stato il relatore della sua tesi, lei avrebbe dovuto ancora conseguire il suo dottorato in fisica, pensò. Non era mai riuscito ad accettarla del tutto. Non avrebbero mai condiviso un rapporto cordiale da college. Sospirando, si chiese se Ken fosse stato a conoscenza del nuovo lavoro di Drumlin. Ma come co-presidente della conferenza, der Heer era seduto con il suo collega sovietico su una pedana rialzata di fronte ai posti per. i delegati disposti a ferro di cavallo. Era, come lo era stato per settimane, quasi inaccessibile. Drumlin non era obbligato a discutere le sue scoperte con lei, naturalmente; sapeva che entrambi erano stati troppo assorbiti dal lavoro recentemente. Ma quando parlava con lui, perché era sempre accomodante, e polemica solo nei casi estremi? Una parte di lei evidentemente sentiva che il conferimento del suo dottorato e l’opportunità di continuare nella sua scienza erano ancora future possibilità riposte saldamente nelle mani di Drumlin. La mattina del secondo giorno, fu data la parola a un delegato sovietico, che le era sconosciuto. «Stefan Alexeivic Baruda», diceva la scheda biografica sullo schermo del suo elaboratore, «direttore dell’Istituto per gli studi per la pace, dell’Accademia Sovietica delle Scienze, Mosca; membro del Comitato centrale del Partito comunista dell’URSS.» «Adesso cominciamo a giocare duro,» sentì dire da Michael Kitz a Elmo Honicutt del Dipartimento di Stato. Baruda era un uomo vivace, che indossava un abito da uomo d’affari occidentale, dal taglio elegante, forse italiano, all’ultima moda. Il suo inglese era scorrevole e quasi privo di accento. Era nato in una delle repubbliche baltiche, ed era piuttosto giovane per essere alla testa di un’organizzazione così importante — costituita per studiare le implicazioni a lunga scadenza per la politica strategica di riduzione delle armi nucleari — ed era un esempio di primo piano della new wave nella leadership sovietica. «Siamo franchi,» stava dicendo Baruda. «Ci stanno inviando un Messaggio dalle profondità dello spazio. La maggior parte delle informazioni sono state raccolte dall’Unione Sovietica e da-j gli Stati Uniti. Parti essenziali sono state captate anche da altri paesi, che sono rappresentati tutti a questa conferenza. Ciascuna: nazione — l’Unione Sovietica, per esempio — potrebbe aver attesa che il Messaggio si ripetesse parecchie volte, come noi tutti speriamo che avvenga, ed entrare in possesso in tal modo dei molti pezzi mancanti. Ma la cosa avrebbe richiesto degli anni, forse decenni, e noi siamo un po’ impazienti. Perciò noi tutti abbiamo condiviso i dati. Ogni nazione — l’Unione Sovietica, per esempio — potrebbe collocare in orbita attorno alla Terra grandi radiotelescopi con sensibili ricevitori funzionanti sulle frequenze del Messaggio. Anche gli americani potrebbero farlo. Forse pure il Giappone, o la Francia o l’Agenzia spaziale europea. Allora ogni nazione da sola potrebbe venire in possesso di tutti i dati, perché nello spazio un radiotelescopio può puntare su Vega continuamente. Ma questo potrebbe essere giudicato un atto ostile. Non è un segreto che gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica sarebbero in grado di abbattere tali satelliti. Perciò, forse anche per questa ragione, tutti noiAabbiamo condiviso i dati. E meglio cooperare. I nostri scienziati desiderano scambiare non solo i dati che hanno raccolto, ma anche le loro speculazioni, le loro congetture, i loro… sogni. Voi scienziati siete tutti simili a questo riguardo. Io non sono uno scienziato. La mia specializzazione è il governo. Perciò so che anche le nazioni si assomigliano. Ogni nazione è cauta. Ogni nazione è sospettosa. Nessuno di noi concederebbe un vantaggio a un potenziale avversario se potessimo evitarlo. E allora ci sono state due opinioni — forse di più, ma almeno due — una che consiglia lo scambio di tutti i dati, e un’altra che consiglia ogni nazione di cercare di ottenere un vantaggio sulle altre. ‘Potete star sicuri che l’altra parte sta cercando qualche vantaggio’, si dice. Avviene lo stesso nella maggior parte dei paesi. Gli scienziati hanno avuto la meglio in questo dibattito. Così, per esempio, la maggior parte dei dati — voglio sottolineare il fatto che non sono tutti — acquisiti dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica sono stati scambiati. La maggior parte dei dati provenienti da tutti gli altri paesi sono stati scambiati in tutto il mondo. Siamo felici di aver preso questa decisione.» Ellie sussurrò a Kitz: «Questo non mi sembra ‘giocar duro’.» «Resti sintonizzata,» le sussurrò di rimando. «Ma ci sono altri tipi di pericoli. Noi vorremmo ora sottoporne uno all’attenzione dell’Associazione.» Il tono di Baruda le fece venire in mente quello di Vaygay durante il pranzo di alcuni giorni prima. Qual era l’idea che ronzava in testa ai russi? «Abbiamo ascoltato l’accademico Lunacarskij, il dottor Arroway e altri scienziati affermare concordemente che stiamo ricevendo le istruzioni per costruire una macchina complessa. Supponiamo che, come ognuno sembra aspettarsi, la fine del Messaggio arrivi; che il Messaggio riparta dall’inizio, e che noi riceviamo l’introduzione o — il termine inglese è ‘sillabario’? — il sillabario che ci consenta di leggere il Messaggio. Supponiamo anche che si continui a cooperare in pieno, noi tutti. Ci scambiamo tutti i dati, tutte le fantasie, tutti i sogni. Ora, gli esseri di Vega non ci stanno inviando queste istruzioni per il loro divertimento. Vogliono che noi costruiamo una macchina. Forse vogliono dirci a che cosa dovrebbe servire la macchina. Forse no. Ma anche se lo faranno, perché dovremmo credere loro? Lascio galoppare la mia fantasia, svelo il mio sogno, che non è un bel sogno. Che accadrebbe se questa macchina fosse un cavallo di Troia? Costruiamo la macchina spendendo una fortuna, la mettiamo in funzione e improvvisamente ne esce un’armata di invasori. O che accadrebbe se si trattasse di una macchina da Giudizio Universale? La costruiamo, la facciamo funzionare, e la Terra scoppia. Forse questo è il loro modo di sopprimere le civiltà che stanno appena emergendo nel cosmo. Non costerebbe loro molto; pagano solo per un telegramma, e la civiltà, che ha appena cominciato a progredire, ubbidientemente distrugge se stessa. Quello che sto per chiedervi è solo un suggerimento, un argomento del giorno. Lo sottopongo alla vostra considerazione. Intendo che sia costruttivo. Su questo punto, tutti dividiamo lo stesso pianeta, tutti abbiamo gli stessi interessi. Non c’è dubbio che sarò troppo schietto. Ecco la mia domanda: non sarebbe meglio bruciare i dati e distruggere i radiolescopi?» Ne seguì una grande confusione. Molte delegazioni chiesero simultaneamente che venisse data loro la parola. Invece, i co-presidenti della conferenza sembravano soprattutto impegnati a rammentare ai delegati che le sedute non dovevano essere registrate in alcun modo. Non si doveva concedere nessuna intervista ai giornali. Ci sarebbero stati dei comunicati stampa quotidiani, concordati dai co-presidenti della conferenza e dai capi delle delegazioni. Anche gli aspetti procedurali della discussione dovevano restare entro quelle pareti. Parecchi delegati chiesero chiarimenti alla presidenza. «Se Baruda ha ragione a proposito di un cavallo di Troia o di una macchina da Giudizio Universale,» gridò un delegato olandese, «non è nostro dovere informare il pubblico?» Ma non gli era stata data la parola e il suo microfono non era stato attivato. Passarono ad altre, più urgenti, questioni. Ellie aveva pestato in fretta i tasti del terminale dell’elaboratore di servizio che aveva davanti, per essere una delle prime a poter prendere la parola. Scoprì di essere stata messa in lista per seconda, dopo Sukhavati e prima di un delegato cinese. Ellie conosceva superficialmente Devi Sukhavati. Era una donna maestosa sui quarantacinque anni, pettinata all’occidentale, con sandali a tacco alto e un magnifico sari di seta. Dopo essere stata medico, era diventata uno dei principali esperti indiani in biologia molecolare e ora divideva il suo tempo tra il King’s College di Cambridge e il Tata Institute di Bombay. Era una delle poche persone del suo paese a far parte della Royal Society di Londra e si diceva che fosse ben piazzata politicamente. Si erano incontrate l’ultima volta alcuni anni prima, a un simposio internazionale a Tokyo, prima che la ricezione del Messaggio avesse eliminato gli inevitabili punti interrogativi nei titoli di alcuni dei loro articoli scientifici. Ellie aveva sentito una reciproca affinità tra loro, dovuta solo in parte al fatto che erano tra le poche donne partecipanti a congressi scientifici sulla vita extraterrestre. «Devo ammettere che l’accademico Baruda ha sollevato una questione importante e delicata,» cominciò a dire Sukhavati, «e sarebbe assurdo scartare l’eventualità del cavallo di Troia senza pensarci due volte. Tenuto conto di gran parte della storia recente, è un’idea che sorge spontanea e mi sorprende che ci sia voluto tanto perché venisse presa in considerazione. Tuttavia, vorrei mettere in guardia da tali paure. E’ improbabile al massimo che gli esseri su un pianeta della stella Vega siano esattamente al nostro livello di progresso tecnologico. Anche sul nostro pianeta, le culture non si evolvono a ranghi serrati. Alcune cominciano prima, altre dopo. Riconosco che alcune culture possono mettersi in pari almeno dal punto di vista tecnologico. Quando c’erano civiltà progredite e raffinate in India, in Cina, in Irak e in Egitto, c’erano, nel migliore dei casi, nomadi dell’età del ferro in Europa e in Russia e culture dell’età della pietra in America. Ma i divari tecnologici saranno di gran lunga più grandi nelle presenti circostanze. Gli extraterrestri sono probabilmente molto più avanti di noi, certamente più di alcune centinaia di anni: torse migliaia, o addirittura milioni. Ora, io vi domando di confrontare ciò con il ritmo dell’avanzamento tecnologico umano dell’ultimo secolo. Sono cresciuta in un piccolo villaggio dell’India meridionale. Ai tempi di mia nonna la macchina per cucire a pedale era una meraviglia della tecnica. Di che cosa potrebbero essere capaci degli esseri che sono migliaia di anni avanti di noi? O milioni? Come ha detto una volta un filosofo nella nostra parte del mondo: ‘I prodotti di una civiltà extraterrestre sufficientemente avanzata sarebbero indistinguibili dalla magia’. Noi non possiamo costituire assolutamente una minaccia per loro. Non hanno nulla da temere da parte nostra, e sarà così per moltissimo tempo. Non si tratta di un confronto tra Greci e Troiani, che erano sullo stesso livello. Questo non è un film di fantascienza in cui creature originarie di differenti pianeti combattono con armi simili. Se desiderano distruggerci, lo possono certamente fare con o senza la nostra eco…» «Ma a quale prezzo?» l’interruppe qualcuno dalla sala. «Non capite? Questo è il punto. Baruda dice che le nostre trasmissioni televisive costituiscono per loro il segnale che è venuto il momento di distruggerci, e il Messaggio ne è il mezzo. Le spedizioni punitive sono costose. Il Messaggio è economico.» Ellie non riuscì a individuare chi avesse fatto questo intervento. Sembrava fosse qualcuno della delegazione britannica. Le sue osservazioni non erano state amplificate dal sistema audio perché ancora una volta la Presidenza non aveva concesso la parola all’oratore. Ma l’acustica nella sala delle conferenze era abbastanza buona perché lo si fosse potuto udire perfettamente. Der Heer, alla Presidenza, cercava di mantenere l’ordine. Abukhimov si piegò in avanti e sussurrò qualcosa a un assistente. «Lei pensa che ci sia un pericolo nel costruire la macchina,» Sukhavati ribattè. «Io penso che ci sia un pericolo nel non costruire la macchina. Mi vergognerei del nostro pianeta se voltassimo le spalle al futuro. I suoi antenati» — Devi puntò un dito in dirczione del suo interlocutore — «non erano così pavidi quando salparono per la prima volta per l’India o per l’America.» Questo convegno promette di riservare molte sorprese, pensò Ellie, benché dubitasse che Clive o Raleigh potessero essere gli esempi più appropriati per la decisione che si doveva prendere in quell’occasione. Forse Sukhavati stava soltanto punzecchiando gli inglesi per i passati misfatti coloniali. Ellie attendeva che si accendesse la luce verde sulla sua consolle per indicare che il suo microfono era in funzione. «Signor Presidente.» Con questo tono formale e pubblico, che le era venuto quasi spontaneo, Ellie si rivolse a der Heer, che non era riuscita quasi a vedere negli ultimi giorni. Avevano organizzato di trascorrere assieme il pomeriggio dell’indomani durante una pausa dei lavori e si chiedeva leggermente ansiosa di che cosa avrebbero parlato. Ahi, preoccupazione fuori luogo, pensò. «Signor Presidente, credo che si possa fare un po’ di luce su queste due questioni: il cavallo di Troia e la macchina del Giudizio Universale. Avevo l’intenzione di discuterne domattina, ma sembra proprio che sia pertinente parlarne adesso.» Ellie battè sulla sua consolle i numeri di codice per alcune delle sue diapositive. La grande sala dalle pareti ricoperte di specchi si oscurò. «Il dottor Lunacarskij e io siamo convinti che queste siano differenti proiezioni della stessa configurazione tridimensionale. Ieri, abbiamo mostrato l’intera configurazione in una rotazione simulata dall’elaboratore. Noi riteniamo, benché non ne possiamo essere sicuri, che questo sia l’aspetto dell’interno della macchina. Fino a ora, non c’è nessuna chiara indicazione di scala. Forse è larga un chilometro, forse è submicroscopica. Ma notate questi cinque oggetti posti a intervalli regolari attorno all’orlo della principale camera interna, entro il dodecaedro. Ecco un primo piano di uno di essi. Sono le uniche cose presenti nella camera che abbiano un aspetto riconoscibile. Sembra essere una comune poltrona superimbottita, perfettamente configurata per un essere umano. E’ molto improbabile che creature extraterrestri, evolutesi su un altro mondo completamente diverso, ci somiglino abbastanza per condividere le nostre preferenze in fatto di arredamento da stanza di soggiorno. Ecco, guardate questo primo piano. Assomiglia a qualcosa che si trovava nel ripostiglio di mia madre quando ero adolescente.» Infatti sembrava quasi che avesse delle fodere a fiori. Si sentì un po’ in colpa. Aveva trascurato di telefonare a sua madre prima di partire per l’Europa, e, a dire la verità, l’aveva chiamata soltanto una o due volte da quando il Messaggio era stato ricevuto. Ellie, come puoi? Si mosse un rimprovero. Guardò di nuovo i disegni fatti dall’elaboratore. La simmetria delle facce pentagonali del dodecaedro si rifletteva nelle cinque poltrone interne, ognuna posta di fronte a una superficie pentagonale. «Perciò, è nostra opinione — del dottor Lunacarskij e mia — che le cinque poltrone siano destinate a noi, agli uomini. Questo significherebbe che la camera interna della macchina è larga solamente pochi metri, e che l’esterno forse dieci o venti metri. La tecnologia è indubbiamente formidabile, ma non pensiamo di stare parlando di costruire qualcosa delle dimensioni di una città. O della stessa complessità di una portaerei. Possiamo benissimo essere in grado di costruire la macchina, se lavoriamo tutti insieme. Quello che sto cercando di far capire è che non si collocano delle poltrone all’interno di una bomba. Io non credo si tratti di una Macchina del Giudizio Universale o di un cavallo di Troia. Sono d’accordo con quanto detto dal dottor Sukhavati, o forse solo sottinteso; l’idea che si tratti di un cavallo di Troia è un’indicazione implicita di quanta strada si debba ancora percorrere.» Di nuovo ci fu una violenta interruzione. Ma questa volta der Heer non fece nulla per porvi fine; anzi, accese il microfono del contestatore. Era lo stesso delegato che aveva interrotto Sukhavati pochi minuti prima, Philip Bedenbaugh del Regno Unito, un ministro del Partito Laburista dell’instabile coalizione governativa. «… semplicemente non capisce qual è la nostra preoccupazione. Se fosse letteralmente un cavallo di legno, non saremmo tentati di portare il congegno alieno entro le porte della città. Abbiamo letto il nostro Omero. Ma ricopriamolo con un po’ di stoffa colorata e i nostri sospetti vengono dissipati. Perché? Perché veniamo lusingati. O sedotti. C’è la prospettiva di un’avventura storica. C’è la promessa di nuove tecnologie. C’è l’idea di essere accettati da — come dirlo? — esseri più grandi. Ma io affermo, a dispetto di tutte le nobili fantasie che i radioastronomi possano nutrire, che se c’è anche una minima possibilità che la macchina sia un mezzo di distruzione, non dovrebbe essere costruita. Meglio, come ha proposto il delegato sovietico, bruciare i nastri con i dati e considerare la costruzione di radiotelescopi un delitto capitale.» La seduta stava facendosi turbolenta. Una gran quantità di delegati si stavano mettendo in lista elettronicamente per avere l’autorizzazione a parlare. La confusione crebbe fino a diventare un rombo continuo che fece venire in mente a Ellie gli anni di ascolto delle scariche statiche radioastronomiche. Non sembrava che si sarebbe giunti prontamente a un accordo e i co-presidenti erano chiaramente incapaci di tenere a freno i delegati. Quando il delegato cinese si alzò in piedi per prendere la parola, i dati che lo riguardavano tardavano ad apparire sullo schermo di Ellie che si guardò intorno in cerca di aiuto. Non sapeva neppure chi fosse quell’uomo. Nguyen «Bobby» Bui, un membro del National Security Council ora assegnato a der Heer, si chinò su lei e disse: «Il suo nome è Xi Qiaomu, scritto ics i, pronunciato sci. Grosso personaggio. Nato al tempo della Lunga Marcia. Volontario in Corea quando era ancora adolescente. Funzionario governativo, soprattutto politico. Silurato subito durante la Rivoluzione culturale. Ora membro del Comitato centrale. Molto influente. Recentemente, è stato sui giornali. Dirige anche gli scavi archeologici cinesi.» Xi Qiaomu era un uomo alto, dalle spalle larghe, sulla sessantina. Le rughe che aveva in viso lo facevano sembrare più vecchio, ma il suo portamento e il suo fisico gli conferivano un aspetto quasi giovanile. Indossava la giacca abbottonata sino al colletto di prammatica per i leader politici cinesi come lo erano i vestiti a tre pezzi per i leader governativi americani, fatta eccezione, naturalmente, per la Presidente. I dati relativi a Xi erano arrivati adesso sulla sua consolle e si ricordò di aver letto un lungo articolo su Xi Qiaomu in una delle videoriviste. «Se siamo spaventati,» stava dicendo, «non faremo nulla. Questo ritarderà un po’ i loro piani. Ma ricordate, sanno che siamo qui. La nostra televisione arriva al loro pianeta. Ogni giorno sono costretti ad averci in mente. Avete guardato i nostri programmi televisivi? Non ci dimenticheranno. Se non facciamo nulla e se si preoccupano di noi, verranno da noi, macchina o non macchina. Non possiamo nasconderei da loro. Se fossimo rimasti tranquilli, non dovremmo fronteggiare questo problema. Se avessimo soltanto la televisione via cavo e nessun grande radar militare, allora forse non saprebbero nulla di noi. Ma adesso è troppo tardi. Non possiamo tornare indietro. Il nostro destino è segnato. Se avete seriamente paura che questa macchina possa distruggere la Terra, non costruitela sulla Terra. Costruitela da qualche altra parte. Allora, se è una Macchina da Giudizio Universale e fa saltare per aria un mondo… non si tratterà del nostro. Ma ciò sarà molto costoso, probabilmente troppo costoso. O se non siamo così spaventati, costruiamola in qualche remoto deserto. Si potrebbe avere una terribile esplosione nella zona desertica di Takopi nella provincia di Xinjing senza provocare la morte di nessuno. E se non abbiamo affatto paura, possiamo costruirla a Washington. O a Mosca. O a Beijing. O in questa bella città. Nell’antica Cina, Vega e le due stelle vicine erano chiamate Chih Neu. Che significa la giovane donna con il filatoio. E’ un simbolo augurale, una macchina per fare nuove vesti alla popolazione della Terra. Abbiamo ricevuto un invito. Un invito molto inconsueto. Forse si tratta di andare a un banchetto. La Terra non è mai stata invitata a un banchetto, prima d’ora. Sarebbe da maleducati rifiutare. 12 L’ISOMERO UNO-DELTA «Contemplare le stelle mi fa sempre fantasticare, come fantastico di solito sui punti neri che rappresentano città e villaggi su una carta geografica. Perché, mi chiedo, i punti luminosi del cielo non dovrebbero essere accessibili come i punti neri sulla carta della Francia?»      VINCENT VAN GOGH Era uno splendido pomeriggio d’autunno, così eccezionalmente caldo che Devi Sukhavati non si era portata dietro il soprabito. Lei ed Ellie passeggiavano lungo gli affollati Champs-Elysées in dirczione di Piace de la Concorde. Come a Londra, Manhattan e solo alcune altre città del pianeta, la diversità etnica non aveva alcun rilievo. Due donne che camminavano insieme, una in gonna e giacchetta di lana, l’altra in sari, erano un fatto comunissimo. Davanti a un tabaccheria c’era una lunga, ordinata e poliglotta fila di persone attirate dalla prima settimana di vendita legalizzata di sigarette confezionate con la canapa indiana, provenienti dagli Stati Uniti. Per la legge francese, non potevano essere vendute ai minori di diciott’anni. Molte persone della coda erano individui di mezz’età o più vecchi. Alcuni avrebbero potuto essere algerini o marocchini naturalizzati francesi. Varietà particolarmente forti di cannabis indica venivano coltivate soprattutto in California e nell’Oregon per l’esportazione. Lì si esaltava una nuova e apprezzata qualità di canapa che per di più era stata fatta crescere alla luce ultravioletta che aveva il potere di convertire alcuni dei cannabinoidi inerti nell’isomero uno-delta. Era chiamata «Baciata dal Sole». La confezione, pubblicizzata da un cartello alto un metro e mezzo che si trovava in vetrina, recava questo slogan in francese: «Vi verrà dedotto dalla vostra quota di Paradiso». Le vetrine dei negozi lungo il boulevard erano un’orgia di colori. Le due donne comperarono delle castagne da un venditore ambulante e ne assaporarono gioiosamente il gusto e la morbidezza della polpa. Per una qualche ragione, ogni volta che Ellie vedeva un’insegna che pubblicizzava la BNP, la Banque Nationale de Paris, la leggeva come il termine russo birra, con la lettera mediana rovesciata. BIRRA, le insegne — che ai suoi occhi negli ultimi tempi erano state distolte dalle loro consuete e rispettabili funzioni fiduciarie — sembrava la stessero invitando, BIRRA RUSSA. L’assurdità la divertiva e solo con una certa difficoltà poteva convincere la parte del suo cervello preposta alla lettura che quello era l’alfabeto latino e non cirillico. Più avanti, sostarono ammirate davanti all’obelisco di Luxor, un antico monumento a ricordo delle imprese militari di Ramsete II e III che era stato trasportato a Parigi con una forte spesa per diventarvi un moderno monumento a ricordo delle imprese militari di qualcun altro. Decisero di proseguire. Der Heer aveva mandato a monte l’appuntamento, o almeno era come se l’avesse fatto. L’aveva chiamata al telefono la mattina, scusandosi ma non più di tanto. C’erano troppe questioni politiche sollevate alla sessione plenaria. Il Segretario di Stato sarebbe arrivato in volo l’indomani, interrompendo una visita a Cuba. Der Heer dunque era occupatissimo e sperava che Ellie avesse capito. Lei capì. Si detestava perché andava a letto con lui. Per evitare un pomeriggio solitario, aveva chiamato Devi Sukhavati. «In sanscrito, uno dei termini per dire ‘vittorioso’ è ‘abhijit’. E’ come veniva chiamata Vega nell’antica India. Abhijit. Fu sotto l’influsso di Vega che le divinità indù, gli eroi della nostra cultura, sottomisero gli asura, gli dei del male. Ellie, mi sta ascoltando?… Ora, è una cosa curiosa. Anche in Persia ci sono gli asura, ma in Persia gli asura erano gli dei del bene. Alla fine spuntarono delle religioni in cui il dio principale, il dio della luce, il dio Sole, veniva chiamato Ahura-Mazda. Gli zoroastriani, ad esempio, e i mitraisti. Ahura, Asura, è lo stesso nome. Ci sono ancora degli zoroastriani al giorno d’oggi, e i mitraisti fecero piuttosto paura ai primi cristiani. In India, le Devis sono dee del bene. In Persia, le Devis diventano dee del male. Alcuni studiosi ritengono che sia da qui che in definitiva trae origine la parola inglese ‘devii’. La simmetria è completa. Tutto ciò è probabilmente un vago ricordo dell’invasione ariana che spinse i Dravida, i miei antenati, verso il sud. Dunque, a seconda di dove si vive, di qua o di là dal Kirthar Range, Vega appoggia il Bene o il Male.» Questa storia vivace era stata offerta come un dono da Devi, che chiaramente aveva avuto notizia delle avventure religiose di Ellie in California due settimane prima. Ellie gliene era riconoscente. Ma le fece venire in mente che non aveva neppure menzionato a Joss la possibilità che il Messaggio fosse il progetto per una macchina di impiego sconosciuto. Certo egli sarebbe venuto a conoscenza di tutto ciò abbastanza presto attraverso i mass-me-dia. Avrebbe dovuto davvero, si disse severamente, fare una chiamata intercontinentale per spiegargli i nuovi sviluppi. Ma si diceva che Joss fosse in ritiro. Non aveva concesso nessuna dichiarazione pubblica dopo il loro incontro a Modesto. Rankin, in una conferenza stampa, annunciò che, nonostante potessero esserci dei pericoli, non si opponeva a lasciar ricevere agli scienziati l’intero Messaggio. Ma la traduzione era un’altra faccenda. Controlli periodici da parte di tutte le componenti sociali erano indispensabili, egli disse, specialmente da parte di quelle cui spettava la salvaguardia dei valori spirituali e morali. Si stavano ora avvicinando ai giardini delle Tuileries, dove si dispiegavano i colori trionfanti dell’autunno. Degli uomini anziani dall’aspetto fragile — secondo Ellie del sud-est asiatico — stavano discutendo animatamente. I cancelli neri di ghisa erano ravvivati da palloncini multicolori in vendita. Al centro di una vasca c’era un’Anfitrite di marmo. Attorno a essa, stavano solcando l’acqua delle barchette a vela spinte da un’esuberante folla di ragazzini, aspiranti Magellani. Un pesce gatto all’improvviso balzò dall’acqua, facendo affondare la barchetta ammiraglia, e i bambini ammutolirono, colpiti da quell’apparizione del tutto inaspettata. Il Sole stava per tramontare ed Ellie rabbrividì. Si avvicinarono all’Orangerie, in una sezione della quale c’era una speciale mostra, così il manifesto annunciava, di «Immagini marziane». I veicoli robotizzati dell’impresa spaziale franco-russoamericana su Marte avevano prodotto una spettacolare messe di fotografie a colori, alcune delle quali — come le immagini scattate dal Voyager dall’esterno del sistema solare attorno al 1980 — andavano al di là del loro mero scopo scientifico e divenivano arte. Il manifesto mostrava un paesaggio fotografato sul vasto altipiano Elysium. In primo piano c’era una piramide a tre facce, liscia, fortemente erosa, con un cratere di impatto vicino alla base. Era stata prodotta da milioni di anni di tempeste di sabbia sollevate dai forti venti marziani, avevano detto i geologi planetari. Un secondo veicolo, destinato a una zona chiamata Cydonia, sull’altra faccia di Marte, era finito in una duna mobile, e i suoi controllori a Pasadena erano stati fino a quel momento incapaci di rispondere alle sue disperate invocazioni di aiuto. Ellie si ritrovò a considerare attentamente l’aspetto di Sukhavati: i suoi grandi occhi neri, il suo portamento eretto, il magnifico sari. Pensò di non avere la stessa grazia. Di solito era capace di partecipare a una conversazione pur pensando contemporaneamente ad altri argomenti. Ma quel giorno aveva delle difficoltà a seguire una sola linea di pensiero, figurarsi due. Mentre stavano discutendo la validità delle varie opinioni riguardo all’eventuale costruzione della Macchina, nella sua immaginazione ritornò alla visione suggeritale da Devi dell’invasione ariana dell’India 3500 anni prima: una guerra tra due popolazioni, ognuna delle quali rivendicava la vittoria, ognuna delle quali esagerava patriotticamente le narrazioni storiche. Alla fine, la storia si trasformava in una guerra di dei. La nostra parte, naturalmente è buona. La parte avversa, naturalmente, è cattiva. Ellie immaginò il Diavolo dell’Occidente, con la barbetta caprina, con la coda lanceolata, con il piede fesso nella sua lenta, graduale evoluzione durata migliaia di anni da un antecendente indù che, per quanto ne sapeva, aveva la testa di un elefante ed era dipinto di blu. «Il cavallo di Troia di Baruda forse non è un’idea del tutto insensata,» concluse Ellie. «Ma non vedo quale altra scelta possa esserci, come ha affermato Xi. Loro possono essere qui in una ventina d’anni, se vogliono.» Arrivarono a un arco monumentale in stile romano sormontato da una statua di Napoleone alla guida di una quadriga. Secondo una prospettiva extraterrestre, com’era patetica quella posa eroica dell’imperatore nella sua apoteosi. Si riposarono su una panchina di pietra che si trovava lì accanto, proiettando le loro lunghe ombre su un’aiuola di fiori dai colori della repubblica francese. Ellie moriva dalla voglia di discutere della sua situazione emotiva, ma ciò poteva avere sottintesi politici. Per lo meno, sarebbe stato indiscreto. Non conosceva Sukhavati molto bene e allora preferì incoraggiare la sua compagna a parlare della sua vita personale. Sukhavati acconsentì abbastanza prontamente. Era nata in una famiglia brahmanica ma indigente, con tendenze matriarcali, nello stato meridionale di Tamil Nadu. Famiglie matriarcali erano ancora comuni in tutta l’India del sud. Si era immatricolata all’università indù di Benares. In Inghilterra, in una facoltà di medicina, aveva incontrato Surindar Ghosh e se ne era perdutamente innamorata. Ma Surindar era un intoccabile, di una casta così aborrita che la loro semplice vista veniva ritenuta dai bramini ortodossi contaminante. Gli antenati di Surindar erano stati costretti a condurre un’esistenza notturna, come pipistrelli e gufi. La famiglia di lei minacciò di rinnegarla se si fossero sposati. Suo padre dichiarò che non sarebbe stata più sua figlia se avesse preso in considerazione una tale unione. Se avesse sposato Ghosh, lui avrebbe preso il lutto come se fosse morta. Lei lo sposò comunque. «Eravamo troppo innamorati,» disse. «Non avevo davvero altra scelta.» Entro l’anno morì di setticemia contratta mentre effettuava un’autopsia senza un’adeguata protezione. Invece di farla riconcialiare con la famiglia, la morte di Surindar provocò esattamente l’opposto, e dopo aver conseguito la sua laurea in medicina, Devi decise di restare in Inghilterra. Si scoprì una naturale propensione per la biologia molecolare e la considerò una logica continuazione dei suoi studi medici. Presto scoprì di avere un vero talento in questa disciplina precisa. La conoscenza della duplicazione dell’acido nucleico la condusse a lavorare sull’origine della vita, e ciò a sua volta la condusse a considerare le possibilità di vita su altri pianeti. «Si potrebbe dire che la mia carriera scientifica è stata una sequenza di libere associazioni. Una cosa ha condotto a un’altra.» Recentemente si era occupata della caratterizzazione della materia organica di Marte, rilevata in alcune zone del pianeta rosso da quelle stesse macchine che avevano scattato le magnifiche foto che avevano appena visto pubblicizzate. Devi non si era mai risposata, benché avesse fatto capire di avere avuto alcuni corteggiatori. Negli ultimi tempi, aveva frequentato uno scienziato a Bombay, che lei descrisse come un «uomo-computer». Proseguendo nella loro passeggiata, si ritrovarono nella Cour Napoleon, il cortile interno del Louvre. Al centro vi era l’entrata a forma di piramide che era stata completata da poco e aveva suscitato aspre polemiche, e in grandi nicchie disposte attorno al cortile erano racchiuse rappresentazioni scultoree degli eroi della civiltà francese. Sul basamento di ogni statua di uomo illustre — notarono che le donne illustri erano scarsamente rappresentate — era indicato il cognome. In qualche caso, le lettere erano state consumate dagli agenti atmosferici, o forse cancellate da qualche passante malevolo. Per una o due statue era difficile ricostruire di che personaggio si trattasse. Su una statua che aveva evidentemente suscitato il più grande risentimento pubblico, restavano soltanto le lettere LTA. Benché il Sole stesse tramontando e il Louvre restasse aperto fino alle dieci, non vi entrarono, ma invece si misero a «flàner» lungo la Senna, guardando i «bouquinistes» che stavano ormai chiudendo le loro pittoresche scatole di legno. Passeggiarono per un po’, tenendosi sottobraccio alla maniera europea. Una coppia francese stava camminando alcuni metri davanti a loro tenendo per mano la figlioletta, una bambina di circa quattro anni, cui facevano fare, ogni dieci passi, vola-vola. Nella sua momentanea sospensione in gravita zero, la piccina provava, era evidente, qualcosa di simile all’estasi. I genitori stavano parlando dell’Associazione, cosa tutt’altro che casuale dato che i giornali non avevano riferito altro. L’uomo era favorevole alla costruzione della Macchina; avrebbe potuto creare nuove tecnologie e aumentare l’occupazione in Francia. La donna era più cauta, ma per ragioni che non riusciva facilmente a enunciare. La figlioletta, con le trecce al vento, era del tutto indifferente a quel progetto che veniva dalle stelle e alla sua utilizzazione. Der Heer, Kitz e Honicutt avevano convocato una riunione all’ambasciata americana nelle prime ore della mattina seguente, per prepararsi all’arrivo del Segretario di Stato che era previsto in serata. L’incontro doveva essere classificato come top-secret e tenuto nella Black Room dell’ambasciata, una stanza elettronicamente isolata dal resto del mondo, che rendeva impossibile anche una sofisticata sorveglianza elettronica. O così si diceva. Ellie pensava che avrebbe potuto esserci una strumentazione avanza-tissima per aggirare quelle misure di sicurezza. Dopo aver trascorso il pomeriggio con Devi Sukhavati, aveva ricevuto il messaggio al suo hotel e aveva cercato di mettersi in contatto con der Heer, ma era riuscita soltanto a trovare Michael Kitz. Era contraria a una riunione top-secret su quell’argomento, disse; era una questione di principio. Il Messaggio era chiaramente indirizzato all’intero pianeta. Kitz ribattè che non c’erano dati che venissero tenuti all’oscuro del resto del mondo, almeno da parte degli americani; e che la riunione era puramente consultiva, per aiutare gli Stati Uniti nei difficili negoziati procedurali. Fece appello al suo patriottismo, al suo interesse personale, e alla fine invocò di nuovo la Decisione Hadden. «Per quanto ne so si trova ancora nella sua cassaforte non letta. La legga!» raccomandò lui. Ellie cercò, di nuovo invano, di mettersi in contatto con der Heer. Prima si fa vedere dappertutto all’Argus, è come il prezzemolo. Si trasferisce nel tuo appartamento. Sei sicura, per la prima volta dopo anni, di essere innamorata. Un minuto dopo non riesci nemmeno ad averlo al telefono. Decise di partecipare alla riunione, magari solo per vedere in faccia Ken. Kitz era entusiasta della realizzazione della Macchina, Drum-’lin cautamente favorevole, der Heer e Honicutt almeno apparentemente indifferenti, e Peter Valerian estremamente indeciso. Kitz e Drumlin stavano addirittura parlando del luogo dove costruire la cosa. Solamente i costi di trasporto rendevano l’esecuzione o l’assemblaggio sull’emisfero invisibile della Luna cari in maniera proibitiva, come aveva ventilato Xi. «Se usiamo un sistema di frenaggio aerodinamico, è più economico inviare un chilogrammo su Phobos o Deimos che sulla faccia invisibile della Luna», intervenne Bobby Bui. «Dove diavolo si trova Fobosodeimos?» voleva sapere Kitz. «Sono le lune di Marte. Stavo parlando di frenatura aerodinamica nell’atmosfera marziana.» «E quanto tempo ci vuole per raggiungere Phobos o Deimos?» Drumlin chiese girando il cucchiaino nella sua tazza di caffè. «Forse un anno, ma una volta che abbiamo una flotta di veicoli interplanetari da trasporto e la rete di rifornimento è completa…» «In confronto ai tre giorni per la Luna?» farfugliò Drumlin. «Bui, finiscila di farci perdere tempo.» «E solo un suggerimento,» protestò lui. «Solo un’ipotesi cui pensare, sai.» Der Heer sembrava impaziente, turbato. Era chiaramente sotto pressione, evitando a tratti il suo sguardo, e a tratti rivolgendole, così Ellie credette, una muta supplica. Lo prese per un segno promettente. «Se ci si preoccupa di Macchine da Giudizio Universale,» stava dicendo Drumlin, «ci si deve preoccupare delle riserve di energia. Se non ha accesso a un’enorme quantità di energia, non può essere una Macchina da Giudizio Universale. Fino a che le istruzioni non richiederanno un reattore nucleare da gigawatt, non credo che ci si debba preoccupare di Macchine da Giudizio Universale.» «Ma perché avete tanta fretta di dare il via alla costruzione?» chiese lei a Kitz e a Drumlin che erano seduti l’uno accanto all’altro, divisi soltanto da un vassoio di croissant. Kitz andò con lo sguardo da Honicutt a der Heer prima di rispondere: «Questa è una riunione top-secret,» cominciò. «Tutti noi sappiamo che lei non passerà nulla di ciò che viene detto qui ai suoi amici russi. E’ pressappoco così. Non sappiamo quello che farà la Macchina, ma risulta chiaro dall’analisi di Dave Drumlin che comporta una nuova tecnologia, probabilmente nuove industrie. La costruzione della Macchina avrà per forza un’importanza economica enorme… voglio dire, pensate a quello che potremmo imparare. E potrebbe avere un’importanza militare. Almeno è quello che pensano i russi. Guardate, i russi si trovano in una situazione imbarazzante. C’è un’intera nuova area tecnologica che dovranno dividere con gli Stati Uniti. Forse nel Messaggio ci sono le istruzioni per qualche arma decisiva o per qualche vantaggio economico. Non ne possono essere sicuri. Dovranno mandare in rovina la loro economia tentando. Avete notato come Baruda continuava a far riferimenti al costo effettivo dell’impresa? Se tutto il contenuto del Messaggio sparisse dalla circolazione — rogo dei dati, distruzione dei telescopi — allora i russi potrebbero mantenere la parità militare. Ecco perché sono così cauti. Ed ecco perché, naturalmente, siamo così entusiasti della costruzione della macchina.» Sorrise. Kitz aveva un temperamento freddo e insensibile, pensò Ellie; ma era ben lontano dall’essere stupido. Quando era gelido e distaccato, gli altri lo trovavano sgradevole. Così aveva sviluppato una vernice occasionale di urbana amabilità. A giudizio di Ellie, si trattava di uno strato monomolecolare. «Ora, lasci che le rivolga una domanda,» egli proseguì. «Ha colto l’osservazione di Baruda a proposito del trattenere alcuni dei dati? Ci sono dei dati mancanti?» «Solo agli inizi,» rispose Ellie. «Solo durante le primissime settimane, direi. C’erano alcuni buchi nella copertura cinese. C’è ancora una piccola quantità di dati che non sono stati scambiati, da parte di tutti i paesi. Ma non vedo nessun segno di serio incameramento. A ogni modo, raccoglieremo tutti i dati mancanti dopo che il Messaggio ripartirà da capo.» «Se il messaggio ripartirà da capo,» grugnì Drumlin. Der Heer fece da moderatore in una discussione per la pianificazione di ogni eventualità: che fare una volta ricevuto il sillabario; a quali industrie americane, tedesche e giapponesi rendere noti subito i progetti che lasciavano intravedere i più importanti sviluppi; come individuare gli scienziati e gli ingegneri indispensabili alla costruzione della Macchina, se fosse stata presa la decisione di andare avanti; e come creare il necessario entusiasmo per il progetto nel Congresso e nel popolo americano. Der Heer si affrettò ad aggiungere che quelli sarebbero stati soltanto piani per far fronte a ogni evenienza, che non era stata presa ancora una decisione finale e che senza dubbio le preoccupazioni sovietiche a proposito di un cavallo di Troia erano, almeno in parte, autentiche. Kitz si informò della composizione dell’equipaggio. «Ci stanno chiedendo di sistemare delle persone in cinque poltrone imbottite. Quali persone? Come si deciderà? Dovrà essere probabilmente un equipaggio internazionale. Quanti americani? Quanti russi? Chi altri? Non sappiamo quello che accadrà a quelle cinque persone, una volta che avranno preso posto nelle loro poltrone, ma vogliamo avere gli uomini migliori per la faccenda.» Ellie non raccolse la provocazione ed egli proseguì. «Ora, un problema più gravoso sarà quello di stabilire la ripartizione delle spese, la divisione dei compiti nella fase costruttiva, di decidere chi dovrà assumere la dirczione dell’integrazione globale dei sistemi. Ritengo che si possa cedere su alcuni punti, in cambio di una significativa rappresentanza americana nell’equipaggio.» «Ma alla fin fine vogliamo mandare i migliori individui possibili,» osservò der Heer, con una certa ovvietà. «Certamente,» replicò Kitz, «ma che cosa intendiamo dire con ‘i migliori’? Gli scienziati? Persone con esperienza militare alle spalle? Con forza fisica e resistenza? Con virtù patriottiche? (Non sono brutte parole, sapete.) E poi» — sollevò lo sguardo da un altro croissant che stava imburrando per lanciare un’occhiata direttamente a Ellie — «c’è la questione del sesso. I sessi, intendo dire. Mandiamo solo uomini? Se mandiamo uomini e donne, non saranno in parità. Ci sono cinque posti, un numero dispari. Tutti i membri dell’equipaggio lavoreranno insieme d’amore e d’accordo? Se andiamo avanti con questo progetto, si dovranno affrontare molti difficili negoziati.» «Non mi sembra giusto,» disse Ellie. «Qui non si tratta di una carica di ambasciatore che si può comprare con il contributo di una campagna elettorale. Questo è un affare serio. Volete qualche idiota tutto muscoli lassù, qualche ventenne che non sa nulla di come va il mondo — che sa solo percorrere in un tempo rispettabile le cento iarde e obbedire agli ordini? O qualche politicante? Non è certo un viaggio per gente simile.» «No, lei ha ragione,» disse Kitz sorridendo. «Penso che troveremo delle persone che potranno soddisfare tutti i nostri principi.» Der Heer, con le borse sotto gli occhi che lo facevano sembrare molto più sfatto, aggiornò la riunione. Riuscì a rivolgere a Ellie un piccolo sorriso privato, ma a labbra serrate. Le berline dell’ambasciata erano in attesa per riportarli al palazzo dell’Eliseo. «Vi dirò perché sarebbe meglio mandare dei russi,» stava dicendo Vaygay. «Quando voi americani stavate colonizzando il vostro paese — pionieri, cacciatori, esploratori indiani e via dicendo — non trovavate opposizione, almeno da parte di qualcuno che fosse al vostro livello tecnologico. Avete percorso in lungo e in largo il vostro continente, dall’Atlantico al Pacifico. Dopo un po’, vi aspettavate che tutto sarebbe stato facile. La nostra situazione era diversa. Noi siamo stati conquistati dai Mongoli. La loro strategia equestre era molto superiore alla nostra. Quando ci siamo allargati verso est, lo abbiamo fatto con molta circospezione. Non abbiamo mai attraversato il deserto e immaginato che sarebbe stato facile. Noi siamo più avvezzi di voi alle avversità. Inoltre, gli americani sono abituati a essere in testa tecnologicamente. Noi siamo abituati a riguadagnare il tempo perduto tecnologicamente. Ora, ognuno sulla Terra è un russo — capite? — intendo dire nella nostra posizione storica. La missione ha bisogno di sovietici più che di americani.» Il semplice incontrarsi con lei da solo comportava certi rischi per Vaygay — e anche per lei, come Kitz le aveva rammentato, interrompendo il filo del suo discorso. Talvolta, durante un incontro scientifico in America o in Europa, Vaygay aveva il permesso di trascorrere un pomeriggio con lei. Più spesso era accompagnato da colleghi o da un agente del KGB, che veniva presentato come un interprete, anche quando il suo inglese era nettamente inferiore a quello di Vaygay; o come uno scienziato di questa o quella commissione accademica, anche se la sua conoscenza degli argomenti scientifici spesso risultava superficiale. Vaygay scuoteva il capo quando gli si chiedeva qualcosa di loro. Ma in genere, egli considerava quegli angeli custodi una parte del gioco, il prezzo da pagare quando ti lasciano visitare l’occidente, e più di una volta Ellie credette di scoprire una sfumatura d’affetto nella voce di Vaygay quando parlava al suo angelo. Recarsi in un paese straniero e fingere di essere esperto in una materia che si conosce molto superficialmente doveva essere causa di grande ansietà. Forse, nel profondo del loro cuore, gli angeli custodi detestavano il loro compito quanto lo detestava Vaygay. Erano allo stesso tavolo davanti alla finestra del ristorante «Chez Dieux». C’era già una precisa sensazione di freddo nell’aria, un presagio d’inverno, e un giovanotto che portava una lunga sciarpa azzurra come sua unica concessione al freddo passò frettoloso accanto alle ceste di ostriche in ghiaccio posate sul marciapiede davanti alla finestra. Dalle continue osservazioni circospette di Lunacarskij, che di solito non si comportava così, Ellie dedusse che ci doveva essere un certo subbuglio nella delegazione sovietica. I russi erano preoccupati che la Macchina potesse in qualche modo avvantaggiare strategicamente gli Stati Uniti nella ormai cinquantennale competizione. Vaygay infatti era rimasto colpito dalla domanda di Baruda sull’opportunità di bruciare i dati e distruggere i radiotelescopi. Non era stato informato in anticipo della posizione di Baruda. I russi avevano rivestito un ruolo della massima importanza nella raccolta del Messaggio, con la più estesa copertura longitudinale rispetto alle altre nazioni, sottolineò Vaygay, e avevano gli unici seri radiotelescopi oceanici. Si aspettavano un ruolo importante in qualunque cosa fosse venuta in seguito. Ellie lo assicurò che, per quanto la riguardava, avrebbero avuto tale ruolo. «Guarda, Vaygay, loro sanno dalle nostre trasmissioni televisive che la Terra ruota, e che ci sono molte diverse nazioni. Il pezzo sulle olimpiadi da solo può averli informati di ciò. Le successive trasmissioni da altre nazioni glielo avranno fatto capire con maggiore precisione. Allora, se sono così bravi come pensiamo, avrebbero potuto sincronizzare la trasmissione con la rotazione terrestre, di modo che una sola nazione ricevesse il Messaggio. Hanno scelto di non fare così. Loro vogliono che il Messaggio venga ricevuto da tutto il pianeta. Si aspettano che la Macchina venga costruita da tutto il pianeta. Questo non può essere un progetto tutto americano o tutto russo. Non è quello che desidera il nostro… committente.» Ma non era sicura, gli disse, che avrebbe avuto una parte di spicco nelle decisioni sulla realizzazione della Macchina o sulla selezione dell’equipaggio. Sarebbe ritornata negli Stati Uniti l’indomani, soprattutto per occuparsi dei nuovi dati radio delle ultime settimane. Le sedute plenarie dell’Associazione sembravano interminabili e non era stata ancora stabilita una data di chiusura. Vaygay era stato invitato dai suoi a trattenersi almeno ancora un po’. Il ministro degli esteri era appena arrivato e stava guidando ora la delegazione sovietica. «Ho paura che tutto ciò finisca male,» egli disse. «Ci sono troppe cose che possono andare alla rovescia. Fallimenti tecnologici, fallimenti politici, fallimenti umani. E anche se superassimo tutto ciò, se non avremo una guerra a causa della Macchina, se la costruiremo correttamente e senza farci saltare per aria, ho ancora delle preoccupazioni.» «In merito a cosa? Che cosa intendi dire?» «La cosa migliore che può capitare è che finiremo per farci prendere in giro.» «Da chi?» «Arroway, non capisci?» Una vena nel collo di Lunacarskij palpitò. «Mi meraviglia che tu non ci arrivi. La Terra è un… ghetto. Sì, un ghetto. Tutti gli esseri umani vi sono intrappolati. Abbiamo sentito vagamente che ci sono grandi città là fuori, oltre le mura del ghetto, con larghi viali popolati da carrozze e da belle donne profumate e impellicciate. Ma le città sono troppo lontane e noi siamo troppo poveri per andarci, anche i più ricchi di noi. A ogni modo, sappiamo che non ci vogliono. E’ questa la ragione per cui ci hanno lasciato in questo patetico villaggetto fin dall’inizio. E adesso arriva un invito, Come ha detto Xi. Fantastico, elegante. Ci hanno spedito un biglietto pieno di svolazzi e una carrozza vuota. Dovremo mandare cinque paesani e la carrozza li trasporterà a — chi lo sa? — Varsavia. O a Mosca. Forse persino a Parigi. Naturalmente, alcuni sono tentati di andare. Ci saranno sempre persone che subiranno il fascino dell’invito, o che lo riterranno un modo per sfuggire al nostro miserabile villaggio. E cosa credi che accadrà una volta giunti a destinazione? Pensi che il Granduca ci inviterà a cena? Il Presidente dell’Accademia ci porrà delle interessanti domande sulla vita quotidiana del nostro sudicio paesucolo? Ti immagini che il Vescovo metropolita greco-ortodosso ci impegnerà in una conversazione erudita sulle religioni comparate? No, Arroway. Noi guarderemo con aria sciocca la grande città e loro rideranno di noi nascondendosi educatamente dietro la mano. Ci mostreranno ai curiosi. Più arretrati saremo e meglio si sentiranno, li rassicureremo di più. E’ un sistema di immigrazione. A intervalli di secoli, cinque di noi ottengono di trascorrere un fine settimana su Vega. Hanno compassione dei provinciali e si accertano che sappiano chi siano i loro superiori.» 13 BABILONIA «Con i più vili dei compagni, vagavo per le strade di Babilonia…»      AGOSTINO, Confessioni, II, 3 L’unità centrale di elaborazione CRAY 21 all’Argus era stata programmata per confrontare la messe giornaliera di dati provenienti da Vega con le prime registrazioni del Livello 3 del palinsesto. In effetti, una lunga e incomprensibile sequenza di zeri e di unità veniva confrontata automaticamente con un’altra sequenza simile, solo ricevuta prima. Ciò faceva parte di un imponente raffronto statistico di varie sezioni del testo ancora indecifrato. C’erano alcune brevi sequenze di zeri e di unità — «parole» le chiamavano gli analisti fiduciosamente — che venivano ripetute in continuazione. Molte sequenze apparivano soltanto una volta in migliaia di pagine di testo. Questa procedura statistica per giungere alla decodificazione di un messaggio era familiare a Ellie fin dalla scuola superiore. Ma i sottoprogrammi forniti dagli esperti della National Security Agency — resi disponibili solo come risultato di una direttiva presidenziale e anche così muniti di istruzioni per l’autodistruzione se esaminati da vicino — erano brillanti. Che prodigi di umana inventiva, rifletteva Ellie, erano destinati a leggere la posta dell’avversario! Il confronto globale tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica — ora, senza dubbio, in fase di attenuazione — stava ancora divorando il mondo. Non si trattava soltanto delle risorse finanziarie dedicate all’establishment militare di tutte le nazioni. Ci si stava avvicinando ai due trilioni di dollari l’anno, spesa rovinosa quando c’erano tante altre urgenti necessità umane. Quello che era ancora peggio, ne era perfettamente consapevole, era lo sforzo intellettuale speso nella corsa agli armamenti. Quasi la metà degli scienziati del pianeta, secondo stime fatte, venivano impiegati da uno o dall’altro dei quasi duecento establishment militari in tutto il mondo. E non costituivano la feccia dei cattedratici di fisica e matematica. Alcuni dei suoi colleghi si consolavano con questo pensiero quando sorgeva il delicato problema di cosa dire a un laureando corteggiato da uno dei laboratori bellici. «Se non fosse stato in gamba, gli avrebbero offerto un posto di assistente a Stanford, per lo meno,» ricordò di aver sentito dire una volta a Drumlin. No, un certo tipo di mente e di carattere era attirato verso le applicazioni militari della scienza e della matematica: quelli che amavano le grandi esplorazioni, per esempio; o quelli poco portati alla battaglia personale che, per vendicare qualche ingiustizia subita a scuola, aspiravano a un comando militare; o accaniti risolutori di enigmi che bruciavano dalla voglia di decifrare i più complessi messaggi conosciuti. Di quando in quando, lo stimolo era politico, risalente a dispute internazionali, a sistemi di immigrazione, a orrori del tempo di guerra, a brutalità della polizia, o a propaganda nazionale da parte di questa o quella nazione decenni prima. Molti di questi scienziati avevano vero talento, Ellie lo sapeva, qualunque riserva potesse avere sulle loro motivazioni. Cercò di immaginare tutto quel talento speso davvero per il benessere della specie e del pianeta. Si immerse nella lettura degli studi che si erano accumulati durante la sua assenza. Non si stava facendo quasi nessun progresso nella decifrazione del Messaggio, sebbene le analisi statistiche si ammucchiassero ora in una pila di carta alta un metro. Era tutto molto scoraggiante. Avrebbe desiderato che ci fosse qualcuno, soprattutto un’amica intima, all’Argus, con cui poter sfogare il suo dolore e la sua rabbia per il comportamento di Ken. Ma non c’era, e lei provava riluttanza anche a usare il telefono per questo scopo. Organizzò un fine settimana con la sua compagna di college Becky Ellenbogen ad Austin, ma Becky, le cui valutazioni degli uomini tendevano a essere tra il disgustato e il sarcastico, in questo caso fu sorprendentemente moderata nelle sue critiche. «E’ il consigliere scientifico della Presidente e questa è solo la più stupefacente scoperta nella storia del mondo. Non essere così dura con lui,» le consigliò Becky. «Tornerà.» Ma Becky era un’altra di quelle che trovavano Ken «affascinante» (lo aveva incontrato una volta all’inaugurazione dell’Osservatorio nazionale del neutrino), e forse era troppo incline ad accondiscendere al potere. Se der Heer aveva trattato Ellie in questa maniera meschina quando era un semplice professore di biologia molecolare da qualche parte, Becky lo avrebbe marinato e infilzato. Al suo ritorno da Parigi, der Heer aveva condotto una regolare campagna di scuse e di devozione. Era stato sotto eccessivo stress, le disse, e sommerso da una serie di responsabilità comprendenti problemi politici difficili e poco conosciuti. La sua posizione di leader della delegazione americana e di co-presidente delle assemblee plenarie avrebbe potuto esser stata indebolita se la sua relazione con Ellie fosse divenuta di dominio pubblico. Kitz era stato insopportabile. Ken aveva trascorso troppe notti consecutive con solo poche ore di sonno. Nell’insieme, a giudizio di Ellie, c’erano state troppe spiegazioni. Ma lasciò che la relazione continuasse. Quando accadde, fu di nuovo Willie, stavolta al secondo turno di notte, ad accorgersene per primo. In seguito, Willie H avrebbe attribuito la velocità della scoperta più ai nuovi microcircuiti integrati Hadden di riconoscimento contestuale che al com-I puter superconduttore e ai programmi NSA. In ogni caso, Vega si era trovata bassa nel cielo un’ora o poco più prima dell’alba I quando il computer fece scattare un debole allarme. Un po’ seccato, Willie depose ciò che stava leggendo — si trattava di un nuovo testo sulla spettroscopia della trasformazione rapida di Fourier — e osservò queste parole che erano apparse sullo schermo: RAPPORTO TESTO PP. 41617-41619: BIT MISMATCH 0/2271 COEFFICIENTE DI CORRELAZIONE 0.99+ Mentre guardava, il 41619 divenne 41620 e poi 41621. Le cifre dopo la sbarretta stavano crescendo in un continuo ronzio. Sia il numero delle pagine che il coefficiente di correlazione, segno dell’improbabilità che la correlazione fosse casuale, crescevano sotto i suoi occhi. Aspettò altre due pagine prima di prendere la linea diretta con l’appartamento di Ellie. Stava dormendo profondamente e ebbe un attimo di disorientamento. Ma accese in fretta la lampada sul tavolino da notte e dopo un istante diede istruzioni perché si riunisse lo staff direttivo dell’Argus. Disse a Willie che avrebbe trovato lei der Heer che si trovava da qualche parte alla base. La cosa si rivelò non molto difficile. Lo prese per le spalle e lo scosse con una certa energia. «Ken, alzati. Sembra che ci siamo.» «Cosa?» «Il Messaggio è ripartito dall’inizio. O almeno è ciò che dice Willie. 10 vado. Perché non aspetti altri dieci minuti così fai finta di essere stato nella tua stanza al BSQ?» Ellie era quasi alla porta prima che lui le gridasse dietro: «Com’è possibile che si stia tornando da capo? Non abbiamo ancora ricevuto 11 sillabario.» Sugli schermi scorreva una sequenza appaiata di zeri e di unità, un confronto in tempo reale fra i dati appena ricevuti e quelli facenti parte di una delle prime pagine ricevute all’Argus l’anno precedente. Il programma avrebbe dovuto cogliere qual-siasi differenza. Fino a quel momento, non ce n’era nessuna. Li rassicurò che non avevano compiuto errori di trascrizione, che non c’era nessun evidente errore di trasmissione, e che se qualche piccola nube interstellare di una certa densità tra Vega e la Terra era in grado di assorbire uno zero o un’unità, era un evento raro. Argus era ormai in comunicazione in tempo reale con decine di altri telescopi che facevano parte dell’Associazione, e la notizia del ritorno ciclico veniva comunicata ai successivi osservatori in direzione ovest, alla California, alle Hawaii, alla «Marshal Nede-lin» che si trovava ora nel Pacifico meridionale, e a Sydney. Se la scoperta fosse stata fatta quando Vega si trovava su uno degli altri telescopi della rete, Argus sarebbe stato informato istantaneamente. L’assenza del sillabario era una delusione cocente, ma non era la sola sorpresa. I numeri delle pagine del Messaggio erano saltati da 40.000 a 10.000, dove esso era stato scoperto. Evidentemente l’Argus aveva individuato la trasmissione da Vega quasi nel momento in cui era arrivata per la prima volta sulla Terra. Era un segnale notevolmente forte e sarebbe stato captato per-sino da piccoli telescopi omnidirezionali. Ma era una coincidenza sorprendente che la trasmissione fosse giunta sulla Terra nell’istante stesso in cui Argus aveva guardato Vega. Inoltre, che voleva dire che il testo cominciava a pagina 10.000? C’erano 10.000 pagine di testo mancanti? Era un’usanza arretrata della provinciale Terra cominciare a numerare i libri dalla pagina 1? Quei numeri sequenziali si riferivano forse non a indicazioni di pagine, ma a qualcos’altro? O — e questa era la cosa che preoccupava maggiormente Ellie — c’era una qualche differenza fondamentale e inattesa tra la concezione umana delle cose e quella aliena? Se fosse stato così, ciò avrebbe avuto inquietanti implicazioni sulla capacità dell’Associazione di interpretare il Messaggio, sillabario o non sillabario. Il Messaggio si ripetè esattamente, i vuoti vennero tutti riempiti eppure nessuno riusciva a leggerne una parola. Sembrava improbabile che la civiltà trasmittente, meticolosa in tutto il resto, avesse semplicemente trascurato la necessità di un sillabario. Per lo meno, la trasmissione olimpica e il disegno dell’interno della Macchina sembravano fatti apposta per essere umani. Si sarebbero presi difficilmente tutto quel disturbo di progettare e di trasmettere il Messaggio senza fornire agli uomini un qualche mezzo per leggerlo. Perciò gli uomini dovevano aver tralasciato qualcosa. Presto si giunse a ritenere concordemente che da qualche parte ci fosse un quarto strato del palinsesto. Ma dove? I diagrammi vennero pubblicati in una serie di otto volumi che furono ben presto ristampati in tutto il mondo. E in tutto il pianeta si cercò di interpretare le immagini. Il dodecaedro e le forme quasi biologiche erano in special modo evocatori. Molti suggerimenti di una certa intelligenza vennero avanzati dal pubblico e attentamente vagliati dall’equipe dell’Argus. Anche molte interpretazioni scervellate venivano date dovunque, specialmente nei settimanali. Sorsero e si svilupparono industrie completamente nuove — senza dubbio non previste da coloro che avevano progettato il Messaggio — rivolte allo sfruttamento dei diagrammi per turlupinare le masse. Fu annunciato l’Ordine mistico e antico del Dodecaedro. La Macchina era un UFO. La Macchina era la Ruota di Ezechiele. Un angelo rivelò il significato del Messaggio e dei diagrammi a un uomo d’affari brasiliano, che diffuse ovunque — da principio a sue spese — quella sua interpretazione. Con tanti enigmatici diagrammi da interpretare, era inevitabile che molte religioni riconoscessero parte della loro iconografia nel Messaggio dalle stelle. Una delle principali sezioni trasversali della Macchina assomigliava a un crisantemo, cosa che suscitò un grande entusiasmo in Giappone. Se ci fosse stata l’immagine di un volto umano in mezzo a tutti i diagrammi, il fervore messianico avrebbe raggiunto il suo apice. Visto come stavano le cose, innumerevoli persone stavano liquidando i loro affari in vista dell’Avvento. La produttività industriale era in ribasso ovunque. Molti avevano regalato tutti i loro averi ai poveri e poi, visto che la fine del mondo sembrava fosse rimandata, si videro costretti a chiedere aiuto a qualche istituzione benefica o allo stato. Poiché donazioni di tale sorta costituivano la parte più cospicua delle risorse di tali istituzioni bene-fiche, alcuni dei filantropi finirono per essere mantenuti dalle loro stesse donazioni. Alcune delegazioni contattarono dei capi di governo per esortarli a far sparire la schistosomiasi o la fame nel mondo prima dell’Avvento; altrimenti non si sarebbe saputo che cosa avrebbe potuto capitare all’umanità. Altri consigliavano, più tranquillamente, che se c’era in vista un decennio di vera pazzia mondiale, ci doveva essere da qualche parte un considerevole vantaggio monetario o nazionale. Qualcuno disse che non c’era nessun sillabario, che l’intera faccenda aveva il compito di insegnare agli uomini l’umiltà, o di farli impazzire. Ci furono editoriali sulla presunta intelligenza dei terrestri e un certo risentimento nei confronti degli scienziati che, dopo tutto l’appoggio dato loro dai governi, erano venuti meno proprio nel momento del bisogno. O forse gli uomini erano molto più stupidi di quanto avessero pensato gli abitanti di Vega. Forse c’era qualche punto che era stato del tutto ovvio per tutte le precedenti civiltà emergenti contattate in tal modo, qualcosa che nessuno nella storia della Galassia si era mai lasciato sfuggire prima. Alcuni commentatori abbracciarono questa prospettiva di umiliazione cosmica con vero entusiasmo. Era la dimostrazione di quanto avevano continuato a dire della gente. Ellie si rese conto di aver bisogno di aiuto. Entrarono furtivamente per la porta di Enlil, con una scorta inviata dal Proprietario. I pochi agenti di sicurezza governativi erano nervosi nonostante la protezione supplementare, o forse a causa di essa. Benché ci fosse ancora qualche raggio di sole, le strade in terra battuta erano illuminate da bracieri, da lampade a olio, e da qualche fiaccola sgocciolante. Due anfore, grandi entrambe abbastanza per contenere un adulto, fiancheggiavano l’entrata di un’azienda che vendeva olio d’oliva al dettaglio. L’insegna era in caratteri cuneiformi. Sul muro di un edificio pubblico adiacente c’era un magnifico bassorilievo rappresentante una caccia al Icone del periodo di Assurbanipal. Mentre si avvicinavano al tempio di Assur, scoppiò una rissa tra la folla, e la scorta fece un’ampia deviazione. Adesso Ellie poteva scorgere benissimo la ziggurat in fondo a un largo viale rischiarato da torce. Era più sorprendente che nelle fotografie. Un bizzarro strumento a fiato fece risuonare degli squilli marziali; passò un cocchio guidato da un auriga in berretto frigio, sollevando nuvole di polvere. Come in qualche miniatura medievale del libro della Genesi, la sommità della ziggurat era avvolta da basse nubi scure. Lasciarono la via di Ishtar e si accostarono alla zigurrat percorrendo una strada laterale. Nell’ascensore privato, la sua scorta premette il bottone per l’ultimissime piano: «Quaranta» c’era scritto. Non cifre, solo la parola. E poi, per non lasciare ombra di dubbio, su un pannello di vetro apparve in lettere fluorescenti la strabiliante indicazione: «Gli Dei». Il signor Hadden l’avrebbe raggiunta di lì a poco. Avrebbe tradito qualcosa da bere per ingannare l’attesa? Considerando la una del posto, Ellie declinò l’offerta. Babilonia si stendeva là fuori sotto i suoi occhi, magnifica, come tutti affermavano concordemente, nella sua ricostruzione di un remoto passato. Durante il giorno, arrivavano alla porta di Ishtar autobus carichi di appassionati di archeologia, rare scolaresche e i partecipanti alle escursioni organizzate dalle agenzie turistiche. I visitatori indossavano vesti approriate al luogo e cominciava il viaggio a ritroso nel tempo. Hadden saggiamente donava tutti i profitti ricavati dalla sua clientela diurna alle istituzioni benefiche di New York City e Long Island. I giri di giorno erano immensamente popolari, in parte perché costituivano un’opportunità rispettabile di dare un’occhiata al posto per coloro che non avevano il coraggio di visitare Babilonia di notte. Al calare delle tenebre, Babilonia si trasformava in un parco di divertimenti per adulti. Per opulenza, dimensioni e fantasia faceva impallidire persino la Reeperbahn di Amburgo. Era di gran lunga la più grande attrazione turistica dell’area metropolitana di New York, con entrate incredibilmente alte. Come Hadden fosse stato in grado di convincere i fondatori di Babilonia e come avesse brigato per potersi infischiare delle varie leggi sulla prostituzione, era ben noto. Dal cuore di Manhattan alla porta di Ishtar c’era solo mezz’ora, di treno. Ellie aveva insistito per servirsi di questo mezzo, nonostante le suppliche degli agenti di sicurezza, e aveva scoperto che quasi un terzo dei passeggeri erano donne. Non c’erano graffiti osceni, il rischio di rapine era ridotto, e il rumore bianco, se paragonato a quello prodotto dalle vetture della sotterranea newyorkese, era inferiore di molto. Benché Hadden fosse un membro dell’Accademia nazionale di ingegneria, non aveva mai, per quanto ne sapesse Ellie, presenziato a una riunione e lei non l’aveva mai visto di persona. Il suo volto, tuttavia, era divenuto notissimo a milioni di americani, anni prima, in seguito a una campagna dell’Ente Pubblicità contro di lui: «Il Non-Americano» era stata la didascalia sotto a un ritratto poco adulatore di Hadden. Eppure, rimase sorpresa e sconcertata quando, nel mezzo dei suoi pensieri accanto alla parete inclinata di vetro, fu interrotta da una persona piccola e grassa che le faceva dei cenni. «Oh, mi dispiace. Non riesco mai a capire che qualcuno possa avere paura di me.» La sua voce era sorprendentemente musicale. Infatti, sembrava che parlasse glissando su quinte. Non aveva ritenuto necessario presentarsi e ancora una volta fece un cenno col capo alla porta che aveva lasciata aperta. Era difficile credere che le si volesse far subire un «oltraggio» in quelle circostanze, e senza dire una parola, Ellie passò nella stanza accanto. Egli la fece avvicinare a un tavolo su cui troneggiava il plastico accuratamente eseguito di una città antica dall’aspetto meno pretenzioso di quello di Babilonia. «Pompei,» disse a mo’ di spiegazione. «Lo stadio, situato in questo punto, è l’edificio chiave. Con le restrizioni sulla boxe, non abbiamo più dei sani sport sanguinati in America. Cosa invece molto importante. Succhia via un po’ dei veleni dalla circolazione sanguinea nazionale. L’intero complesso è progettato nei minimi particolari, le autorizzazioni sono state rilasciate, e adesso questo non ci voleva.» «Che cosa?» «Niente giochi gladiatori. Mi è appena giunta notizia da Sacramento. C’è un progetto di legge allo studio per la messa al bando dei giochi gladiatori in California. Troppo violenti, dicono. Autorizzano un nuovo grattacielo, sanno che perderanno due o tre operai. I sindacati lo sanno, i costruttori lo sanno, ed è solo per fare degli uffici per compagnie petrolifere o per avvocati di Beverly Hills. Certo, noi perderemmo alcuni uomini. Ma siamo indirizzati più al tridente e alla rete che alla daga. Quei legislatori, di priorità non capiscono un accidente.» Le sorrise con un’espressione da gufo e le offrì un drink, che lei rifiutò di nuovo. «Così lei vuole parlarmi della Macchina, e io voglio parlarle della Macchina. A lei. Vuole sapere dove si trova il sillabario?» «Stiamo chiedendo aiuto ad alcune persone chiave che possono avere un certo intuito. Pensavamo che con il suo record di inventiva — e poiché il suo microcircuito integrato di riconoscimento contestuale ha svolto un ruolo importante nella scoperta della ripetizione del Messaggio — lei potesse calarsi nei panni degli abitanti di Vega e pensare alla collocazione, secondo lei più appropriata, del sillabario. Sappiamo che lei è molto occupato e mi dispiace di…» «Oh no. Va bene. E’ vero che sono impegnato. Sto cercando di regolarizzare i miei affari, perché sto per operare un grande cambiamento nella mia vita…» «In vista del nuovo millennio?» Tentò di immaginarselo mentre regalava ai poveri la S.R. Hadden and Company, l’azienda di mediazioni di Wall Street, la società di ingegneria genetica, la Cibernetica Hadden e Babilonia. «Non esattamente. No, è stato divertente pensarci. Mi ha fatto piacere essere consultato. Ho guardato i programmi.» Indicò la serie commerciale di otto volumi sparsi in disordine su un tavolo da lavoro. «Ci sono delle cose meravigliose là dentro, ma non aedo che sia là che si celi il sillabario. Non nei programmi. Non so perché lei pensi che il sillabario debba per forza trovarsi nel Messaggio. Forse l’hanno lasciato su Marte o Plutone o nella miriade di comete di Oort, e lo scopriremo fra alcuni secoli. Dunque, sappiamo che c’è questa straordinaria macchina, con i disegni relativi e trentamila pagine di testo esplicativo. Ma non sappiamo se potremo essere in grado di costruire la cosa, una volta messi in condizione di leggerlo. Così, aspettiamo alcuni secoli, miglioriamo la nostra tecnologia, sapendo che prima o poi dovremo essere pronti alla realizzazione della Macchina. L’essere privi del sillabario ci lega alle future generazioni. Agli esseri umani è stato inviato un problema che avrà bisogno di generazioni per essere risolto. Non credo che sia un inconveniente così grave. Potrebbe essere molto salutare. Forse è un errore cercare il sillabario. Forse è meglio non trovarlo.» «No, io voglio trovare il sillabario immediatamente. Non sappiamo se ci aspetterà per sempre. Se loro attaccano il ricevitore perché non c’è stata risposta, sarebbe molto peggio che se non ci avessero mai chiamato.» «Beh, forse lei ha una motivazione. Comunque, ho pensato a tutte le eventualità possibili. Le presenterò prima quelle banali, poi una speciale: il sillabario si trova nel Messaggio, ma a una velocità dati molti diversa. Supponiamo che ci sia un altro messaggio a un bit all’ora… potreste scoprirlo?» «Certamente. Controlliamo d’abitudine la deriva a lungo termine del ricevitore in ogni caso. Ma anche un bit all’ora soltanto fa, vediamo, dieci-ventimila bit al massimo prima che il Messaggio riparta da capo.» «Perciò ha senso solo se il sillabario è molto più facile del Messaggio. Lei crede che non lo sia. E anch’io credo che non lo sia. Ora, che ne dice di velocità di bit molto più alte? Come fa a sapere che sotto ogni bit del suo Messaggio-Macchina non ci siano milioni di bit del messaggio-sillabario?» «Perché produrrebbe larghezze di banda mostruose. Lo sapremmo in un istante.» «Okay, allora c’è un rapido scarico dati di quando in quando. Lo veda come un microfilm. C’è un minuscolo punto di microfilm situato in parti che si ripetono del Messaggio. Sto immaginando una vocina che dice chiaramente: ‘Io sono il sillabario’. Quindi, subito dopo l’annuncio, c’è un punto. E in quel punto ci sono cento milioni di bit, velocissimi. Dovrebbe vedere se avete ricevuto qualche vocina.» «Mi creda, ce ne saremmo accorti.» «Okay, che mi dice allora di una modulazione di fase? La usiamo nella telematica dei radar e dei veicoli spaziali, e difficilmente sconvolge lo spettro. Avete collegato un correlatore di fase?» «No. E’ una buona idea. La esaminerò a fondo.» «Adesso, l’eventualità speciale è questa: se la Macchina verrà mai realizzata, se i nostri uomini vi prenderanno posto, qualcuno premerà un bottone e allora quei cinque andranno da qualche parte. Non importa dove. Ora, un interessante interrogativo è questo: quei cinque ritorneranno indietro? Forse no. Mi piace l’idea che gli abitanti di Vega abbiano inventato tutta questa progettazione della Macchina perché hanno bisogno di corpi da sottoporre ad autopsia. Per i loro studenti di medicina, o per gli antropologi o per altri. Hanno bisogno di alcuni corpi umani. E’ una grande seccatura venire sulla Terra — si ha bisogno di permessi, di visti di transito dell’autorità — accidenti, il gioco non vale la candela. Ma con un piccolo sforzo, si può inviare sulla Terra un Messaggio e allora i terrestri si sobbarcheranno tutte le noie di spedire cinque corpi. E’ come la raccolta dei francobolli. Avevo l’abitudine di raccogliere francobolli quando ero bambino. Si spediva una lettera a qualcuno in un paese straniero e il più delle volte si riceveva una risposta. Non importava il contenuto della missiva. Tutto quello che si voleva era il francobollo. Dunque, questa è la mia visione: ci sono alcuni filatelici su Vega. Spediscono lettere nello spazio quando ne hanno voglia e i corpi arrivano volando da tutto l’universo. Non le piacerebbe vedere la collezione?» Le sorrise e proseguì. «Okay, che c’entra questo con il ritrovamento del sillabario? Nulla. E pertinente solo se sbaglio. Se il mio quadro è sbagliato, se i cinque ritorneranno sulla Terra, allora sarebbe di grande aiuto l’aver inventato il volo spaziale. Per quanto intelligenti possano essere, sarà duro far atterrare la Macchina. Troppe cose in movimento. Dio solo sa qual è il sistema di propulsione. Se si termina il viaggio alcuni metri sotto terra, è finita. E che cosa sono alcuni metri in ventisei anni luce? E’ troppo rischioso. Se la Macchina tornerà indietro, dovrà fermarsi nello spazio, in qualche punto vicino alla Terra, ma non sulla Terra o dentro la Terra. Perciò loro devono essere sicuri che noi si sia padroni del volo spaziale, perché i cinque possano essere recuperati nello spazio. Hanno fretta e non riescono a stare tranquilli finché non arriva su Vega un telegiornale serale del 1957. Allora, che fanno? Fanno in modo che parte del Messaggio possa essere individuata solo dallo spazio. Di che parte si tratta? Del sillabario. Se si può scoprire il sillabario, vuoi dire che si è capaci di volare nello spazio e che si può tornare a casa sani e salvi. Quindi, immagino che il sillabario sia stato mandato alla frequenza degli assorbimenti dell’ossigeno nello spettro di microonde, o nell’infrarosso vicino: una parte dello spettro che si può scoprire soltanto quando si è ben fuori dall’atmosfera terrestre…» «Abbiamo avuto il telescopio Hubble puntato su Vega nell’ultravioletto, nel visibile e nell’infrarosso vicino. Nulla. I russi hanno riparato il loro strumento a onde millimetriche. Non hanno fatto altro che guardare Vega e non hanno scoperto nulla. Ma continueranno a guardare. Altre eventualità?» «E’ sicura di non voler gradire un drink? Io non bevo, ma tanti lo fanno.» Ellie rifiutò di nuovo. «No, nessun’altra eventualità. Ora tocca a me? Guardi, voglio chiederle qualcosa. Ma non sono bravo a chiedere. Non lo sono mai stato. La mia immagine pubblica è ricca, eccentrica, senza scrupoli: quella di uno che cerca i punti deboli del sistema per poter fare un mucchio di dollari in fretta. E non mi dica che non ci crede anche lei. Tutti ci credono almeno in parte. Lei ha probabilmente già sentito quello che sto per dirle, ma mi conceda dieci minuti e le racconterò com’è cominciato tutto. Voglio che lei sappia qualcosa di me.» Ellie si accomodò, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto volere da lei, e spazzò via frivole fantasie che coinvolgessero il tempio di Ishtar, Hadden, e forse un auriga o due in sovrappiù. Anni prima, Hadden aveva inventato un modulo che, quando appariva uno spot pubblicitario in televisione, automaticamente sopprimeva l’audio. All’inizio, non si trattava di un congegno per il riconoscimento contestuale. Controllava semplicemente l’ampiezza del portante: i pubblici tari della TV avevano preso l’abitudine di trasmettere i loro comunicati a un volume più alto e con minore rumore di fondo rispetto ai programmi che costituivano i loro veicoli nominali. La notizia del modulo di Hadden si diffuse oralmente. La gente si sentì sollevata, liberata da un grave fardello, persino felice di essere salvata da quell’ondata pubblicitaria durante le sei-otto ore al giorno che l’americano medio trascorreva davanti al televisore. Prima che ci potesse essere una qualsiasi reazione coordinata da parte dell’industria pubblicitaria televisiva, l’Adnix era diventato incredibilmente popolare. Costrinse i pubblicitari e le reti televisive a nuove scelte di strategia del portatore, che Hadden vanificava con una nuova serie di invenzioni. Qualche volta inventò dei circuiti per sconfiggere strategie che le agenzie e i networks non avevano ancora escogitato. Soleva dire che stava risparmiando loro l’affanno di produrre delle invenzioni che sarebbero costate care ai loro azionisti e che erano, a ogni modo, destinate al fallimento. Quando aumentò il volume delle sue vendite, continuò a ridurre i prezzi. Era una sorta di guerra elettronica. E lui stava vincendo. Cercarono di citarlo in giudizio accusandolo di voler in qualche modo limitare il commercio. Avevano sufficiente forza politica perché venisse respinta la sua mozione per un’assoluzione sommaria, ma insufficiente influenza per vincere davvero il caso. Il processo aveva costretto Hadden ad approfondire i relativi codici legali. Non molto tempo dopo, egli chiese, attraverso una ben nota agenzia di Madison Avenue di cui era diventato un importante socio accomandante, di poter pubblicizzare il suo stesso prodotto sulle TV commerciali. Dopo alcune settimane di polemiche, i suoi spot vennero rifiutati. Egli citò in tribunale tutte e tre le reti e in questo processo fu in grado di dimostrare un complotto per limitazione di commercio. Ricevette un enorme indennizzo che costituì all’epoca, un record per casi di questo tipo, e che contribuì, nel suo piccolo, alla fine delle reti originarie. C’erano sempre state persone cui piaceva la pubblicità, naturalmente, e quelle non avevano nessun bisogno dell’Adnix. Ma erano una minoranza che si andava riducendo sempre più. Hadden si costruì una grossa fortuna sferrando un duro colpo alle trasmissioni pubblicitarie, ma si fece anche molti nemici. I microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale facevano la loro comparsa sul mercato e Hadden aveva già pronto il Preachnix, un sottomodulo che poteva essere collegato all’Adnix. Il nuovo congegno avrebbe semplicemente commutato i canali se per caso fosse stato trasmesso un programma religioso. Si potevano preselezionare parole chiave, come «Avvento» o «Estasi» e tagliare grandi fasce nella programmazione disponibile. Il Preachnix riscosse un vastissimo successo in seno a una significativa minoranza di spettatori televisivi che avevano portato anche troppa pazienza. C’era in giro la chiacchiera, solo in parte attendibile, che il prossimo sottomodulo di Hadden si sarebbe chiamato Jivenix e avrebbe agito soltanto sui discorsi pubblici di presidenti e premier. Sviluppando ulterioremente i microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale, Hadden si rese conto della possibilità di una loro ben più ampia applicazione — dall’educazione, scienza e medicina, ai servizi segreti militari e allo spionaggio industriale. Fu questa la ragione che portò alla famosa causa «Gli Stati Uniti contro la Cibernetica Hadden». Uno dei microcircuiti integrati di Hadden era stato considerato troppo valido per la vita civile, e su raccomandazione della National Security Agency, gli impianti e il personale qualificato per la produzione più avanzata dei microcircuiti integrati di riconoscimento contestuale furono schedati dal governo. Era semplicemente più importante poter leggere la posta dei russi. Dio solo sapeva, gli dissero, cosa sarebbe potuto accadere se i russi fossero stati in grado di leggere la nostra di posta. Hadden si rifiutò di cooperare al passaggio del controllo e dichiarò solennemente che si sarebbe dedicato ad altri settori possibilmente privi di connessioni con la sicurezza nazionale. Il governo stava nazionalizzando l’industria, disse. Si proclamavano capitalisti, ma al momento opportuno, mostravano il loro volto socialista. Aveva trovato un bisogno pubblico insoddisfatto e usato una nuova tecnologia esistente e legale per consegnare loro quello che volevano. Era capitalismo classico. Ma c’erano molti capitalisti moderati che dicevano che egli si era già spinto troppo oltre con l’Adnix, rappresentando una reale minaccia per il sistema di vita americano. In una severa colonna firmata da V. Petrov, la «Pravda» definiva la cosa un concreto esempio delle contraddizioni del capitalismo. Il «Wall Street Journal» ribatteva, forse un po’ impropriamente, definendo la «Pravda», parola che in russo significa «verità», un concreto esempio delle contraddizioni del comunismo. Hadden sospettò che l’assunzione del controllo da parte dello stato fosse solo un pretesto, che la sua vera colpa fosse stata quella di attaccare la pubblicità e l’evangelismo sul video. Adnix e Preachnix erano l’essenza dell’imprenditorialità capitalistica, sostenne Hadden ripetutamente. Compito del capitalismo era, secondo i presupposti, di fornire alla gente delle alternative. «Beh, l’assenza di pubblicità è un’alternativa, dissi loro. Ci sono enormi bilanci pubblicitari solo quando non c’è nessuna differenza tra i prodotti. Se i prodotti fossero davvero diversi, la gente comprerebbe quello migliore. La pubblicità insegna alla gente a non fidarsi del proprio giudizio. La pubblicità insegna alla gente a essere stupida. Un paese forte ha bisogno di gente intelligente. Perciò l’Adnix è patriottico. Gli industriali possono impiegare parte dei loro bilanci destinati alla pubblicità per migliorare i loro prodotti. Il consumatore ne trarrà beneficio. Riviste, giornali e pubblicità postale avranno un boom e ciò attenuerà il dispiacere delle agenzie specializzate. Non vedo quale sia il problema.» L’Adnix, molto più delle innumerevoli querele sporte contro le reti commerciali originarie, condusse direttamente alla loro fine. Per un po’ ci fu un piccolo esercito di dirigenti pubblicitari disoccupati, di ex funzionari televisivi in miseria, di teologi al verde che avevano giurato solennemente di vendicarsi di Hadden. E così ci fu un numero sempre crescente di ancor più temibili avversari. Senza alcun dubbio, Ellie pensò, Hadden era un uomo interessante. «Perciò immagino che sia tempo di andare. Ho accumulato tanto denaro che non so più che farmene, mia moglie non riesce a sopportarmi, e ho nemici ovunque. Voglio fare qualcosa di importante, qualcosa di meritevole. Voglio fare qualcosa che mi ricordi alla gente fra centinaia di anni, che susciti la gratitudine dei posteri.» «Lei vuole…» «Io voglio costruire la Macchina. Guardi, sono la persona adatta. Ho la più grande competenza di cibernetica, di cibernetica applicata, del settore — superiore a quella di Carnegie-Mellon, superiore a quella del MIT, superiore a quella di Stanford, di Santa Barbara. E se ci si ricava una certezza da questi progetti è che non è lavoro per un costruttore poco aggiornato. E avrete bisogno di qualcosa come l’ingegneria genetica. Non troverete nessuno più addentro in questo campo. E io lo farò a prezzo di costo.» «Signor Hadden, non dipende certo da me stabilire chi debba costruire la Macchina, se mai arriveremo alla fase realizzativa. Si tratta di una decisione internazionale. Vi sono implicate ragioni politiche di ogni sorta. A Parigi stanno ancora discutendo se costruire la cosa, se e quando si decifrerà il Messaggio.» «Crede che non lo sappia? Anch’io sto facendo ricorso agli abituali canali delle influenze politiche e della corruzione. Voglio solo che i sostenitori del progetto mettano una buona parola per me per i giusti motivi. Mi capisce? E parlando di sostenitori, lei è riuscita davvero a sconvolgere Palmer Joss e Billy Jo Ran-kin. Non li ho mai visti così agitati da quella volta del pasticcio delle acque di Maria. Rankin va dicendo di essere stato deliberatamente frainteso circa il suo presunto appoggio alla realizzazione della Macchina. Accidenti!» Scosse il capo con ironica costernazione. Sembrava abbastanza verosimile che esistesse una certa personale inimicizia di vecchia data tra quegli attivi predicatori e l’inventore del Preachnix, ed Ellie per qualche ragione si sentì spinta a prender le loro difese. «Sono entrambi molto più intelligenti di quanto lei possa pensare. E Palmer Joss è… beh, c’è qualcosa di autentico in lui. Non_è un impostore.» «E sicura che non si tratti solo di un’altra bella faccia? Mi scusi, ma è importante che la gente capisca i propri sentimenti al riguardo. E’ troppo grave non capirli. Conosco questi pagliacci. Sotto sotto, quando se ne presenta l’occasione, sono sciacalli. Un mucchio di gente trova la religione attraente, sa, personalmente, sessualmente. Dovrebbe vedere ciò che succede nel tempio di Ishtar.» Ellie represse un brivido di disgusto. «Credo che accetterò quel drink,» disse. Guardando giù dall’attico, poteva vedere i gradoni della zig-gurat ornati di fiori, artificiali o veri a seconda della stagione. Era una ricostruzione dei giardini pensili di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico. Miracolosamente, era stata fatta in modo da non assomigliare troppo a un hotel Hyatt. In basso, potè scorgere una processione di fiaccole che si snodava dalla ziggurat in direzione della porta di Enlil. Era aperta da una specie di portantina sorretta da quattro uomini nerboruti a torso nudo. Non riuscì ad appurare chi o cosa ci fosse dentro. «E’ una cerimonia in onore di Gilgamesh, uno degli eroi dell’antica cultura sumerica.» «Sì, ne ho sentito parlare.» «Era specializzato in immortalità.» Disse ciò in tono prosaico, a mo’ di spiegazione, e guardò il suo orologio. «Era sulla cima della ziggurat che i re si recavano a ricevere le istruzioni degli dei. Specialmente da Anu, il dio del cielo. Tra parentesi, ho scoperto come chiamavano Vega: Tiranna, la Vita del Cielo. Buffo, no?» «E lei ha ricevuto istruzioni?» «No, sono arrivate da lei, non da me. Ma ci sarà un’altra processione di Gilgamesh alle nove.» «Temo di non poter rimanere così a lungo. Ma permetta che le chieda qualcosa. Perché Babilonia? E Pompei? Lei è una delle persone più dotate di inventiva che ci siano in circolazione. Lei ha creato parecchie importanti industrie; ha battuto l’industria della pubblicità sullo stesso terreno. D’accordo, lei è stato sconfitto in quell’affare della sicurezza provocato dal microcircuito integrato di riconoscimento contestuale. Ci sono moltissime altre cose che lei potrebbe aver realizzato. Perché… questa?» Lontano, la processione aveva raggiunto il tempio di Assur. «Perché non qualcosa di più… meritevole?» chiese Hadden. «Sto solo tentando di soddisfare quei bisogni della società che il governo trascura o ignora del tutto. E’ capitalismo. E’ legale. Rende felice moltissima gente. E credo sia una valvola di sicurezza per qualcuno di quei pazzi che questa nostra società continua a generare. Ma all’epoca non ci avevo ancora riflettuto. E’ molto semplice. Posso ricordare esattamente quando mi balenò l’idea di Babilonia. Ero a Disneyland, sul battello a ruota del Mississippi con il mio nipotino Jason, che allora poteva avere quattro o cinque anni. Stavo pensando a come fossero stati furbi gli amministratori di Disneyland a eliminare i biglietti individuali per ogni attrazione e a offrire invece un lasciapassare valido un giorno che consentiva l’accesso a tutte. Risparmiavano alcuni salari, quelli dei controllori, per esempio. Ma, fattore molto più importante, la gente era portata a sopravvalutare il suo appetito per i divertimenti. Avrebbero pagato una quota forfettaria per essere ammessi a tutto, e poi si sarebbero accontentati di molto meno. Ora, accanto a me e a Jason, c’era un ragazzine di otto anni con un’espressione distratta nello sguardo. Tiro a indovinare la sua età. Forse aveva dieci anni. Suo padre gli stava chiedendo delle cose e lui rispondeva a monosillabi. Il bambino stava baloccandosi con la canna di un fucile giocattolo che teneva rivolto in alto sulla sua sedia a sdraio. Il calcio era stretto tra le gambe. Tutto quello che voleva era di essere lasciato solo e di poter carezzare in pace il suo fucile. Dietro a lui, s’innalzavano le torri e le guglie del Regno Magico, e all’improvviso ogni cosa andò a posto. Capisce ciò che sto dicendo?» Si riempì un bicchiere di coca cola dietetica e lo fece tintinnare contro il suo. «Bevo alla sconfitta dei nemici,» brindò lui giovialmente. «La farò accompagnare fuori per la porta di Ishtar. La processione creerà troppi ingorghi verso la porta di Enlil.» Entrambe le scorte apparvero come per magia e fu chiaro che la si stava congedando. Desiderava poco trattenersi. «Non dimentichi la modulazione di fase e guardi nelle righe dell’ossigeno. Ma anche se sbaglio riguardo alla collocazione del sillabario, non scordi: sono l’unico in grado di costruire la Macchina.» I riflettori illuminavano a giorno la porta di Ishtar, decorata da animali azzurri in ceramica vetrificata. Gli archeologi li avevano chiamati dragoni. 14 OSCILLATORE ARMONICO «Lo scetticismo è la castità dell’intelletto, ed è vergognoso abbandonarlo troppo presto o nelle mani del primo venuto: è cosa nobile conservarlo con freddezza e orgoglio durante una lunga giovinezza, finché alla fine, nella maturità dell’istinto e della discrezione, può essere barattato in tutta sicurezza con fedeltà e gioia.»      GEORGE SANTAYANA, Scetticismo e fede animale, IX Era in missione di rivolta e sovversione. Il nemico era enormemente più grande e più potente. Ma ne conosceva la debolezza. Poteva assumere il controllo del governo alieno, volgendo le risorse dell’avversario ai propri fini. Ora, con milioni di agenti devoti piazzati… Lei starnutì e cercò di trovare un fazzoletto di carta pulito nella tasca rigonfia dell’accappatoio presidenziale di spugna. Non era truccata, e le sue labbra screpolate rivelavano macchie di balsamo mentolato. «Il mio medico mi dice che devo rimanere a letto o mi beccherò una polmonite virale. Gli chiedo un antibiotico e lui mi dice che non c’è nessun antibiotico per i virus. Ma come fa a sapere che ho un virus?» Der Heer aprì la bocca per rispondere, ma la Presidente lo bloccò. «No, fa niente. Comincerai a parlarmi del DNA e del riconoscimento dell’ospite e avrò bisogno di tutte le forze che mi restano per ascoltare le tue storie. Se non hai paura del mio virus, prendi una poltrona.» «Grazie, Presidente. Si tratta del sillabario. Ho qui il rapporto. C’è una lunga sezione tecnica in appendice. Ho pensato che potesse interessarla. In breve, stiamo leggendo e comprendendo davvero la cosa quasi senza difficoltà. E un programma di apprendimento diabolicamente intelligente. Non intendo il ‘diabolicamente’ nel senso letterale della parola, naturalmente. Dovremmo ormai essere in possesso di un vocabolario di tremila termini.» «Non capisco come ciò sia possibile. Riuscirei a capire come siano in grado di insegnarci i nomi dei loro numeri. Si fa un punto e sotto si scrivono le lettere UNO e così via. O si ha la foto di una stella e ci si scrive sotto STELLA. Ma non vedo come si possa fare per i verbi, per i modi e i tempi.» «In parte ci riescono con filmati. I filmati sono perfetti per i verbi. Per molte altre cose adoperano i numeri. Persino per le astrazioni; riescono a comunicare delle astrazioni con numeri. Funziona pressappoco così: prima elencano i numeri per noi, e poi introducono qualche nuova parola, parole che noi non capiamo. Ecco, indicherò le loro parole con lettere. Leggiamo qualcosa di simile (le lettere stanno per simboli introdotti dagli alieni)». Egli scrisse: 1A1B2Z 1A2B3Z 1A7B8Z «Che cos’è secondo lei?» «Il mio tesserino della scuola superiore? Intendi dire che la A sta per una combinazione di punti e di linee, e che la B sta per una differente combinazione di punti e di linee, e così via?» «Esattamente. Si sa cosa significano uno o due, ma non si conosce il significato di A e B. Che cosa le dice una sequenza di questo tipo?» «A significa ‘più’ e B significa ‘uguale’. E’ così?» «Bene. Ma non comprendiamo ancora il significato di Z, giusto? Adesso sta scrivendo»: 1A2B4Y «Capisce?» «Forse. Dammene un altro che termini in Y.» 2000A4000BOY «Okay, credo di esserci arrivata. Purché non legga gli ultimi tre simboli come una parola, Z significa vero e Y falso.» «Giusto. Esattamente. Abbastanza bene per una Presidente alle prese con un virus e una crisi sudafricana. Così, con alcune righe di testo ci hanno insegnato quattro parole: più, uguale, vero, falso. Quattro parole piuttosto utili. Poi insegnano la divisione, dividono uno per zero, e ci dicono la parola per infinito. O forse si tratta solo della parola per indeterminato. Oppure dicono: ‘La somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli retti.’ Quindi commentano che l’asserzione è vera se lo spazio è piatto, ma falsa se lo spazio è curvo. Così si è arrivati a imparare come si dice ‘se’ e…» «Non sapevo che lo spazio fosse curvo. Ken, di che diavolo stai parlando? Come può lo spazio essere curvo? No, non importa, non importa. Questo non può avere nulla a che vedere con il problema che abbiamo di fronte.» «In realtà…» «Sol Hadden mi dice che era sua l’idea di dove potesse trovarsi il sillabario. Non guardarmi in quel modo strano, der Heer. Io parlo con tutti.» «Non intendevo dire… ah… Da quel che so, il signor Hadden ha dato alcuni suggerimenti, che erano stati avanzati pure da altri scienziati. Il dottor Arroway li ha controllati e ha trovato la soluzione in uno di essi. Si chiama modulazione di fase o codificazione di fase.» «Sì. Ma adesso dimmi se è giusto, Ken! Il sillabario è disperso nel Messaggio, vero? Moltissime ripetizioni. E c’era un sillabario anche poco dopo che Arroway captò per la prima volta il segnale.» «Poco dopo che Arroway scovò il terzo strato del palinsesto, il progetto della Macchina.» «E molti paesi hanno la tecnologia per leggere il sillabario, vero?» «Beh, hanno bisogno di un congegno chiamato correlatore di fase. Ma sì. I paesi che contano, a ogni modo.» «Allora i russi potrebbero aver letto il sillabario un anno fa, giusto? O i cinesi o i giapponesi. Come si fa a sapere che non siano già a metà della costruzione della Macchina?» «Q ho pensato. Ma Marvin Yang dice che è impossibile. Fotografia spaziale, spionaggio elettronico, gente dell’ambiente, tutto conferma che non c’è nessun segno del grosso impegno costruttivo richiesto per la realizzazione della Macchina. No, siamo tutti rimasti in attesa di un mutamento. Eravamo sedotti dall’idea che il sillabario dovesse giungere all’inizio e non si trovasse disseminato nel Messaggio. E solo quando il Messaggio è ripartito da capo e abbiamo scoperto che non c’era, che abbiamo cominciato a pensare ad altre possibilità. Tutto questo lavoro è stato compiuto in stretta collaborazione con i russi e con tutti gli altri. Non crediamo che qualcuno ci sia passato davanti, ma d’altro canto, tutti hanno il sillabario adesso. Non penso che ci sia nessuna linea di azione unilaterale per noi.» «Non voglio una linea di azione unilaterale per noi. Voglio solo accertarmi che nessun altro abbia una linea di azione unilaterale. Okay, allora ritorniamo al sillabario. Sai come si dice vero-falso, se-quindi, e che lo spazio è curvo. Ma come si può costruire una Macchina con questa roba?» «Sa, non credo che questo raffreddore, o qualunque cosa lei si sia buscata, l’abbia messa fuori combattimento per un attimo. Beh, si parte proprio da lì. Per esempio, tracciano per noi un sistema periodico degli elementi, così arrivano a nominare tutti gli elementi chimici, l’atomo, il nucleo, i protoni, i neutroni, gli elettroni. Poi affrontano un po’ di meccanica quantistica, solo per accertarsi che stiamo attenti; ci sono già alcune nuove intuizioni per noi nel materiale propedeutico. Poi, ci si comincia a concentrare sui materiali particolari che sono richiesti per la costruzione. Per esempio, per qualche ragione, abbiamo bisogno di due tonnellate di erbio, così esaminano una tecnica intelligente per estrarlo da rocce comuni.» Der Heer l’invitò con un gesto della mano a restar calma. «Non mi chieda perché abbiamo bisogno di due tonnellate di erbio. Nessuno ne ha la più pallida idea.» «Non stavo per chiedertelo. Voglio sapere come vi hanno detto quant’è una tonnellata.» «L’hanno calcolata per noi sulle masse di Plank. Una massa di Plank è…» «Non importa, non importa. Si tratta certo di qualcosa che tutti i fisici dell’universo conoscono, vero? E io non ne ho mai sentito parlare. Adesso la questione basilare. Capiamo il sillabario abbastanza da poter cominciare a leggere il Messaggio? Saremo in grado di costruire la cosa oppure no?» «La risposta sembra essere affermativa. Siamo in possesso del sillabario solo da alcune settimane, ma interi capitoli del Messaggio ci sono già chiari in tutti i dettagli. Dovremmo avere un modello tridimensionale della Macchina per lei in tempo per l’incontro di giovedì per la selezione dell’equipaggio, se sarà in grado di affrontarlo. Finora, non abbiamo idea dell’utilità o del funzionamento della Macchina. E ci sono certi strani componenti chimici organici che non sembra davvero possano far parte di una macchina. Ma quasi tutti sembrano convinti che si possa costruire la cosa.» «Chi non lo è?» «Beh, Lunacarskij e i russi. E Billy Jo Rankin, naturalmente. C’è ancora gente che teme che la Macchina possa far saltare per aria il mondo o modificare l’inclinazione dell’asse terrestre, o cose del genere. Ma ciò che ha colpito di più gli scienziati è la precisione delle istruzioni e la molteplicità di spiegazioni per lo stesso argomento.» «E che dice Eleanor Arroway?» «Dice che se vogliono eliminarci saranno qui in venticinque anni o poco più e che non c’è nulla che si possa fare in venticinque anni per proteggerci. Sono troppo avanti rispetto a noi. Perciò è favorevole alla realizzazione della Macchina, e, se si è preoccupati dei rischi che può presentare per l’ambiente, suggerisce di costruirla in una località remota. Il professor Drumlin afferma che la si può realizzare anche nel centro di Pasadena, per quel che lo riguarda. Infatti dice che seguirà i lavori della Macchina minuto per minuto, così sarà il primo a partire se ci sarà un’esplosione.» «Drumlin è il tipo che ha scoperto che si trattava del progetto per una Macchina, vero?» «Non esattamente, lui…» «Leggerò tutto il materiale informativo in tempo per l’incontro di giovedì. Hai qualcos’altro per me?» «Sta seriamente considerando di lasciar costruire la Macchina ad Hadden?» «Beh, non dipende soltanto da me, come sai. Quel trattato che stanno elaborando a Parigi ci assegna circa un quarto del potere decisionale. I russi ne posseggono un quarto, i cinesi e i giapponesi insieme dispongono di un quarto e il resto del mondo ne ha pure un quarto. Molte nazioni vogliono costruire la Macchina, o almeno parti di essa. Stanno pensando in termini di prestigio, di nuove industrie, di nuove conoscenze. Finché nessuno ci passerà davanti, mi va bene tutto. E’ possibile che Hadden ne ottenga un pezzo. Qual è il problema? Non credi che sia tecnicamente competente?» «Lo è certamente. Si tratta solo…» «Se non c’è nient’altro, Ken, ci vediamo giovedì, virus permettendo.» Mentre der Heer stava chiudendo la porta ed entrando nella contigua stanza di soggiorno, si udì un tremendo starnuto presidenziale. Il sergente maggiore di giornata, che stava seduto impettito e rigido su un divano, rimase visibilmente spaventato. La borsa ai suoi piedi era gonfia di codici di autorizzazione per guerra nucleare. Der Heer lo rassicurò con un gesto ripetuto della mano e il militare fece un sorriso di scuse. «Quella è Vega? E’ quella la responsabile di tanto trambusto?» chiese la Presidente leggermente delusa. I fotoreporter se ne erano finalmente andati e i suoi occhi si erano quasi adattati al buio dopo l’assalto dei flash e dei riflettori televisivi. Le immagini della Presidente che guardava decisa nel telescopio dell’osservatorio navale, apparse su tutti i giornali del giorno dopo, erano, naturalmente, una piccola mistificazione. Non era riuscita a vedere nulla nel telescopio finché i fotografi non si erano allontanati ed era ripiombata l’oscurità. «Perché tremola?» «E’ la turbolenza dell’aria, Presidente,» spiegò der Heer. «Sacche calde d’aria passano davanti e distorcono l’immagine.» «E’ come guardare Sey la mattina a colazione quando c’è un tostapane tra noi. Ricordo di aver visto un lato del suo volto ondeggiare,» disse con tono affettuoso, alzando la voce perché il suo consorte, intento a conversare a qualche metro di distanza con il comandante dell’osservatorio, potesse sentire. «Siii, nessun tostapane sulla tavola della prima colazione, questi giorni,» ribattè amabilmente il marito. Seymour Lasker, prima del suo ritiro, era un alto funzionario dell’International Ladies Garment Workers Union. Aveva incontrato sua moglie decenni prima, quando lei rappresentava la New York Coat Company, e si erano innamorati durante un laborioso accordo sindacale. Considerando la novità attuale delle loro due posizioni, l’apparente salute del loro rapporto era notevole. «Posso fare a meno del tostapane, ma non delle colazioni con Sey che purtroppo si vanno facendo sempre più rare da quando è cominciata tutta questa faccenda.» Aggrottò le sopracciglia nella sua direzione, quindi ritornò al monoculare. «Sembra un’ameba blu, tutta… ballonzolante.» Dopo l’impegnativo incontro per la selezione dell’equipaggio, la Presidente era in uno stato d’animo sereno. Il suo raffreddore se ne era quasi andato. «Che accadrebbe se non ci fosse turbolenza, Ken? Che cosa vedrei allora?» «Allora sarebbe proprio come guardare attraverso il telescopio spaziale al di sopra dell’atmosfera terrestre. Lei vedrebbe un punto luminoso fermo, immobile, senza tremolii.» «Solo la stella? Solo Vega? Nessun pianeta, nessun anello, nessuna stazione per battaglie laser?» «No, Presidente. Tutto ciò sarebbe troppo piccolo e debole da vedere anche con un potentissimo telescopio.» «Bene, spero che i tuoi scienziati sappiano quello che stanno facendo,» disse lei sommessamente. «Ci stiamo assumendo una quantità spaventosa di impegni per qualcosa che non abbiamo mai visto.» Der Heer rimase un po’ stupito. «Ma abbiamo visto trentun-mila pagine di testo, foto, parole, oltre a un enorme sillabario.» «Per me, non è lo stesso che vedere realmente qualcosa. La cosa è un po’ troppo… deduttiva. Non parlarmi degli scienziati di tutto il mondo che ricevono gli stessi dati. Lo so benissimo. E non dirmi come siano chiare e precise le cianografie per la Macchina. So anche questo. E se noi ci ritiriamo, qualcun altro di certo costruirà la Macchina. Sono a conoscenza di tutte queste cose, ma sono ancora nervosa.» Il gruppo ripercorse lentamente l’osservatorio navale annesso alla residenza del Vice-Presidente. Accordi preliminari sulla selezione dell’equipaggio erano stati elaborati con cura a Parigi nelle ultime settimane. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano discusso per due posti ciascuno nell’equipaggio; in cose del genere erano buoni alleati. Ma il difficile era sostenere tale loro posizione con le altre nazioni dell’Associazione. In quei giorni, era molto più arduo per l’America e la Russia — anche dove erano d’accordo — far capire il loro punto di vista alle altre nazioni del mondo, com’era accaduto in passato. Ora si sollecitava l’impresa ovunque, come un’attività della specie umana. La definizione «Associazione Mondiale per il Messaggio» stava per essere cambiata in «Associazione Mondiale per la Macchina». Stati in possesso di sezioni del Messaggio cercavano di sfruttare la cosa come un biglietto d’ingresso nell’equipaggio per uno dei loro cittadini. I cinesi avevano tranquillamente sostenuto che entro la metà del secolo seguente sarebbero stati un bilione e mezzo, ma con molti figli unici a causa dell’esperimento cinese di controllo statale delle nascite. Quei bambini, una volta cresciuti, stando alle previsioni, sarebbero stati più intelligenti e più stabili emotivamente dei bambini delle altre nazioni meno soggette a norme di pianificazione familiare. Dato che i cinesi avrebbero rivestito un ruolo di maggior importanza negli affari mondiali del futuro, si meritavano almeno uno dei cinque posti della Macchina. Era un argomento discusso adesso in molte nazioni da funzionari senza nessuna responsabilità per il Messaggio o per la Macchina. L’Europa e il Giappone rinunciarono a una rappresentativa nell’equipaggio in cambio di responsabilità importanti nella costruzione dei componenti della Macchina: ritenevano che sarebbero stati di maggior beneficio economico. Alla fine, un posto venne riservato agli Stati Uniti, uno alla Russia, uno alla Cina, uno all’India e il quinto restò per il momento vacante. Questo fu il risultato di un lungo e difficile negoziato multilaterale, in base a numero di abitanti, potere economico, industriale e militare, attuali allineamenti politici, e persino a considerazioni di ordine storico. Per il quinto posto si candidarono il Brasile e l’Indonesia per la loro popolazione e l’equilibrio geografico; la Svezia si propose come moderatrice in caso di controversie politiche; l’Egitto, l’Irak, il Pakistan e l’Arabia Saudita discussero su basi di equità religiosa. Altri suggerirono che almeno quel quinto posto dovesse essere assegnato in base al merito individuale piuttosto che all’appartenenza nazionale. Per il momento comunque, la decisione fu lasciata in sospeso; sarebbe stato un problema spinoso in seguito. Nelle quattro nazioni prescelte, scienziati, leader nazionali, e altri personaggi erano impegnati nella scelta dei loro candidati. Negli Stati Uniti si tenne una sorta di dibattito nazionale. Nel corso di inchieste e sondaggi d’opinione, capi religiosi, campioni sportivi, astronauti, vincitori di medaglie d’onore del Congresso, scienziati, attori di cinema, la moglie di un presidente precedente, conduttori di special televisivi e annunciatori di notiziari, membri del Congresso, miliardari con velleità politiche, dirigenti di istituzioni, cantanti di musica country e western e di rock-and-roll, rettori di università, e la Miss America in carica vennero tutti appoggiati con vari gradi di entusiasmo. Fin da quando la residenza del Vice-Presidente era stata trasferita nell’area dell’osservatorio navale, i domestici erano stati dei sottufficiali filippini in servizio attivo nella marina statunitense. Nelle loro eleganti giacche blu, su cui spiccavano le parole ricamate in oro «Vice-Presidente degli Stati Uniti», stavano ora servendo il caffè. La maggior parte dei partecipanti a quell’incontro per la selezione dell’equipaggio che si era protratto per tutto il giorno non erano stati invitati a quell’informale riunione serale. Era stato il singolare destino di Seymour Lasker quello di finire primo First Gentleman d’America. Egli portava il suo fardello — i fumetti dei giornali, le battute ironiche, il dileggio per essere arrivato dove nessun uomo era arrivato prima — con tanta disinvoltura e amabilità che alla fine l’America riuscì a perdonargli di aver sposato una donna che aveva avuto l’audacia di immaginare di poter guidare mezzo mondo. Mentre Lasker intratteneva la moglie del VicePresidente e il figlio minorenne che rideva rumorosamente, la Presidente condusse der Heer in una vicina sala di lettura. «Benissimo,» cominciò lei. «Non si deve prendere nessuna decisione ufficiale oggi e non si deve rilasciare nessuna dichiarazione riguardante le nostre deliberazioni. Ma vediamo se è possibile ricapitolare. Non sappiamo ciò che farà quella maledetta Macchina, ma è ragionevole supporre che partirà per Vega. Nessuno ha la benché minima idea di come funzionerà o di quanto tempo impiegherà. Dimmelo ancora, quanto è lontana Vega?» «Ventisei anni luce, Presidente.» «E allora, se questa Macchina fosse una sorta di nave spaziale e potesse viaggiare alla velocità della luce — so che non può viaggiare esattamente alla velocità della luce, e non interrompermi — impiegherebbe ventisei anni per giungere a destinazione, ma soltanto in tempo terrestre, giusto der Heer?» «Sì. Esattamente. Più forse un anno per raggiungere la velocità della luce e un altro anno per decelerare nel sistema di Vega. Ma dal punto di vista dei membri dell’equipaggio, ci vorrà molto meno. Forse solo un paio di anni; dipende dalla velocità, più o meno prossima a quella della luce, del loro viaggio.» «Per un biologo, der Heer, hai imparato molta astronomia.» «Grazie, Presidente. Ho cercato di immergermi nella materia.’ Lei lo fissò per un attimo e poi proseguì. «Quindi, purché la Macchina viaggi molto vicina alla velocità della luce, ha poca importanza l’età dei membri dell’equipaggio. Ma se ci vorranno dieci o vent’anni o di più, e dici che è possibile, allora dovremmo avere qualcuno di giovane. Ora, i russi a questo non credono, visto che sono incerti tra Arkhangelskij e Lunacarskij, entrambi sulla sessantina.» Aveva letto i nomi in maniera piuttosto incerta da una scheda che aveva davanti. «I cinesi invieranno quasi certamente Xi. Anche lui è sulla sessantina. Perciò, se sono convinta che sappiano quello che stanno facendo, sarei tentata di dire: ‘Che diavolo, mandiamo anche noi un sessantenne.’ « Drumlin, der Heer lo sapeva, aveva esattamente sessant’anni. «D’altra parte…» ribattè lui. «Lo so, lo so. La dottoressa indiana; ha una quarantina d’anni… In un certo qual modo, è la cosa più stupida che mi sia mai capitato di sentire. Stiamo scegliendo qualcuno da far partecipare alle olimpiadi e non sappiamo quali siano le gare in programma. Non so perché si stia parlando di inviare degli scienziati. Il Mahatma Gandhi, ecco chi dovremmo mandare. O già che ci siamo, Gesù Cristo. Non dirmi che non sono disponibili, der Heer, lo so.» «Quando non si sa quali siano le gare da affrontare, si manda un campione di decathlon.» «E poi si scopre che la gara è di scacchi, o di oratoria, o di scultura e allora l’atleta in questione finisce ultimo. Okay, tu dici che dovrebbe trattarsi di qualcuno che si è occupato della vita extraterrestre e che ha avuto a che fare strettamente con la ricezione e la decifrazione del Messaggio.» «Almeno una persona del genere sarebbe molto vicina al modo di pensare degli alieni. O almeno al modo di pensare che viene attribuito loro.» «E quanto alle persone veramente adatte, dici che il campo si restringe a tre.» Di nuovo consultò le sue note. «Arroway, Drumlin, e… quello che crede di essere un generale romano.» «Il dottor Valerian, Presidente. Non so se creda di essere un generale romano; è solo il suo nome.» «Valerian non ha voluto neppure rispondere al questionario del comitato di selezione. Non lo ha fatto per non lasciare la moglie? E’ vero? Non lo sto criticando. Non è uno sciocco. Sa come far funzionare un rapporto di coppia. Non è che sua moglie sia malata o qualcosa di simile?» «No, per quel che ne so, è in eccellente salute.» «Bene. Buon per loro. Mandale una nota personale da parte mia, qualcosa su che donna deve essere perché un astronomo arrivi a rinunciare all’universo per lei. Ma usa un bel linguaggio, der Heer. Sai quello che voglio. E infilaci dentro qualche citazione. Qualche verso, forse. Ma senza esagerare.» Puntò il suo indice contro di lui. «Quei Valerian possono insegnare qualcosa a noi tutti. Perché non li invitiamo a una cena ufficiale? Il re del Nepal sarà qui tra due settimane. Sarà l’occasione propizia.» Der Heer stava prendendo appunti furiosamente. Avrebbe dovuto chiamare il segretario per gli appuntamenti della Casa Bianca al suo domicilio una volta finita la riunione, e aveva una telefonata ancora più urgente da fare. Non era stato in grado di avvicinarsi al telefono per ore. «Allora ci restano Arroway e Drumlin. Lei ha circa vent’anni di meno, ma lui è in una forma fisica perfetta. Va in deltaplano, si lancia con il paracadute, fa immersioni con l’autorespiratore… è uno scienziato brillante, ha contribuito largamente a risolvere il mistero del Messaggio, e passerà momenti piacevoli discorrendo con tutti gli altri anziani. Non ha mai lavorato ad armi nucleari, vero? Non voglio mandare qualcuno che ha avuto a che fare con armi nucleari. Ora, anche Arroway è una brillante scienziata. Ha diretto l’intero Progetto Argus, conosce tutti i particolari del Messaggio, e ha una mente avida di sapere. Tutti dicono che i suoi interessi sono vastissimi. E darebbe un’immagine americana più giovane.» Si interruppe un attimo. «E lei ti piace, Ken. Niente di male. Piace anche a me. Ma talvolta non riesce a controllarsi. Hai ascoltato attentamente il suo questionario?» «Penso di sapere a che cosa si sta riferendo, Presidente. Ma il comitato di selezione è andato avanti a interrogarla per quasi otto ore e qualche volta lei si è seccata quando le hanno rivolto domande che considerava stupide. Drumlin è così anche lui. Forse Arroway ha imparato da lui. E’ stata una sua studentessa per un certo periodo, sa.» «Già, anche Drumlin ha detto qualche sciocchezza. Ecco, dovrebbe essere tutto registrato per noi su questo VCR. Prima c’è il questionario di Arroway, poi quello di Drumlin. Non hai altro che da premere il tasto ‘play’, Ken.» Sullo schermo televisivo apparve Ellie mentre veniva intervistata nel suo ufficio, all’Argus. Poteva persino distinguere il pezzo di carta ingiallito con la citazione kafkiana. Forse, tutto considerato, Ellie sarebbe stata più felice se avesse ricevuto solo silenzio dalle stelle. Aveva delle rughette attorno alla bocca e le borse sotto gli occhi. C’erano anche due nuove pieghe verticali sulla sua fronte, proprio al di sopra del naso. Ellie sul videotape aveva un aspetto terribilmente stanco, e der Heer provò una stretta al cuore, un senso di colpa. «Che penso del boom demografico mondiale?» stava dicendo Ellie. «Vuole dire se sono favorevole o contraria? Pensa si tratti di una domanda chiave che mi verrà posta su Vega, e lei vuole accertarsi che dia la risposta esatta? Okay. La sovrappopolazione è la ragione per cui sono a favore dell’omosessualità e del celibato ecclesiastico. Il celibato dei preti è un’idea particolarmente buona perché tende a sopprimere ogni propensione ereditaria al fanatismo.» Ellie aspettava la domanda seguente completamente immobile. La Presidente aveva premuto il bottone «pause». «Dunque, ammetto che alcune domande possano non essere state delle più felici», continuò la Presidente. «Ma non volevamo che qualcuno in una posizione così importante, in un progetto con precise implicazioni internazionali, si rivelasse un razzista. Vogliamo che i paesi del terzo mondo, i paesi in via di sviluppo, siano al nostro fianco in questa impresa. Avevamo una buona ragione per porre una domanda del genere. Non trovi che la sua risposta denoti una certa… mancanza di tatto? E’ un po’ presuntuosa, la tua Arroway. Adesso diamo un’occhiata a Drumlin.» Con una farfalla blu a pallini, Drumlin appariva abbronzato e in gran forma. «Sì, so che noi tutti abbiamo delle emozioni,» stava dicendo, «ma teniamo presente con esattezza cosa siano le emozioni. Sono motivazioni per il comportamento adattivo risalenti a un’epoca in cui eravamo troppo stupidi per afferrare le cose. Ma posso capire che, se un branco di iene si dirige verso di me con le zanne in mostra, ci sono guai in vista. Non ho bisogno di alcuni centimetri cubici di adrenalina per arrivare a cogliere la situazione. Posso persino capire che può essere importante per me dare qualche contributo genetico alla prossima generazione. Non ho davvero bisogno di testosterone in circolo per arrivarci. Si è sicuri che un essere extraterrestre, molto avanti rispetto a noi, sarà gravato di emozioni? So che ci sono persone che pensano che io sia troppo freddo, troppo riservato. Ma se si vogliono capire gli extraterrestri, verrò mandato io. Sono molto più simile a loro di chiunque altro si possa trovare.» «Che scelta!» disse la Presidente. «Una è atea, e l’altro crede già di venire da Vega. Perché dobbiamo mandare degli scienziati? Perché non possiamo mandare qualcuno di… normale? E’ solo una domanda retorica,» aggiunse in fretta. «So perché dobbiamo mandare degli scienziati. Il Messaggio riguarda la scienza ed è scritto in linguaggio scientifico. Sappiamo che la scienza è ciò che ci accomuna con gli esseri di Vega. No, queste sono buone ragioni, Ken. Me ne ricordo.» «Lei non è atea. E’ agnostica. La sua mente è aperta. Ellie non è prigioniera di dogmi. E’ intelligente, è tenace, e una vera professionista. Ha un sapere vasto e profondo. E’ proprio la persona di cui si ha bisogno in questa circostanza.» «Ken, mi compiaccio del tuo impegno per appoggiare questo progetto nella sua interezza. Ma c’è una gran paura là fuori. Non credere che non sappia quanto abbiano già dovuto mandar giù gli uomini là fuori. Più di metà delle persone con cui parlo sono convinte che la costruzione di questa cosa non rappresenti un affare per noi. Se non ci sarà nessun dietro-front, vogliono che si mandi qualcuno di assolutamente sicuro. Arroway può essere tutte le cose che dici, ma sicura lei non lo è. Sto subendo un sacco di pressioni da parte del Campidoglio, dei Primigei, del mio stesso comitato nazionale, delle chiese. Presumo che lei abbia fatto colpo su Palmer Joss durante quell’incontro in Califor-nia, ma è riuscita anche a far infuriare Billy Jo Rankin, che mi ha chiamato ieri e mi ha detto: ‘Signora Presidente’ — non riusciva a dissimulare il suo disgusto nel dire ‘Signora’ — ‘Signora Presidente, quella Macchina volerà diritta da Dio o dal Diavolo. In un caso o nell’altro, lei farebbe meglio a mandare un cristiano timorato di Dio.’ Ha cercato di sfruttare la sua relazione con Palmer Joss per influenzare la mia decisione, per Dio. Non credo ci sia alcun dubbio che stesse suggerendo di andare lui stesso. Drumlin sarà molto più accettabile a qualcuno come Rankin di quanto lo possa essere Arroway. Riconosco che Drumlin ha del pesce lesso. Ma è degno di fiducia, patriottico, sano. E’ in possesso di impeccabili credenziali scientifiche. E ci vuole andare. No, deve essere Drumlin. Il meglio che posso offrire è di tenere Arroway come riserva.» «Glielo posso dire?» «Arroway non lo deve sapere prima di Drumlin, vero? Ti farò sapere quando si avrà la decisione finale e avremo informato Drumlin… Oh, allegro Ken! Non vuoi che resti con te qui sulla Terra?» Erano già passate le sei quando Ellie finì di dare istruzioni al «Tiger Team» del Dipartimento di Stato che stava appoggiando i negoziatori americani a Parigi. Der Heer aveva promesso di telefonarle una volta finita la riunione per la selezione dell’equipaggio. Lui voleva che Ellie apprendesse dalla sua voce se era stata prescelta, non da un altro qualsiasi. Lei sapeva di essere stata insufficientemente rispettosa nei riguardi degli esaminatori, e di correre il rischio di venire scartata proprio per quella ragione, oltre a una decina di altre. Comunque, congetturò lei, poteva esserci ancora una possibilità. C’era un messaggio che l’attendeva in albergo — non un modulo rosa «mentre lei era fuori» compilato dal centralinista dell’hotel, ma una lettera sigillata, senza francobollo, consegnata a mano. Diceva: «Vediamoci al Museo nazionale della Scienza e della Tecnica, alle otto di stasera. Palmer Joss.» Nessun saluto, nessuna spiegazione, nessun programma e nessuna formula finale di cortesia, pensò. Questo è davvero un uomo di fede. La carta da lettere era quella del suo albergo e non c’era l’indirizzo del mittente. Doveva essere passato nel pomeriggio, probabilmente informato dal Segretario di Stato in persona che Ellie si trovava in città, aspettandosi di trovarcela. Era stata una giornata faticosa, ed era irritata di dover trascorrere un po’ di tempo lontano dalla ricostruzione del Messaggio. Benché una parte di lei fosse riluttante ad andare, fece una doccia, si cambiò, comperò un sacchetto di anacardi e nel giro di quarantacinque minuti era a bordo di un taxi. Mancava circa un’ora alla chiusura e il museo era quasi vuoto. Enormi macchinari scuri erano sistemati in ogni angolo del vasto ingresso. Ecco l’orgoglio dell’industria calzaturiera, tessile e carbonifera del diciannovesimo secolo. Un organo a vapore dell’Esposizione del 1876 stava suonando un pezzo vivace e brioso, composto forse in origine per ottoni, per un gruppo di turisti dell’Africa Occidentale. Joss non si vedeva da nessuna parte. Frenò l’impulso di girare sui suoi tacchi e di andarsene. Se dovessi incontrare Palmer Joss in questo museo, pensò Ellie, e l’unica cosa di cui avessi mai parlato con lui fosse la religione e il Messaggio, dove lo incontreresti? Era un po’ come il problema della selezione di frequenza per il SETI: non hai ancora ricevuto un messaggio da una civiltà progredita e devi decidere su quali frequenze quegli esseri — di cui tu in teoria ignori tutto, persino la loro esistenza — abbiano deciso di trasmettere. Ci deve essere per forza una qualche nozione in comune tra te e loro. Sia tu che loro conoscete certamente qual è il più comune tipo di atomo nell’universo, e la singola frequenza radio alla quale caratteristicamente assorbe ed emette. Era la logica in base alla quale la riga da 1420 megahertz dell’idrogeno atomica neutro era stata inclusa in tutte le prime ricerche del SETI. Quale sarebbe stato l’equivalente qui? Il telefono di Alexander Graham Bell? Il telegrafo di Marconi? — Ah, naturalmente… «Questo museo possiede un pendolo di Foucault?» chiese Ellie al guardiano. Il rumore dei suoi tacchi rimbombava sui pavimenti di marmo mentre si avvicinava alla rotonda. Joss si stava sporgendo dalla ringhiera, per guardare una rappresentazione musiva dei punti cardinali. Cerano dei piccoli indicatori verticali per le ore, alcuni diritti, altri evidentemente abbattuti dal pendolo in precedenza durante il giorno. Verso le sette del pomeriggio, qualcuno aveva fermato la sua oscillazione e ora esso pendeva immobile. Erano completamente soli. Lui l’aveva sentita avvicinarsi per un minuto almeno e non aveva detto nulla. «Ha deciso che la preghiera può fermare un pendolo?» gli disse sorridendo. «Sarebbe un abuso di fede,» ribattè lui. «Non ne vedo la ragione. Farebbe un numero incredibile di convertiti. E per Dio è abbastanza facile, e se ricordo bene, lei Gli parla regolarmente… Non è così? Vuole davvero saggiare la mia fede nella fisica degli oscillatori armonici? Okay.» Una parte di lei era sbalordita che Joss volesse sottoporla a tale test, ma era determinata a esserne all’altezza. Si sfilò la borsetta che portava a tracolla, si tolse le scarpe. Lui saltò con agilità la protezione d’ottone e l’aiutò a scavalcarla. Camminarono e scivolarono lungo il piano inclinato ricoperto di piastrelle, finché non si trovarono accanto al pendolo. Era verniciato di nero opaco ed Ellie si chiese se fosse d’acciaio o di piombo. «Dovrà darmi una mano,» lei disse. Riuscì facilmente a circondare con le braccia il pendolo, e insieme lo spostarono finché non fu inclinato di un buon angolo dalla verticale e rasente il suo viso. Joss la stava osservando attentamente. Non le chiese se fosse sicura di quello che faceva, trascurò di avvertirla del rischio di cadere in avanti, non la mise in guardia dall’imprimere al pendolo una componente orizzontale di velocità mentre lo lasciava andare. Dietro a lei c’era un buon metro o un metro e mezzo di pavimento piano, prima che cominciasse a inclinarsi verso l’alto per diventare un muro circolare. Se restava perfettamente padrona di sé, si disse, l’impresa era uno scherzo. Lasciò la presa. Il pendolo si allontanò da lei. Il periodo di un pendolo semplice, pensò un po’ confusa, è 2 pi greco per radice quadrata di 1 fratto g, dove 1 è la lunghezza del filo e g è l’accelerazione di gravita. A causa dell’attrito nel supporto, il pendolo non può mai oscillare più indietro della sua posizione originale. Tutto quello che devo fare, rammentò a se stessa, è di non ondeggiare in avanti. Vicino alla ringhiera opposta, il pendolo rallentò e arrivò a un punto morto. Ripercorrendo la sua traiettoria in senso contrario, stava muovendosi all’improvviso molto più velocemente di quanto si era aspettata. Mentre il solido si precipitava verso di lei, sembrava aumentare di grandezza in maniera allarmante. Era enorme e quasi su di lei. Rimase senza fiato. «Sono indietreggiata,» disse Ellie delusa mentre il pendolo si allontanava da lei. «Soltanto di un pelo.» «No, sono indietreggiata.» «Lei crede. Lei crede nella scienza. C’è soltanto un’impercettibile ombra di dubbio.» «No, non si tratta di questo. Era un milione di anni di intelligenza in lotta contro un bilione di anni d’istinto. Ecco perché il suo lavoro è ben più facile del mio.» «A questo riguardo, le nostre attività sono le stesse. Tocca a me,» disse e in maniera brusca afferrò il pendolo al punto più alto della sua traiettoria. «Ma non stiamo mettendo alla prova il suo credo nella conservazione dell’energia.» Egli sorrise e cercò di restare saldo sui suoi piedi. «Che state facendo laggiù?» chiese una voce. «Siete matti?» Un guardiano del museo, intento a controllare scrupolosamente che tutti i visitatori uscissero prima della chiusura, si era imbattuto in quel quadro inverosimile di un uomo, di una donna, di un pozzo e di un pendolo in un angolo peraltro deserto del cavernoso edificio. «Oh, va tutto bene, signor guardiano,» Joss disse allegramente. «Stiamo solo saggiando la nostra fede.» «Non potete farlo alla Smithsonian Institution,» ribattè il guardiano. «Questo è un museo.» Ridendo, Joss ed Ellie riportarono il pendolo a una posizione di quasi immobilità e si arrampicarono su per le inclinate pareti piastrellate. «Deve essere permesso dal Primo Emendamento,» disse lei. «O dal Primo Comandamento,» ribattè Joss. Ellie si infilò le scarpe, si rimise la borsetta a tracolla, e, a testa alta, accompagnò Joss e il guardiano fuori della rotonda. Senza dare le proprie generalità e senza essere riconosciuti, riuscirono a convincerlo a non farli arrestare. Ma vennero scortati fuori del museo da una compatta falange di personale in uniforme, preoccupata forse che Ellie e Joss nella loro prossima?’ mossa potessero salire sull’organo a vapore alla ricerca di un Dio inafferrabile. La strada era deserta. Camminavano senza dire una parola lungo il Mail. La notte era chiara ed Ellie individuò la costellazione della Lira all’orizzonte. «La stella lucente lassù. Quella è Vega,» disse. Egli la contemplò a lungo. «La decifrazione è stata una brillante impresa,» disse alla fine. «Oh, sciocchezze. E’ stato banale. Si trattava del più facile messaggio cui potesse pensare una civiltà avanzata. Sarebbe stata un’autentica vergogna se non fossimo stati in grado di interpretarlo.» «Lei non vuole complimenti, ho notato. No, è una di quelle scoperte che cambiano il futuro. Le nostre aspettative per il futuro, a ogni modo. E’ come il fuoco, o la scrittura, o l’agricoltura. O l’Annunciazione.» Fissò di nuovo Vega. «Se lei potesse avere un posto su quella Macchina, se la potesse ricondurre al suo Mittente, che pensa di poter vedere?» «L’evoluzione è un processo stocastico. Ci sono veramente troppe possibilità per formulare ragionevoli predizioni sul presumibile aspetto della vita altrove. Se lei avesse visto la Terra prima dell’origine della vita, avrebbe previsto una cavalletta o una giraffa?» «Conosco la risposta a quella domanda. Probabilmente lei immagina che ce la inventiamo questa roba, che la leggiamo in qualche libro, o la scoviamo in qualche luogo di preghiera. Ma non è così. Io posseggo una sicura, positiva conoscenza derivante dalla mia diretta esperienza. Non posso esprimerla con maggior semplicità di così. Ho visto Dio in faccia.» Sulla profondità della sua convinzione non sembrava ci fossero dubbi. «Mi racconti.» E Joss raccontò. «Okay,» disse Ellie alla fine, «lei era clinicamente morto, poi è ritornato in vita, e ricorda un’ascesa attraverso il buio fino a una luce sfolgorante. Ha visto una radianza con forma umana che ha preso per Dio. Ma non c’era nulla nella sua esperienza che le abbia detto che la radianza avesse creato l’universo o imposto una legge morale. L’esperienza è un’esperienza. Lei ne è rimasto profondamente turbato, commosso, questo è certo. Ma ci sono altre possibili spiegazioni.» «Quali ad esempio?» «Beh, la nascita. Nascere è affiorare in una luce vivida dopo aver percorso un tunnel lungo e nero. Non dimentichi quanto è vivida quella luce. Il bambino ha trascorso nove mesi nell’oscurità. La nascita è il primo incontro con la luce. Pensi alla meraviglia e allo stupore che pervadono il bambino al primo contatto con i colori, o con la luce e le ombre o con il volto umano, che è probabilmente preprogrammato a riconoscere. Forse, se si sfiora la morte, l’odometro ritorna a zero per un attimo. Capisce, non insisto su questa spiegazione. E’ solo una delle molte possibilità. Sto suggerendo che lei possa aver male interpretato l’esperienza.» «Lei non ha visto ciò che ho visto io.» Guardò in su ancora una volta alla fredda luce azzurrina, tremolante, di Vega e poi si rivolse a Ellie. «Non si sente mai… sperduta nel suo universo? Come sa quel che deve fare, come comportarsi, se non c’è nessun Dio? E’ solo una questione di obbedire alla legge o di venire arrestati?» «Lei non si preoccupa di sentirsi sperduto, Palmer. Lei si preoccupa di non essere al centro, di non essere la ragione per cui fu creato l’universo. C’è ordine in abbondanza nel mio universo. Gravitazione, elettromagnetismo, meccanica quantistica, superunificazione, comportano tutti delle leggi. E per quanto riguarda il comportamento, la condotta, perché non possiamo calcolare ciò che è più nel nostro interesse: come specie?» «E’ una visione affettuosa e nobile del mondo, ne sono certo, e sarei l’ultimo a negare che ci sia della bontà nel cuore umano. Ma quanta crudeltà è stata compiuta quando non c’era amore per Dio?» «E quanta crudeltà, quando c’era? Savonarola e Torquemada amavano Dio, o così dicevano. La sua religione presume che gli uomini siano bambini e abbiano bisogno di uno spauracchio per comportarsi bene. Si vuole che la gente creda in Dio perché così obbedirà alla legge. Sono i soli mezzi che le vengono in mente: una severa forza di polizia secolare, e la minaccia di punizione da parte di un Dio onniveggente per tutto ciò che possa esser sfuggito alla polizia. Lei sottovaluta gli esseri umani. Palmer, crede che se non ho avuto la sua esperienza religiosa non possa apprezzare la magnificenza del suo dio. Ma è proprio il contrario. L’ascolto e penso: il suo dio è troppo piccolo! Un pianeta miserabile, alcune migliaia di anni: si merita appena l’attenzione di una divinità minore, figuriamoci quella del Creatore dell’universo.» «Lei mi sta confondendo con un altro predicatore. Quel museo era il territorio di fratello Rankin. Io sono preparato a un universo vecchio bilioni di anni. Dico solo che gli scienziati non l’hanno dimostrato.» «E io dico che lei non ha capito l’evidenza. Come può far del bene alla gente se il sapere convenzionale, le ‘verità’ religiose sono una menzogna? Quando crederà davvero che la gente possa essere adulta, farà una predica differente.» Ci fu un breve silenzio, interrotto soltanto dal rimbombare dei loro passi. «Mi dispiace se sono stata un po’ troppo brusca,» disse lei. «Mi capita di tanto in tanto.» «Le do la mia parola, dottor Arroway, rifletterò attentamente su ciò che mi ha detto stasera. Lei ha fatto delle domande per le quali dovrei avere le risposte. Ma nello stesso spirito, permetta che le rivolga alcune domande. D’accordo?» Ellie annuì e Joss proseguì. «Pensi all’aspetto della coscienza, al suo aspetto in questo momento. Somiglia a miliardi di minuscoli atomi che si agitano sul posto? E oltre al meccanismo biologico, dov’è che la scienza può far imparare a un bambino che cosa sia l’amore? Ecco…» Il suo segnalatore acustico entrò in funzione. Era probabilmente Ken con la notizia che stava aspettando. Se era così, doveva aver avuto una riunione lunghissima. Forse si trattava comunque di una buona nuova. Guardò le lettere e i numeri che si formavano nel cristallo liquido: era il telefono dell’ufficio di Ken. Non c’era nessuna cabina in vista, ma dopo alcuni minuti riuscirono a fermare un taxi. «Mi dispiace di dovermi accomiatare così alla svelta,» si scusò Ellie. «Ho apprezzato molto la nostra conversazione e penserò seriamente alle sue domande… Voleva rivolgermene un’altra?» «Sì. Che cosa c’è nei precetti della scienza che impedisca a uno scienziato di fare il male?» 15 LA SBARRA DI ERBIO «La terra, mi basta, non voglio che le costellazioni siano più vicine, so che stanno benissimo là dove sono, so che bastano a coloro che le abitano.»      WALT WHITMAN, Foglie d’erba, «Canto della strada maestra» (1855) Ci vollero anni, fu un sogno tecnologico e un incubo diplomatico, ma finalmente si accinsero alla realizzazione della Macchina. Vennero proposti vari neologismi e nomi che richiamavano antichi miti. Ma fin dall’inizio, tutti l’avevano chiamata semplicemente la Macchina e questa divenne la sua designazione ufficiale. I negoziati internazionali, interminabili, complessi e delicati, vennero definiti dagli scrittori occidentali di editoriali come la «politica della Macchina». Quando venne formulata la prima stima attendibile del costo totale, persino i titani dell’industria aerospaziale rimasero senza fiato. L’ammontare finale era di un mezzo trilione di dollari l’anno, per alcuni anni, pari a circa un terzo del bilancio militare totale — nucleare e tradizionale — del pianeta. C’era il timore che la costruzione della Macchina potesse mandare in rovina l’economia mondiale. «Guerra economica da Vega?» si chiedeva l’»Economist» di Londra. I titoli quotidiani del «New York Times» erano, oggettivamente, più bizzarri di ogni altro mai apparso un decennio prima sul «National Enquirer», testata ormai scomparsa. La storia mostrava che nessun medium, veggente, profeta, o indovino, nessuno con dichiarate doti precognitive, nessun astrologo, nessun numerologo, nessun improvvisato autore di previsioni da rotocalco di fine dicembre, aveva predetto il Messaggio o la Macchina: tanto meno Vega, i numeri primi, Adolf Hitler, i giochi olimpici e il resto. Comunque, ci furono molte rivendicazioni da parte di coloro che avevano chiaramente previsto gli eventi, ma avevano negligentemente trascurato di mettere per iscritto le precognizioni. Le predizioni di avvenimenti sorprendenti risultano sempre più precise se non vengono messe sulla carta prima. E’ una di quelle «stranezze» che si ripetono con regolarità nella vita di tutti i giorni. Molte religioni erano in una posizione leggermente diversa: infatti, un’attenta e perspicace lettura delle loro sacre scritture rivelava, a parere di molti, che questi meravigliosi avvenimenti erano stati predetti con chiarezza. Per altri, la Macchina rappresentava una potenziale fonte di prosperità per l’industria aerospaziale mondiale, che era stata in preoccupante declino da quando erano entrati pienamente in vigore gli Accordi di Hiroshima. Pochissimi nuovi sistemi di armi strategiche erano in fase di sviluppo. Gli habitat spaziali si rivelavano un affare sempre più proficuo, ma compensavano a stento la perdita delle stazioni orbitanti per le battaglie laser e di altri equipaggiamenti di difesa strategica previsti da un’amministrazione precedente. Perciò, alcuni di coloro che si preoccupavano della sicurezza del pianeta in caso di costruzione della Macchina, avrebbero messo da parte i loro scrupoli in previsione delle implicazioni positive per il lavoro, il profitto e la carriera. Alcuni esperti sostenevano che non c’era prospettiva più rosea per le industrie altamente specializzate di una minaccia dallo spazio. Ci sarebbero volute misure d’emergenza, radar di controllo immensamente potenti, eventuali avamposti su Fiutone o nella fascia delle comete di Oort. Nessun discorso sulle disparità militari tra terrestri ed extraterrestri poteva scoraggiare questi visionati. «Anche se non possiamo difenderci da loro,» essi chiedevano, «non volete sapere quando arriveranno?» C’era del profitto in vista e ne potevano sentir l’odore. Stavano costruendo la Macchina, naturalmente, una Macchina da trilioni di dollari; ma la Macchina era solo l’inizio, se giocavano bene le loro carte. La rielezione della Presidente Lasker era divenuta in realtà un referendum nazionale sull’eventualità di costruire la Macchina. Il suo avversario aveva messo in guardia contro i cavalli di Troia e le Macchine da Giudizio Universale e la prospettiva di un’umiliazione dell’ingegnosità americana di fronte agli alieni che avevano già «inventato ogni cosa». La Presidente si dichiarò fiduciosa che la tecnologia americana avrebbe fatto fronte alla sfida e fece capire, anche se non lo disse veramente, che l’ingegnosità americana alla fine sarebbe riuscita a eguagliare qualsiasi prodotto di Vega. Venne rieletta con un margine di voti rispettabile, ma non certo schiacciante. Le istruzioni stesse avevano costituito un fattore decisivo. Sia nel sillabario che nel Messaggio nulla era stato lasciato incerto. Talvolta, alcuni stadi intermedi che sembravano del tutto ovvi vennero spiegati e rispiegati — come quando, nell’aritmetica di base, si è dimostrato che se due per tre fa sei, ma anche tre per due fa sei. A ogni fase costruttiva c’erano dei controlli: Terbio prodotto con il procedimento indicato doveva essere puro al 96 %, con una percentuale minima di impurità costituite dalle altre terre rare. Una volta completato il Componente 31 e collocato in una soluzione molare 6 di acido fluoridrico, i rimanenti elementi strutturali dovevano apparire come il diagramma nell’illustrazione allegata. Una volta assemblato il Componente 408, un’applicazione di un campo magnetico trasversale da due megagauss doveva far ruotare il rotore a tanti giri al secondo prima di ritornare a uno stato di immobilità. Se uno qualsiasi di questi test non riusciva, si ricominciava da capo e si rifaceva tutto. Dopo un po’, ci si abituava ai test e ci si aspettava di essere in grado di superarli. Era una sorta di memorizzazione meccanica. Molti dei componenti minori, eseguiti da speciali fabbriche progettate ex novo seguendo le istruzioni del sillabario, sfidavano la comprensione umana. Era difficile capire perché avrebbero dovuto funzionare. Ma funzionavano. Persino in casi simili, si potevano prevedere applicazioni pratiche delle nuove tecnologie. Di quando in quando, sembrava si presentassero allettanti prospettive per la raffinazione: in metallurgia per esempio, o nei semiconduttori organici. In alcuni casi, venivano fornite parecchie tecnologie alternative per produrre un componente equivalente; gli extraterrestri, evidentemente, non potevano essere sicuri sul procedimento che avrebbe presentato minori difficoltà per la tecnologia terrestre. Quando vennero costruite le prime fabbriche e prodotti i primi prototipi, diminuì il pessimismo riguardo alla capacità umana di riprodurre una tecnologia aliena ricavata da un messaggio scritto in una lingua sconosciuta. C’era la sensazione eccitante di arrivare impreparati a una prova scolastica e di scoprire che si possono ricavare le risposte dall’educazione generale e dal senso comune. Come in tutti gli esami seri, se ne traeva un’esperienza istruttiva. Tutti i primi test vennero superati: Terbio era di adeguata purezza; la sovrastruttura illustrata rimase, dopo che la materia inorganica era stata corrosa dall’acido fluoridrico; il rotore girava come indicato. Il Messaggio lusingava gli scienziati e gli ingegneri, dicevano i criticoni; venivano travolti dal fascino della tecnologia e perdevano di vista i pericoli. Per la produzione di un componente, era stata specificata una serie particolarmente complessa di reazioni chimiche organiche, e il risultato era stato immerso in una vasca, delle dimensioni di una piscina, contenente un miscuglio di formaldeide e di ammoniaca acquosa. La massa crebbe, si differenziò, assunse caratteri speciali, e poi si arrestò: straordinariamente più complicata di qualsiasi cosa analoga gli uomini sapessero fare. La cosa possedeva una rete intricata di tubicini vuoti, lungo i quali forse doveva circolare un fluido. Era colloidale, polposa, di color rosso scuro. Non proliferò, ma era biologica a sufficienza per atterrire molti. Ripeterono il procedimento e ottennero qualcosa di apparentemente identico. Come il prodotto finale potesse essere notevolmente più complicato delle istruzioni che si erano seguite per realizzarlo era un mistero. La massa organica si accoccolò sulla sua piattaforma e apparentemente non fece nulla. Doveva essere inserita nel dodecaedro, proprio sopra e sotto l’area per l’equipaggio. Macchine identiche erano in costruzione negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. Entrambe le nazioni aveva scelto di realizzarle in località piuttosto remote, non tanto per proteggere i centri abitati nel caso si fosse trattato di una Macchina del Giudizio Universale, quanto per rendere difficile l’accesso ai curiosi, ai contestatori, ai mass-media. Negli Stati Uniti, la Macchina veniva costruita nel Wyoming; nell’Unione Sovietica, appena al di là del Caucaso, nella repubblica socialista dell’Uzbekistan. Nuove fabbriche vennero installate vicino ai luoghi di assemblaggio. Quando i componenti potevano essere prodotti da industrie già esistenti, allora la loro realizzazione avveniva un po’ dovunque. Un subappaltatore ottico di Jena, per esempio, produceva e collaudava componenti per la Macchina americana e per quella russa; e per il Giappone, dove ogni componente veniva sistematicamente esaminato per capirne il funzionamento, nei limiti del possibile. I progressi a Hokkaido erano stati lenti. Ci si preoccupava che un componente sottoposto a un test non autorizzato nel Messaggio potesse distruggere una sottile simbiosi dei vari componenti in una Macchina funzionante. Un’importante sottostruttura della macchina era costituita da tre gusci sferici concentrici posizionati secondo assi perpendicolari l’uno all’altro, e progettati per ruotare ad alte velocità. I gusci sferici dovevano avere precisi e intricati disegni tracciati sulla loro superficie. Un guscio che era stato fatto girare alcune volte in un test non autorizzato avrebbe funzionato male una volta assemblato nella Macchina? Invece, un guscio non collaudato avrebbe funzionato perfettamente? Le industrie Hadden erano il più importante appaltatore americano per la costruzione della Macchina. Sol Hadden aveva insistito perché non si procedesse a nessun collaudo non autorizzato e neppure al montaggio di componenti progettati per un assemblaggio finale nella Macchina. Le istruzioni, secondo i suoi ordini, dovevano essere seguite bit dopo bit, visto che non c’erano lettere vere e proprie nel Messaggio. Esortava i suoi dipendenti a considerarsi negromanti medievali rispettosi al massimo delle parole di una formula magica. Non osassero pronunciar male una sillaba! Questo avveniva, a seconda di quale dottrina, calendaristica o escatologica si accettasse, due anni prima del nuovo millennio. C’erano tante persone che stavano andando in pensione, in serena attesa del Giudizio Universale o dell’Avvento o di entrambi gli eventi, e in alcune industrie gli operai specializzati scarseggiavano. L’impegno di Hadden nel rinnovare le sue maestranze per ottimalizzare la costruzione della Macchina, e nel creare incentivi per i subappaltatori, veniva considerato fino a quel momento un fattore essenziale per il successo americano. Ma anche Hadden era andato in pensione: cosa sorprendente, considerando le ben note vedute dell’inventore del Preachnix. «I chiliasti mi hanno fatto pensare che sono un ateo,» avrebbe affermato. Le decisioni importanti erano ancora nelle sue mani, dicevano i suoi dipendenti. Ma si comunicava con Hadden tramite un veloce telenetting asincrono: i suoi dipendenti lasciavano rapporti sui progressi compiuti, richieste di autorizzazione, e domande per lui in una cassetta cifrata di un popolare servizio di telenetting scientifico. Le sue risposte ritornavano indietro in un’altra cassetta cifrata. Era uno strano procedere, ma sembrava funzionasse. Comunque, una volta superati i primi, più difficili momenti della realizzazione della Macchina, che cominciava davvero a prendere forma, S.R. Hadden si fece sempre meno sentire. I dirigenti dell’Associazione mondiale per la Macchina erano preoccupati, ma dopo quella che fu descritta come una lunga visita al signor Hadden in una località segreta, ripartirono rassicurati. Il suo domicilio era ignoto a chiunque altro. Le scorte strategiche mondiali scesero sotto le 3200 armi nucleari per la prima volta dalla metà degli anni Cinquanta. I colloqui multilaterali sulle più difficili fasi del disarmo per arrivare a un deterrente nucleare minimo stavano facendo progressi. Col diminuire delle armi da una parte, più pericoloso sarebbe stato il togliere dalla circolazione un piccolo numero di armi dall’altra. E con la rapida diminuzione del numero di vettori, che erano molto più facili da controllare, con l’impiego di nuovi mezzi di verifica automatica del rispetto del trattato, e con nuovi accordi per ispezioni in loco, le prospettive per ulteriori riduzioni sembravano buone. L’andamento della situazione aveva generato una sorta di stimolo intrinseco sia per gli esperti che per l’opinione pubblica. Come capita nella consueta corsa agli armamenti, le due potenze si affannavano a rimanere in condizioni di parità, ma questa volta in fatto di riduzione di armamenti. In termini militari non avevano ancora rinunciato a molto; conservavano ancora la capacità di distruggere la civiltà del pianeta. Tuttavia, nell’ottimismo creato per il futuro, nella speranza infusa nella nuova generazione, questo inizio era già molto. Grazie forse alle imminenti celebrazioni secolari e canoniche previste in tutto il mondo per il nuovo millennio, il numero annuale delle ostilità armate tra nazioni era diminuito ulteriormente. «La Pace di Dio» l’aveva definita il cardinale arcivescovo di Città del Messico. Nel Wyoming e nell’Uzbekistan erano state create nuove industrie e intere città stavano sorgendo dal nulla. La spesa veniva sostenuta soprattutto dalle nazioni industrializzate, naturalmente, ma il costo proporzionale per ogni essere della Terra si aggirava sul centinaio di dollari l’anno. Per un quarto della popolazione terrestre, cento dollari rappresentavano una parte significativa del reddito annuale. Il denaro speso per la Macchina non produceva direttamente beni o servizi, ma l’incentivazione di una nuova tecnologia era considerata un grande affare, anche se la Macchina stessa non avesse mai funzionato. C’erano molti cui sembrava che si fosse andati troppo in fretta, che si sarebbe dovuto capire a fondo ogni stadio del procedimento prima di passare al seguente. Se per la costruzione della Macchina ci fossero volute generazioni, come si sosteneva, che ci sarebbe stato di male? Distribuendo i costi di sviluppo nell’arco di decenni, si sarebbe alleggerito il fardello economico mondiale che si doveva sostenere per la realizzazione della Macchina. Sotto molti aspetti, era un consiglio saggio, ma di difficile attuazione. Come si poteva sviluppare uno soltanto dei componenti della Macchina? In tutto il mondo, scienziati ed esperti delle più svariate discipline erano ansiosi di potersi sbizzarrire sugli aspetti della Macchina che rientravano nelle loro aree di esperienza. C’erano alcuni che temevano che se la Macchina non fosse stata costruita in fretta, non lo sarebbe stata mai. La Presidente americana e il premier sovietico avevano incaricato le loro nazioni della costruzione della Macchina. Questo non era garantito da tutti i loro possibili successori. Così, per ragioni personali perfettamente comprensibili, quelli che controllavano il progetto si auguravano di vederlo portato a termine mentre si trovavano ancora in posizioni direttive. Alcuni sostenevano che c’era un’intrinseca urgenza se si trasmetteva un Messaggio su tante frequenze, così intensamente e così a lungo. Non stavano semplicemente chiedendo all’umanità di costruire la Macchina. Stavano chiedendole di costruirla subito. Si affrettarono i lavori. Tutti i primi sottosistemi erano basati su tecnologie elementari descritte nella prima parte del sillabario. I test prescritti erano stati superati con una certa facilità. Quando vennero collaudati i sottosistemi successivi, più complessi, si notarono occasionali avarie. Ciò successe in entrambe le nazioni, ma con maggior frequenza nell’Unione Sovietica. Dal momento che nessuno sapeva come funzionassero i componenti, era di solito impossibile risalire dal tipo di avaria all’identificazione dell’errore nel processo produttivo. In alcuni casi, i componenti venivano eseguiti simultaneamente da due diverse case, in gara per velocità e accuratezza. Se c’erano due componenti che avessero entrambi superato i collaudi, c’era la tendenza da parte di ciascuna nazione a scegliere il prodotto domestico. Perciò, le Macchine che venivano assemblate nei due paesi non erano perfettamente identi-che. Alla fine, nel Wyoming, arrivò il momento di cominciare l’integrazione dei sistemi, l’assemblaggio dei componenti separati in una Macchina completa. Avrebbe dovuto essere la fase più facile del processo costruttivo. Si prevedeva il completamento entro un anno o due. Alcuni pensavano che l’attivazione della Macchina avrebbe fatto finire il mondo proprio allo scoccare dell’ora prevista. I conigli erano molto più astuti nel Wyoming. O meno. Era difficile capirlo. I fari della Thunderbird avevano illuminato un coniglio vicino alla strada più di una volta, ma l’abitudine di quegli animali di organizzarsi in schiere di centinaia di individui, in apparenza non si era ancora estesa dal New Mexico al Wyoming. Ellie trovava che la situazione lì non fosse molto diversa da quella dell’Argus. C’era un’imponente installazione scientifica circondata da decine di migliala di chilometri quadrati di incantevole paesaggio quasi disabitato. Non stava dirigendo lo spettacolo e non era un membro dell’equipaggio. Ma era lì, sul posto, impegnata in una delle più grandi imprese mai progettate. Certamente, a prescindere da quel che sarebbe successo una volta attivata la Macchina, la scoperta dell’Argus sarebbe stata giudicata una pietra miliare, una svolta nella storia dell’umanità. Proprio nel momento in cui si sentiva il bisogno di una forza unificante in più, c’era stato quel fulmine a ciel sereno. A cielo nero, si corresse Ellie. Dalla distanza di ventisei anni luce, da 230 trilioni di chilometri. E’ difficile pensare al proprio orgoglio di scozzesi, di slovacchi o di bantù quando si è tutti chiamati indiscriminatamente da una civiltà più avanti di millenni rispetto a quella terrestre. Il divario tra la nazione tecnologicamente più arretrata della Terra e quelle industrializzate era, certamente, molto più ridotto di quello esistente tra le nazioni industrializzate e gli esseri di Vega. All’improvviso, distinzioni che prima erano sembrate insormontabili — razziali, religiose, nazionali, etniche, linguistiche, economiche e culturali — cominciarono a sembrare un po’ meno sostanziali. «Siamo tutti esseri umani.» Era una frase che si udiva spesso in quei giorni. Era sorprendente come, nei decenni precedenti, sentimenti di questa sorta fossero stati espressi con scarsa frequenza, specialmente dai mass-media. Dividiamo lo stesso piccolo pianeta, si diceva, e — quasi — la stessa civiltà globale. Era arduo immaginare che gli extraterrestri potessero prendere in considerazione seriamente una richiesta per un abboccamento preferenziale avanzata da rappresentanti dell’una o dell’altra fazione ideologica. L’esistenza del Messaggio — anche a prescindere dalla sua enigmatica funzione — stava unificando il mondo. Lo si poteva veder accadere sotto i propri occhi. La prima domanda di sua padre quando aveva saputo che Ellie non era stata prescelta era stata: «Hai pianto?» Sì, aveva pianto. Era del tutto naturale. C’era, naturalmente, una parte di lei che desiderava ardentemente salire a bordo. Ma la scelta di Drumlin era stata ottima, aveva detto alla madre. I sovietici non avevano ancora scelto tra Lunacarskij e Arkhangelskij; entrambi si allenavano per la missione. Era difficile stabilire quale allenamento potesse essere adatto al di là della miglior comprensione possibile della Macchina da parte loro o di chiunque altro. Alcuni americani mossero l’accusa che si trattasse semplicemente di un tentativo russo di avere due portavoce di grido per la Macchina, ma Ellie pensò che la supposizione fosse meschina. Sia Lunacarskij che Arkhangelskij erano estremamente validi. Si chiese come avrebbero fatto i russi a decidere chi mandare. Lunacarskij si trovava negli Stati Uniti, ma non lì nel Wyoming. Era a Washington con una delegazione russa d’alto livello impegnata in un meeting con il Segretario di Stato e Michael Kitz, da poco promosso a ViceSegretario alla Difesa. Arkhangelskij era ritornato in Uzbekistan. La nuova metropoli che stava crescendo nella solitudine selvaggia del Wyoming era stata battezzata Macchina. La sua gemella sovietica ricevette l’equivalente nome russo, Makhina. Ognuna constava di un complesso di grandi edifici, di servizi, di quartieri residenziali e commerciali e, soprattutto, di fabbriche. Alcune di esse erano semplici, almeno all’esterno. Ma per altre bastava un’occhiata per notarne gli aspetti bizzarri: cupole e minareti, miglia di tubi esterni serpentiformi. Solo le fabbriche giudicate potenzialmente pericolose — quelle che producevano i componenti organici, ad esempio — si trovavano lì nel solitario Wyoming. Le tecnologie che non riservavano misteri erano distribuite un po’ dappertutto. Il punto chiave dell’agglomerato di nuove industrie era rappresentato dall’impianto per l’integrazione dei sistemi, costruito accanto a quella che era stata un tempo Wagonwheel, dove venivano consegnati i componenti ultimati. Talvolta Ellie assisteva all’arrivo di un componente e si rendeva conto di essere stata il primo essere umano ad averlo visto allo stadio di progetto. Quando ogni nuova parte veniva liberata dall’imballaggio, lei si precipitava a ispezionarla. Quando i componenti venivano montati l’uno sull’altro e quando i sottosistemi superavano i collaudi previsti, Ellie provava una sorta di soddisfazione che doveva essere simile all’orgoglio materno. Ellie, Drumlin e Valerian arrivarono per una delle solite riunioni, programmate da tempo; si trattava di un controllo del segnale da Vega che ormai veniva effettuato ovunque. Al loro arrivo, tutti stavano parlando dell’incendio di Babilonia. Era scoppiato durante le prime ore del mattino, forse in un momento in cui il luogo era frequentato soltanto dai suoi più iniqui e degenerati habitués. Gruppetti di assalitori, armati di mortai e di bombe incendiarie, avevano fatto irruzione simultaneamente attraverso le porte di Enlil e di Ishtar. La ziggurat era stata data alle fiamme. C’era una foto di gente in vesti incredibili e succinte che si riversava fuori del tempio di Assur. Stranamente, nessuno era rimasto ucciso, anche se molti avevano riportato varie ferite. Proprio prima dell’attacco, il «New York Sun», un giornale controllato dai Primigei e che recava un globo infranto da un fulmine sulla sua testata, aveva ricevuto una chiamata telefonica annunciante che l’attacco stava per essere sferrato. Era la punizione ispirata da Dio, aveva dichiarato l’autore della telefonata, messa in atto da coloro che erano nauseati e stanchi di sporcizia e di corruzione in difesa della decenza e della moralità americane. Il presidente della Babilonia Inc. deplorò l’attacco e condannò il presunto complotto criminale, ma — almeno fino a quel momento — non si era sentita una parola da S.R. Hadden, dovunque potesse essere. Dato che si sapeva che Ellie aveva fatto visita ad Hadden a Babilonia, qualcuno del personale volle conoscere la sua reazione in merito. Persino Drumlin si mostrò interessato, benché dalla sua evidente conoscenza della geografia del luogo sembrasse possibile che l’avesse visitato lui stesso più di una volta. Ellie non faticava affatto a immaginarselo in vesti di auriga. Ma forse conosceva Babilonia soltanto da quello che ne aveva letto. I settimanali avevano pubblicato spesso piantine della città del vizio. Finalmente si ritrovò a lavorare. Fondamentalmente, il Messaggio stava continuando sulle stesse frequenze, passabande, costanti di tempo, modulazioni di fase e di polarizzazione; il progetto della Macchina e il sillabario si trovavano ancora sotto i numeri primi e la trasmissione delle olimpiadi. La civiltà del sistema di Vega sembrava piena di zelo, O forse avevano solo dimenticato di spegnere il trasmettitore. Valerian aveva negli occhi un’espressione assente. «Peter, perché devi guardare il soffitto quando pensi?» Si diceva che Drumlin si fosse addolcito negli ultimi anni, ma, come nel caso di un commento del genere, il suo mutamento non era sempre palese. L’esser stato scelto dalla Presidente degli Stati Uniti per rappresentare la nazione presso gli extraterrestri costituiva, come era solito dire, un grande onore. Il viaggio, raccontava ai suoi amici intimi, sarebbe stato il coronamento della sua vita. La moglie, trasferitasi temporaneamente nel Wyoming e ancora ostinatamente fedele, doveva sopportare le stesse proiezioni di diapositive offerte a nuovi pubblici di scienziati e di tecnici impegnati nella costruzione della Macchina. Poiché la zona era vicina al suo natio Montana, Drumlin ci si recava ogni tanto per brevi soggiorni. Un giorno Ellie lo aveva accompagnato in auto a Missoula. Per la prima volta da quando si conoscevano, lui l’aveva trattata cordialmente per alcune ore consecutive. «Shhhhhh! Sto pensando,» ribattè Valerian. «E’ una tecnica di soppressione del rumore. Sto tentando di ridurre al minimo le distrazioni nel mio campo visivo, ed ecco che tu rappresenti una distrazione nello spettro audio. Potresti chiedermi perché non mi accontenti di fissare un pezzo di carta bianca. Ma il guaio è che la carta è troppo piccola. Posso scorgere delle cose nella mia visione periferica. A ogni modo, stavo pensando a ciò: perché stiamo ancora ricevendo il messaggio di Hitler, la trasmissione delle olimpiadi? Sono trascorsi anni. Ormai devono aver captato la cerimonia dell’incoronazione inglese. Perché non abbiamo visto qualche primo piano del globo o dello scettro e del manto d’ermellino e non abbiamo sentito una voce intonare ‘… ora incoronato per grazia di Dio come Giorgio VI, re d’Inghilterra e Irlanda del Nord, e imperatore dell’India’?» «Sei sicuro che Vega si trovasse sull’Inghilterra al momento della trasmissione della cerimonia dell’incoronazione?» chiese Ellie. «Sì, abbiamo controllato a poche settimane di distanza dalla ricezione della trasmissione dei giochi olimpici. E l’intensità era più forte del clip di Hitler. Sono certo che Vega possa aver captato la trasmissione dell’incoronazione. « «Sei preoccupato che non vogliano farci sapere tutto quello che sanno di noi?» gli chiese Ellie. «Hanno una gran fretta,» disse Valerian, che talvolta si abbandonava a espressioni sibilline. «Più probabilmente,» suggerì Ellie, «vogliono continuare a ricordarci che sanno di Hitler.» «Non è del tutto diverso da ciò che stavo dicendo,» replicò Valerian. «Benissimo. Non perdiamo troppo tempo a Fantasyland,» grugnì Drumlin, che si spazientiva spesso per la speculazione sulle motivazioni extraterrestri. Era una totale perdita di tempo lasciarsi andare alle congetture, soleva dire; lo si sarebbe saputo abbastanza presto. Nel frattempo, egli esortava tutti a concentrarsi sul Messaggio; erano dati complessi, ridondanti, precisi, intelligenti. «Ehi, un po’ di realtà potrebbe mettervi a posto, voi due. Perché non andiamo nell’area di assemblaggio? Credo che stiano procedendo all’integrazione dei sistemi con le sbarre di erbio.» Il disegno geometrico della Macchina era semplice. I dettagli erano estremamente complessi. Le cinque poltrone su cui avrebbero preso posto i membri dell’equipaggio si trovavano a metà del dodecaedro, dove questo sporgeva in fuori di più. Non c’erano locali per mangiare o dormire o per soddisfare altre esigenze corporali, e si doveva rispettare scrupolosamente un limite di peso per l’equipaggio e i suoi effetti personali. In pratica, la limitazione andava a vantaggio di persone di piccola statura. Qualcuno pensò che ciò significasse che la Macchina, una volta attivata, si sarebbe incontrata in fretta con un veicolo spaziale interstellare in prossimità della Terra. L’unica difficoltà in questa ipotesi era data dal fatto che minuziose ricerche radar e ottiche non riuscivano a trovar traccia di una simile astronave. Sembrava poco probabile che gli extraterrestri avessero trascurato le più elementari necessità fisiologiche degli uomini. Forse la Macchina non sarebbe andata in nessun posto. Forse avrebbe fatto qualcosa all’equipaggio. Non c’erano strumenti nell’area dell’equipaggio, nulla con cui manovrare, neppure una chiavetta d’accensione: solo le cinque poltrone, rivolte verso l’interno, in modo da consentire a ogni membro dell’equipaggio di guardare gli altri. Sopra e sotto l’area per l’equipaggio, nella parte rastremata del dodecaedro, erano collocati gli elementi organici con le loro intricate ed enigmatiche architetture. Sistemate all’interno di tutta questa sezione del dodecaedro, apparentemente a casaccio, c’erano le sbarre di erbio. E attorno al dodecaedro c’erano le tre sfere concentriche, ognuna delle quali rappresentava in certo qual modo una delle tre dimensioni fisiche. In apparenza i gusci sferici erano sospesi magneticamente; o almeno le istruzioni includevano un potente generatore di campo magnetico, e lo spazio tra i gusci sferici e il dodecaedro doveva essere sottovuoto. Il Messaggio non chiamava per nome nessun componente della Macchina. L’erbio era stato identificato come l’atomo con 68 protoni e 99 neutroni. Anche le varie parti della Macchina erano state descritte numericamente: Componente 31, per esempio. Perciò, i gusci sferici concentrici e rotanti vennero battezzatti benzel dal nome di un tecnico cecoslovacco che sapeva il fatto suo. Gustav Benzel, nel 1870, aveva inventato la giostra. Non si sapeva ancora a che cosa servisse e come funzionasse la Macchina, la sua costruzione richiedeva tecnologie totalmente nuove, ma era fatta di qualcosa, la sua struttura poteva essere diagrammata — disegni tecnici a sezione verticale erano apparsi sui mass-media di tutto il mondo — e la sua forma finale era stata prontamente visualizzata. C’era un permanente ottimismo tecnologico. Drumlin, Valerian e Arroway dopo essere stati identificati in base alla consueta sequenza di credenziali, impronte del pollice e spettrografie acustiche, furono ammessi al vasto reparto di assemblaggio. Gru a ponte di tre piani stavano piazzando le sbarre di erbio nella matrice organica. Parecchi pannelli pentagonali per l’esterno del dodecaedro erano appesi a un binario sopraelevato. Mentre i russi avevano avuto qualche problema, i sottosistemi americani avevano superato definitivamente tutti i loro collaudi e l’architettura esterna della Macchina stava gradualmente prendendo forma. Sta andando tutto al suo posto, pensò Ellie. Una volta completata, la Macchina sarebbe apparsa all’esterno come una di quelle sfere armillari degli astronomi rinascimentali. Che ne avrebbe pensato Giovanni Keplero? Il pavimento e le piste circolari situate a varie altezze dell’edificio di assemblaggio erano affollati di tecnici, di funzionari governativi, e di rappresentanti dell’Associazione mondiale per la Macchina. Mentre stavano a guardare, Valerian raccontò che la Presidente si era messa a scrivere a sua moglie, che, facendo valere il suo diritto alla privacy, si rifiutava di svelare il contenuto di quelle prestigiose missive. La messa in opera delle sbarre era quasi completata e si stava per procedere per la prima volta a un importante collaudo di integrazione dei sistemi. Alcuni pensavano che il prescritto congegno di controllo fosse un telescopio a onde gravitazionali. Appena prima di cominciare il test, i tre girarono attorno a un montante per vedere meglio. All’improvviso, Drumlin volò per aria. Anche tutto il resto sembrava volare. Le fece venire in mente il tornado che aveva trascinato Dorothy nel regno di Oz. Come in un film al rallentatore, Drumlin volteggiava nella sua direzione, a braccia aperte, e la buttò a terra con violenza. Dopo tutti quegli anni, lei pensò, era quella la sua nozione di avance sessuale? Aveva ancora molto da imparare. Non si appurò mai chi avesse causato l’incidente. Le organizzazioni che rivendicavano pubblicamente la paternità dell’accaduto comprendevano i Primigei, la Fazione dell’Armata Rossa, la Jihad islamica, la Fondazione segreta per l’energia di fusione, i Separatisti Sikh, il Sentiero risplendente, i Khmer verdi, la Rinascita afgana, l’ala radicale delle Madri-contro-la-Macchina, la Chiesa riunificata della Riunificazione, l’Omega 7, i Chiliasti del Giudizio Universale (benché Billy Jo Rankin negasse ogni addebito e affermasse che le ammissioni di colpevolezza erano state sfruttate dagli empi per cercare di screditare Dio), il Broeder-bond, El Catorce de Febrero, l’Armata segreta del Kuomintang. la Lega Zionista, il Partito di Dio e il Fronte di Liberazione sim-bionese risorto da poco. La maggior parte di tali organizzazioni non avevano avuto i mezzi per attuare il sabotaggio; la lunghezza della lista era semplicemente un segno della diffusione dell’opposizione alla Macchina. Il Ku Klux Klan, il Partito Nazista Americano, il Partito Democratico Nazionalsocialista e alcune organizzazioni analoghe si tennero in disparte e non si addossarono alcuna responsabilità. Un’autorevole minoranza dei loro membri credeva che il Messaggio fosse stato inviato da Hitler stesso. Secondo una versione, il dittatore tedesco era stato trasferito al sicuro nello spazio dalla tecnologia missilistica del suo paese nel maggio del 1945, e un bel progresso era stato compiuto nel frattempo dai nazisti. «Non conosco la destinazione della Macchina,» dichiarò la Presidente alcuni mesi dopo, «ma se si trattasse di una meta che avesse anche solo in parte i difetti del nostro pianeta non varrebbe certo la pena di andarci.» Secondo la ricostruzione della commissione d’inchiesta, una delle sbarre di erbio era stata spaccata da un’esplosione; i due frammenti a forma di cilindro erano stati proiettati in basso da un’altezza di venti metri e avevano anche ricevuto una spinta laterale di notevole potenza. Un muro interno di sostegno era stato investito dallo scoppio ed era crollato sotto l’impatto. Undici persone erano rimaste uccise e quarantotto ferite. Molti pezzi importanti della Macchina erano stati distrutti; e, poiché l’esplosione non era contemplata tra le prove di collaudo prescritte dal Messaggio, l’esplosione potrebbe aver danneggiato dei componenti in apparenza intatti. Visto che non si aveva nessuna idea del funzionamento della cosa, si doveva essere il più possibile attenti durante il processo costruttivo. Nonostante la profusione di organizzazioni che pretendevano di essere credute, i sospetti degli Stati Uniti si appuntarono immediatamente su due dei pochi gruppi che non avevano rivendicato la paternità dell’accaduto: gli extraterrestri e i russi. Discorsi su Macchine del Giudizio Universale riempirono l’aria ancora una volta. Gli extraterrestri avevano progettato la Macchina in modo che esplodesse catastroficamente una volta assemblata, ma fortunatamente, dissero alcuni, si era stati disattenti nell’operazione di assemblaggio ed era scoppiata soltanto una piccola carica, forse il detonatore della Macchina del Giudizio. Costoro esortavano a sospendere i lavori prima che fosse troppo tardi e a sotterrare i componenti superstiti in miniere di salgemma disseminate su estese superfici. Ma la commissione di inchiesta accertò che il Disastro della Macchina era da imputare piuttosto a cause terrestri. Le sbarre avevano una cavità centrale ellissoidale, di uso sconosciuto, la cui superficie interna era rivestita di un’intricata rete di fili di gadolinio puro. Tale cavità era stata riempita di esplosivo plastico collegato a un timer, elementi che non figuravano nell’Inventario delle parti del Messaggio. La sbarra era stata lavorata, rivestita all’interno, sottoposta al test e sigillata in un impianto della Cibernetica Hadden a Terre Haute nell’Indiana. Il sistema di fili di gadolinio si era rivelato troppo complicato per essere eseguito a mano; si rendevano necessari dei servomeccanismi robotizzati che a loro volta avevano richiesto una fabbrica importante per essere costruiti. La spesa per la creazione della fabbrica fu interamente sostenuta dalla Cibernetica Hadden, ma ci sarebbero state altre, più proficue applicazioni per i suoi prodotti. Le altre tre sbarre di erbio dello stesso lotto vennero esaminate con cura e non rivelarono esplosivo plastico. (Le maestranze sovietiche e giapponesi avevano effettuato una serie di controlli a distanza prima di avere il coraggio di guardar dentro alle loro sbarre.) Qualcuno aveva infilato abilmente nella cavità una carica compressa e un timer verso la fine della lavorazione a Terre Haute. Una volta uscita dalla fabbrica, questa sbarra — e quelle provenienti da altri lotti — era stata trasportata da un convoglio speciale, e sotto scorta armata, nel Wyoming. La regolazione del-l’esplosione e la natura del sabotaggio fecero pensare a qualcuno addentro nella costruzione della Macchina, a un addetto ai lavori. Ma l’indagine sembrava a un punto morto, o quasi. C’erano state parecchie decine di persone — tecnici, addetti ai controlli di qualità, ispettori che sigillavano il componente per il trasferimento — che avevano avuto l’opportunità di compiere il sabotaggio, se non i mezzi e le motivazioni. Quelli che non superarono le prove della macchina della verità, avevano alibi di ferro. Nessuno dei sospettati si lasciò sfuggire una confessione in un momento di abbandono nel bar sotto casa. Nessuno cominciò a spendere più di quanto gli consentissero i suoi mezzi. Nessuno crollò sotto interrogatorio. Nonostante i dichiarati sforzi da parte dei corpi speciali di polizia, il mistero rimase insoluto. I sostenitori della responsabilità sovietica affermavano che il movente dei russi era di impedire agli Stati Uniti di attivare la Macchina per primi. I russi avevano la capacità tecnica per il sabotaggio e, naturalmente, una conoscenza dettagliata dei protocolli per la costruzione della Macchina su entrambe le sponde all’Atlantico. Non appena si verificò il disastro, Anatolij Goldmann, un vecchio studente di Lunacarskij, che faceva da elemento russo di collegamento nel Wyoming, si affrettò a chiamare Mosca e disse loro di smontare tutte le sbarre. A una valutazione superficiale, tale conversazione — che era stata come al solito controllata dalla NSA — sembrava dimostrare l’estraneità dei russi, ma qualcuno sostenne che la chiamata telefonica era stata una finta per stornare i sospetti, e che Goldmann non era stato preavvertito del sabotaggio. L’ipotesi venne accettata da quegli americani che mal tolleravano la recente riduzione di tensioni tra le due superpotenze nucleari. Comprensibilmente, Mosca si offese per quell’insinuazione. Di fatto, i russi nel costruire la loro Macchina stavano incontrando più difficoltà di quanto si sapesse comunemente. Servendosi del Messaggio decifrato, il Ministero dell’Industria semipesante aveva compiuto considerevoli progressi nell’estrazione dei minerali, nella metallurgia, nelle macchine utensili e simili. La nuova microelettronica e la nuova cibernetica erano più difficili, e la maggior parte di quei componenti per la Macchina russa erano prodotti sotto sorveglianza altrove, in Europa e in Giappone. Anche più ardua per l’industria nazionale russa era la chimica organica, gran parte della quale richiedeva tecniche sviluppate nella biologia molecolare. Un colpo quasi fatale era stato inferto alla genetica russa quando negli anni Trenta Stalin aveva deciso che la moderna genetica mendeliana era ideologicamente sconveniente e aveva dichiarato scientificamente ortodossa la genetica balorda di un agricoltore politicamente raffinato di nome Trofim Lysenko. A due generazioni di brillanti studenti sovietici non era stato impartito quasi nulla dei fondamenti dell’ereditarietà. Adesso, sessant’anni più tardi, la biologia molecolare e l’ingegneria genetica erano relativamente arretrate, e poche importanti scoperte in questi campi erano state effettuate da scienziati russi. Qualcosa di analogo era accaduto, ma senza conseguenze, negli Stati Uniti, dove, per ragioni teologiche, si erano fatti dei tentativi di impedire agli studenti delle scuole governative di apprendere la teoria dell’evoluzione, l’idea centrale della moderna biologia. Il punto era chiaro, poiché l’interpretazione fondamentalistica della Bibbia, secondo un’opinione diffusa, era incompatibile con il processo evoluzionistico. Fortunatamente per la biologia molecolare americana, l’influenza dei fondamentalisti negli Stati Uniti non era pari a quella di Stalin in Russia. Il giudizio dei servizi segreti nazionali preparato per la Presidente sulla faccenda concludeva che non c’era alcuna prova di un’implicazione sovietica nel sabotaggio. Al contrario, poiché i russi avevano, come gli americani, un loro rappresentante nell’equipaggio, avevano forti incentivi a non ostacolare il completamento della Macchina americana. «Se la nostra tecnologia si trova al Livello Tre,» spiegò il capo dei servizi segreti centrali, «e il vostro avversario vi precede al Livello Quattro, siete contenti quando dal cielo appare una tecnologia da Livello Quindici. Purché abbiate uguale accesso a essa e adeguate risorse.» Pochi funzionari del governo americano credettero i russi responsabili del-l’esplosione, e anche la Presidente lo affermò pubblicamente in più di un’occasione. Ma le vecchie convinzioni fanno fatica a morire. «Nessun gruppo di pazzi, anche se ben organizzato, potrà allontanare l’umanità da questo storico traguardo,» dichiarò la Presidente. In pratica, però, adesso era molto più difficile riscuotere un consenso nazionale. Il sabotaggio aveva ridato respiro a ogni obiezione, ragionevole o irragionevole, sollevata in precedenza. Solo la prospettiva del completamento della Macchina da parte dei Sovietici fece sì che si continuasse nel progetto americano. La moglie aveva voluto che il funerale di Drumlin si tenesse in forma strettamente privata, ma in ciò, come in molte altre cose, le sue buone intenzioni vennero vanificate. Fisici, aspiranti membri dell’equipaggio, appassionati di deltaplano, funzionar! governativi, campioni di nuoto subacqueo, radioastronomi, paracadutisti, e la comunità mondiale SETI, tutti volevano presenziare. Per un po’ si pensò di celebrare il servizio funebre nella cattedrale di St. John thè Divine di New York City, poiché era la sola chiesa del paese di capienza adeguata. Ma la moglie di Drumlin riuscì a riportare una piccola vittoria, e la cerimonia venne tenuta all’aperto nella sua città natale di Missoula, nel Montana. Le autorità furono d’accordo poiché Missoula semplificava i problemi di sicurezza. Benché Valerian non fosse rimasto ferito in maniera grave, i suoi medici lo sconsigliarono di prender parte al funerale; ciò nonostante, egli pronunciò uno degli elogi funebri da una sedia a rotelle. Lo speciale genio di Drumlin consisteva nel sapere quali domande rivolgere, disse Valerian. Si era accostato al problema SETI scetticamente, perché lo scetticismo era alla base della scienza. Una volta chiaro che si stava ricevendo un Messaggio, nessuno si era dedicato con maggiore impegno di lui alla sua decifrazione. Il ViceSegretario alla Difesa, Michael Kitz, in rappresentanza della Presidente, sottolineò le qualità personali di Drumlin: il suo calore, la sua considerazione per i sentimenti degli altri, il suo talento, le sue notevoli doti atletiche. Se non fosse stato per quel tragico e vile evento, Drumlin sarebbe passato alla storia come il primo americano ad aver visitato un’altra stella. Lei non avrebbe pronunciato nessuna orazione funebre, aveva detto Ellie a der Heer. Non avrebbe concesso nessuna intervista alla stampa. Forse si sarebbe lasciata fotografare — ne capiva l’importanza. Aveva paura di non dire le cose appropriate alla circostanza. Per anni, era stata una sorta di portavoce pubblico per SETI, per l’Argus, e poi per il Messaggio e per la Macchina. Ma questa era una situazione diversa. Aveva bisogno di tempo per riflettere. A suo parere, Drumlin era morto salvandole la vita. Egli aveva visto l’esplosione prima che gli altri la udissero, si era reso conto fulmineamente che la massa di erbio di parecchie centinaia di chili stava per investirli. Con i suoi pronti riflessi si era slanciato verso di lei e l’aveva ricacciata indietro al riparo del montante. Ellie aveva fatto presente questa possibilità a der Heer che ribattè: «Drumlin stava probabilmente facendo un balzo per salvare se stesso e tu ti trovavi proprio sulla sua traiettoria.» L’osservazione era stata poco gentile; che lui l’avesse fatta anche con l’intento di ingraziarsela? O forse, aveva proseguito der Heer, intuendo il suo scontento, Drumlin era stato lanciato in aria dall’urto dell’erbio contro il piano del ponteggio. Ma lei ne era assolutamente sicura. Aveva visto tutto. La preoccupazione di Drumlin era stata quella di salvare la sua vita. E c’era riuscito. A parte alcune escoriazioni, Ellie era rimasta tìsicamente illesa. Valerian, che era stato completamente protetto dal montante, aveva avuto entrambe le gambe fratturate da una parete che era crollata. Lei aveva avuto tutte le fortune. Non aveva neppure perso i sensi. Il suo primo pensiero — non appena si fu resa conto dell’accaduto — non fu per il suo vecchio maestro David Drumlin schiacciato orribilmente davanti ai suoi occhi; non provò nessuno stupore all’idea che Drumlin avesse rinunciato alla sua vita per lei; non considerò i ritardi che l’incidente avrebbe causato all’intero progetto. No, chiaro come il sole, il suo pensiero era stato: «Posso andarci, dovranno mandare me, non c’è nessun altro, ce l’ho fatta.» Si era ripresa in un attimo, ma era troppo tardi. Era stupefatta dal suo coinvolgimento personale, dallo spregevole egotismo che aveva rivelato a se stessa in quel momento di crisi. Non importava se Drumlin poteva aver avuto delle mancanze del genere. Era sgomenta di trovare, anche se per un istante soltanto, dentro di sé, delle linee di condotta così… forti, aggressive, protese al futuro che la rendevano dimentica di ogni cosa tranne che di se stessa. Quello che detestò maggiormente fu l’assoluta indifferenza del suo ego, che non si scusò, non le diede tregua e fece irruzione prepotentemente. Era corrotto, guasto. Sapeva che sarebbe stato impossibile estirparlo con radici e rami. Avrebbe dovuto lavorarci pazientemente, ragionarci, distrailo, forse persino minacciarlo. Quando gli investigatori giunsero sul luogo della tragedia, fu laconica. «Temo di non potervi dire molto. Noi tre stavamo camminando insieme nell’area dei ponteggi e all’improvviso c’è stata un’esplosione e tutto è volato in aria. Mi dispiace di non potervi aiutare. Vorrei esserne in grado.» Fece capire ai suoi colleghi che non voleva parlarne, e scomparve nel suo alloggio dove rimase così a lungo che mandarono degli agenti della vigilanza a chiedere sue notizie. Ellie cercava di ricordare ogni piccolo dettaglio dell’incidente, di ricostruire la loro conversazione prima che entrassero nell’area dei ponteggi, l’argomento dei loro discorsi durante il viaggio in auto a Missoula, l’impressione che le aveva fatto Drumlin quando l’aveva incontrato la prima volta all’inizio del suo perfezionamento. A poco a poco, Ellie scoprì che c’era stata una parte di lei che aveva voluto Drumlin morto — anche prima di entrare in competizione per il posto americano sulla Macchina. Ellie lo aveva odiato per averla umiliata davanti agli altri studenti del corso, per essersi opposto all’Argus, per quello che le aveva detto l’istante dopo che il clip hitleriano era stato ricomposto. Gli aveva augurato la morte. E adesso lui era morto. Secondo un certo modo di ragionare, che riconobbe subito come contorto e contraffatto, si credette responsabile. Si sarebbe trovato lì se non fosse stato per lei? Certo, si disse; qualcun altro avrebbe scoperto il Messaggio e Drumlin sarebbe saltato in aria. Ma lei, forse per la propria carenza scientifica, non aveva provocato un coinvolgimento sempre maggiore di Drumlin nel progetto della Macchina? Un poco alla volta, Ellie esaminò attentamente le possibilità. Se esse erano spiacevoli, le sviscerava con accanimento; vi si nascondeva qualcosa. Pensò agli uomini che per una ragione o per l’altra lei aveva ammirato. Drumlin. Valerian. Der Heer. Hadden… Joss. Jesse… Staugh-ton?… suo padre. «Dottor Arroway?» Ellie fu grata a quel donnone di mezz’età vestito di blu di averla distolta dalla sua meditazione. Il suo volto aveva qualcosa di familiare. Sulla targhetta di identificazione appuntata sul suo ampio petto c’era scritto: «H. Bork, Goteborg.» «Dottor Arroway, mi dispiace moltissimo per la sua… per la nostra perdita. David mi aveva raccontato tutto di lei.» Naturalmente! La leggendaria Helga Bork, la compagna di nuoto di Drumlin in tante noiose proiezioni di diapositive per i perfezionandi. Ma chi, si chiese per la prima volta, aveva scattato quelle foto? Avevano invitato un fotografo ad accompagnarli nei loro appuntamenti subacquei? «Mi aveva detto quanto eravate uniti voi due.» Che cosa sta tentando di dirmi quella donna? Drumlin le ha insinuato… Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Mi dispiace, dottor Bork, non mi sento molto bene in questo momento.» A testa bassa, la donna se ne andò in fretta. C’erano molte persone al funerale che lei desiderava vedere: Vaygay, Arkhangelskij, Gotsridze, Baruda, Yu Xi, Devi, e Abonneda Eda, di cui si diceva con sempre maggior frequenza che sarebbe stato il quinto membro dell’equipaggio… se le nazioni avessero avuto un po’ di buon senso, pensò Ellie, e se ci fosse stata una Macchina finita. Ma la sua forza di resistenza sociale era distrutta e adesso non poteva sopportare lunghi incontri. C’era una cosa che le incuteva il terrore di parlare: quanto di quello che avrebbe potuto dire sarebbe stato per il bene del progetto, e quanto per soddisfare le sue personali esigenze? Gli altri furono sensibili e comprensivi. Lei era stata, dopo tutto, la persona più vicina a Drumlin quando la sbarra di erbio l’aveva colpito e schiacciato. 16 I VENERABILI DI OZONO «Il Dio che la scienza riconosce deve essere un Dio esclusivamente di leggi universali, un Dio che tratta affari all’ingrosso, non al minuto. Egli non può adattare i suoi procedimenti alla convenienza degli individui.»      WILLIAM JAMES, Le varietà di esperienza religiosa (1902) Ad alcune centinaia di chilometri di altezza, la Terra riempie a metà il cielo, e la striscia di blu che si stende da Mindanao a Bombay, e che l’occhio abbraccia in un solo sguardo, può spezzare il cuore con la sua bellezza. Ecco la mia patria, si pensa, la mia patria. Quello è il mio mondo. E’ da là che vengo. Tutti quelli che conosco, tutti quelli di cui ho sentito parlare, sono cresciuti laggiù, sotto quell’immutabile e magnifico cielo azzurro. Si vola in direzione est da orizzonte a orizzonte, da alba ad alba, girando attorno al pianeta in un’ora e mezzo. Dopo un po’, inevitabilmente, lo si conosce bene e si studiano le sue caratteristiche e le sue anomalie. Si può vedere tanto a occhio nudo. La Florida sarà presto di nuovo visibile. Quel sistema tropicale di uragani, che si era visto durante l’ultima orbita mentre turbinava e si spostava velocemente sul mar dei Caraibi, ha raggiunto Fort Lauderdale? Qualche montagna dell’Hindu Kush è priva di neve quest’estate? Si ammirano i banchi color acquamarina del mar dei Coralli. Si guarda la barriera di ghiaccio dell’Antartide occidentale e ci si chiede se il suo scioglimento potrebbe realmente sommergere tutte le città costiere del pianeta. Con la luce del giorno, però, è difficile scorgere qualche traccia di insediamenti umani. Ma di notte, fatta eccezione per l’aurora boreale, tutto ciò che si vede è dovuto agli uomini. Quella fascia di luce è il Nord America orientale, senza soluzione di continuità da Boston a Washington, una megalopoli di fatto se non di nome. Laggiù bruciano i gas naturali dei campi petroliferi della Libia. Le luci brillanti delle lampare della flottiglia da pesca giapponese si sono spostate verso il Mar Cinese Meridionale. A ogni orbita, la Terra racconta nuove storie. Si può vedere un’eruzione vulcanica nella Kamcatka, una tempesta di sabbia sahariana che si avvicina al Brasile, un’ondata di freddo fuori stagione in Nuova Zelanda. Si arriva a pensare alla Terra come a un organismo, a una cosa vivente. Ci si comincia a preoccupare di lei, a volerle bene, a pensare al suo interesse. Le frontiere nazionali sono invisibili come lo sono i meridiani della longitudine, o i Tropici del Cancro e del Capricorno. Le frontiere sono arbitrarie. Il pianeta è reale. Il volo spaziale, perciò, è sovvertitore. Se sono abbastanza fortunati da trovarsi in orbita terrestre, la maggior parte degli uomini, dopo una breve riflessione, hanno pensieri simili. Le nazioni che hanno istituito il volo spaziale l’hanno fatto soprattutto per ragioni nazionalistiche; è stata un’ironia della sorte che quasi tutti coloro che sono andati nello spazio abbiano ricevuto una sorprendente visione di una prospettiva soprannazionale, della Terra come di un mondo solo. Non era difficile immaginare un tempo in cui il patriottismo si sarebbe sentito per quel mondo azzurro, o persino per quei corpi celesti che fanno compagnia alla vicina nana gialla cui gli uomini, una volta ignari che ogni stella fosse un sole, avevano attribuito l’articolo determinativo: il Sole. Era solo da quando molti astronauti erano rimasti nello spazio per lunghi periodi, che avevano consentito loro di riflettere, che il potere della prospettiva planetaria aveva cominciato a farsi sentire. Un numero significativo di questi occupanti di una bassa orbita terrestre finirono per esercitare una certa influenza laggiù sulla Terra. All’inizio, prima che un essere umano andasse nello spazio, avevano mandato in cielo degli animali. Amebe, moscerini della frutta, topi, cani e scimmie erano diventati arditi veterani dello spazio. Quando divennero possibili voli spaziali di sempre maggior durata, si scoprì qualcosa di sorprendente. Il soggiorno nello spazio non aveva effetti sui microrganismi e scarsi effetti sui moscerini della frutta. Ma per i mammiferi, a quanto pareva, la gravita zero aumentava la durata della vita, del 10 o 20 %. Se si fosse vissuto in condizioni di gravita zero, il corpo avrebbe consumato minor energia combattendo la forza di gravita, le sue cellule si sarebbero ossidate più lentamente e così si sarebbe vissuti più a lungo. Alcuni medici avevano affermato che gli effetti sarebbero stati molto più marcati sugli uomini che sui topi. C’era un profumo di immortalità nell’aria. L’insorgenza di casi di cancro era calata dell’80 % negli animali in orbita rispetto a quelli controllati sulla Terra. La leucemia e i carcinomi linfatici erano scesi del 90 %. C’era anche qualche indizio, forse non ancora significativo statisticamente, che la percentuale di remissioni spontanee di malattie neoplastiche fosse molto più elevata in condizioni di gravita zero. Il chimico tedesco Otto Warburg, mezzo secolo prima, aveva avanzato l’ipotesi che l’ossidazione fosse la causa di molti tumori. Il più basso consumo cellulare di ossigeno in condizioni di assenza di peso sembrò all’improvviso molto seducente. Persone che nei decenni precedenti avrebbero compiuto un pellegrinaggio in Messico per il laetrile, adesso chiedevano un biglietto per lo spazio. Ma il prezzo era esorbitante. Si trattasse di medicina preventiva o clinica, il volo spaziale era per pochi eletti. All’improvviso, somme di denaro fino ad allora inaudite si resero disponibili per investimenti in stazioni civili orbitanti. Negli ultimissimi anni del secondo millennio, c’erano le prime case di riposo all’altezza di alcune centinaia di chilometri. A parte la spesa, c’era un serio inconveniente, naturalmente: progressive modificazioni osteologiche e vascolari rendevano per sempre impossibile il ritorno al campo gravitazionale, alla superficie della Terra. Ma per alcuni dei ricchi anziani, ciò non costituiva un grave impedimento. In cambio di altri dieci anni di vita, erano felici di ritirarsi in cielo e, se mai, di morirvi. Alcuni, preoccupati, consideravano questa operazione un imprudente investimento della limitata ricchezza del pianeta; c’erano troppi bisogni urgenti e troppe giuste rivendicazioni dei poveri e dei deboli per sprecarla viziando i ricchi e i potenti. Era da sconsiderati, essi dicevano, permettere a una classe elitaria di emigrare nello spazio, mentre le masse sarebbero state lasciate sulla terra, un pianeta affidato a padroni assenti. Altri invece sostenevano che era una benedizione del cielo: i padroni del pianeta si stavano riunendo per partire; non avrebbero fatto più danno lassù che quaggiù. Quasi nessuno previde la conseguenza principale, cioè che le persone che potevano fare maggiormente del bene venissero conquistate da una vigorosa prospettiva planetaria. Nel giro di pochi anni, rimasero pochi nazionalisti in orbita terrestre. Il confronto nucleare globale pone dei reali problemi a coloro che si sentono imperiosamente attratti dall’immortalità. C’erano industriali giapponesi, armatori greci, principi ereditari sauditi, un ex Presidente, un ex segretario generale del Partito, un magnate cinese di dubbia onestà, un boss dell’eroina in pensione. In Occidente, a parte alcuni inviti promozionali, vigeva soltanto un criterio per poter risiedere in orbita terrestre: bastava essere in grado di pagare. Il pensionato russo era diverso; veniva scelta una stazione spaziale e si diceva che l’ex segretario del Partito si trovasse lì per «ricerche gerontologiche». In genere, le masse non nutrivano rancori. Immaginavano che un giorno anche loro ci sarebbero andate. Quelli in orbita terrestre tendevano a essere circospetti, attenti, tranquilli. Le loro famiglie e i loro staff avevano qualità personali analoghe. Gli altri personaggi ricchi e potenti, che si trovavano ancora sulla Terra li tenevano d’occhio con discrezione. Gli orbitanti non rilasciavano dichiarazioni, ma le loro vedute permearono a poco a poco il pensiero di leader di tutto il mondo. Il progressivo disarmo nucleare da parte delle cinque potenze atomiche veniva caldeggiato dai venerabili in orbita. In maniera informale, essi avevano appoggiato la costruzione della Macchina per il suo potenziale unificatore. Talvolta, organizzazioni nazionalistiche scrivevano di una vasta cospirazione in orbita terrestre, di benefattori cadenti che vendevano le loro patrie. Venivano fatti circolare dei libelli che sarebbero dovuti essere le trascrizioni stenografiche di un convegno avvenuto a bordo del «Matusalemme», cui avrebbero preso parte rappresentanti delle altre stazioni spaziali private trasportati lì per l’occasione. Era stata esibita una lista di «azioni da intraprendere» con l’intento di infondere il terrore anche nel cuore del più pietoso patriota. I libelli erano falsi, annunciò «Timesweek», che li definì «I Protocolli dei Venerabili di Ozono». Nei giorni immediatamente precedenti al lancio, Ellie cercò di trascorrere un po’ di tempo — spesso subito dopo l’alba — a Cocoa Beach. Si era fatta prestare un appartamento che si affacciava sulla spiaggia. Si portava dietro dei pezzetti di pane e si allenava a lanciarli ai gabbiani dell’Atlantico. I pennuti erano in grado di afferrare i bocconi al volo, con una media di presa, secondo i suoi calcoli, intorno a quella di un bravo battitore di baseball. C’erano momenti in cui venti o trenta gabbiani si libravano in aria a un metro o due appena sulla sua testa. Battevano vigorosamente le ali per rimanere in posizione, con i becchi aperti, in attesa spasmodica della miracolosa apparizione del cibo. Si sfioravano in un movimento apparentemente casuale, ma l’effetto totale era quello di una formazione statica. Ritornando a casa, al limitare della spiaggia, scorse a terra una piccola fronda di palma, perfetta nella sua umiltà. La raccolse e la portò nel suo appartamento, ripulendola dalla sabbia con le dita. Hadden l’aveva invitata a fargli visita nella sua casa sospesa, nel suo castello spaziale, battezzato «Matusalemme». Ellie potè mettere a conoscenza dell’invito solo il governo, poiché Hadden voleva a tutti i costi evitare la pubblica attenzione. Infatti, non era ancora risaputo che egli avesse stabilito la sua residenza in orbita, che si fosse ritirato in cielo. Tutti i funzionari governativi cui Ellie si rivolse, furono favorevoli alla sua partenza. Il parere di der Heer fu: «Il cambiamento d’aria ti farà bene.» La Presidente si mostrò chiaramente d’accordo, visto che all’improvviso si era reso disponibile un posto sul prossimo lancio di uno shuttle, il vecchio STS «Intrepido». Di solito, i collegamenti con una casa di riposo orbitante erano effettuati da un vettore commerciale. Erano in corso i collaudi finali di volo per un veicolo di lancio molto più grande e non riutilizzabile. Ma la flotta vecchiotta di shuttle era ancora la più usata per le attività spaziali militari e civili del governo americano. «Subiamo solo qualche danno alle piastre isolanti durante la fase del rientro, ma tutto è nuovamente in ordine prima del decollo,» le spiegò uno dei piloti-astronauti. Oltre a una salute generale buona, non ci volevano speciali requisiti fisici per il volo. I lanci commerciali di solito partivano pieni e ritornavano vuoti. Invece, i voli shuttle erano completi sia all’andata che al ritorno. Prima dell’ultimo atterraggio, avvenuto la settimana prima, l’»Intrepido» si era agganciato con il «Matusalemme» per far rientrare sulla Terra due passeggeri. Riconobbe i loro nomi; uno era un progettista di sistemi propulsivi, l’altro un criobiologo. Ellie si chiese incuriosita che fossero rimasti a fare a bordo del «Matusalemme». «Vedrà,» il pilota proseguì, «è come cadere a piombo; una sensazione che quasi nessuno trova sgradevole, anzi molti l’adorano.» Fu così anche per lei. Stretta tra il pilota, due specialisti in missione, un ufficiale taciturno e un impiegato del servizio fiscale interno, Ellie sperimentò un decollo impeccabile e l’euforia della sua prima esperienza in condizioni di gravita zero più duratura del viaggio nell’ascensore ad alta decelerazione al World Trade Center di New York. Un’orbita e mezzo dopo, ebbero il rendezvous con il «Matusalemme». Di lì a due giorni, il convoglio commerciale «Narnia» avrebbe riportato giù Ellie. Il Castello — Hadden insisteva nel chiamarlo così — ruotava su se stesso lentamente e compiva il moto di rivoluzione in circa novanta minuti, di modo che rivolgeva sempre la stessa faccia alla Terra. Lo studio di Hadden presentava un magnifico panorama sulla paratia rivolta alla Terra: non uno schermo televisivo, ma una vera finestra trasparente. I fotoni che lei stava vedendo erano stati riflessi dalle Ande innevate appena una frazione di secondo prima. Tranne che alle estremità della finestra, dove il percorso inclinato attraverso lo spesso polimero era più lungo, non si notava quasi nessuna distorsione. C’erano molte persone di sua conoscenza, persino di quelle che si consideravano religiose, che trovavano imbarazzante la sensazione di timore reverenziale. Ma bisognava esser fatti di legno, pensò Ellie, per restare davanti a quella finestra e non provarlo. Avrebbero dovuto mandar su giovani poeti e compositori, artisti, cineasti, e persone profondamente religiose non del tutto schiave di burocrazie settarie. Quell’esperienza secondo lei, avrebbe potuto essere facilmente comunicata alla persona media della Terra. Peccato che non lo si fosse ancora tentato seriamente. La sensazione era… numinosa. «Ci si abitua,» le disse Hadden, «ma non ci si stanca. Di tanto in tanto è ancora fonte di ispirazione.» Stava sorseggiando sobriamente una coca-cola dietetica. Ellie aveva rifiutato l’offerta di qualcosa di più forte. L’effetto dell’etanolo in orbita doveva essere notevole, aveva pensato. «Naturalmente, si sente la mancanza di lunghe passeggiate, di nuotate nell’oceano, di visite inattese di vecchi amici. Ma comunque non ne ho mai avute molte di cose del genere. E come vede, gli amici possono passare a farmi visita.» «Spendendo una fortuna,» ribattè lei. «C’è una donna che viene a trovare Yamagishi, il mio vicino dell’ala accanto, il secondo martedì di ogni mese, pioggia o bel tempo. Glielo presenterò più tardi. E’ un bel tipo. Criminale di guerra di categoria A, ma solo accusato, capisce, mai condannato.» «Che cos’è che l’ha attirata qui?» chiese Ellie. «Lei non crede certo che il mondo sia alla fine. Che sta facendo quassù?» «Mi piace la vista. E ci sono certi vantaggi legali.» Lei lo guardò con aria insoddisfatta. «Sa, qualcuno nella mia posizione — nuove invenzioni, nuove industrie — corre sempre il rischio di infrangere questa o quella legge. Di solito è perché le vecchie leggi non si sono messe al passo con la nuova tecnologia. Si può sprecare un mucchio del proprio tempo in procedimenti penali e questo diminuisce l’efficienza. Mentre tutto ciò» — fece un ampio gesto, che abbracciava il Castello e la Terra — «non appartiene a nessuna nazione. Questo Castello appartiene a me, al mio amico Yamagishi e ad alcuni altri. Non potrebbe mai esserci qualcosa di illegale nel rifornirmi di cibo e dello stretto necessario. Tanto per non correre rischi, stiamo lavorando a sistemi ecologici chiusi. Non c’è nessun trattato di estradizione fra questo Castello e le nazioni laggiù. E’ più… proficuo per me stare quassù. Non voglio che lei pensi che abbia fatto qualcosa di veramente illegale. Ma ci stiamo occupando di tante nuove cose che è intelligente tenere un margine di sicurezza. Per esempio, ci sono persone che credono davvero che abbia sabotato la macchina, quando ho speso un’incredibile quantità del mio stesso denaro cercando di costruirla. E lei sa quello che hanno fatto a Babilonia. I miei investigatori assicurativi pensano possa essersi trattato della stessa gente a Babilonia, come a Terre Haute. Sembra proprio che abbia un’infinità di nemici. Non ne vedo il perché. Credo di aver fatto un mucchio di bene al mio prossimo. Comunque, alla fin fine, è meglio per me starmene quassù. Dunque, è della Macchina che volevo parlarle. Terribile la catastrofe della sbarra di erbio nel Wyoming. Mi dispiace profondamente per Drumlin. Era un tipo con le palle quadrate. E deve essere stato un grave colpo per lei. Sicura di non volere un drink?» Ma le bastava guardare la Terra e ascoltare. «Se non sono demoralizzato io riguardo alla Macchina,» proseguì Hadden, «non vedo perché dovrebbe esserlo lei. Probabilmente si preoccupa che non possa esserci mai una Macchina americana, che siano in troppi a volerne il fallimento. La Presidente teme la stessa cosa. E le fabbriche che abbiamo costruito, non sono catene di montaggio. Stavamo confezionando dei prodotti fuori serie. Sarà costoso rimpiazzare tutte le parti distrutte. Ma soprattutto lei sta pensando che forse è stata una cattiva idea fin dall’inizio. Forse siamo stati insensati ad andare così in fretta. Perciò, esaminiamo a lungo e con attenzione l’intera faccenda. Anche se lei non la pensa così, la Presidente è d’accordo. Ma se non costruiamo la Macchina presto, temo che non la costruiremo mai. E c’è un’altra cosa: non credo che questo invito sia sempre aperto.» «E’ curioso che lei dica ciò. E’ proprio quello di cui stavamo parlando Valerian, Drumlin e io prima dell’incidente. Del sabotaggio,» si corresse Ellie. «Prego continui.» «Vede, le persone religiose — la maggior parte di esse — pensano davvero che questo pianeta sia un esperimento. E’ quello che tramandano le loro fedi. Un dio o l’altro sta sempre brontolando, combinando pasticci con mogli di artigiani, consegnando tavole sulle montagne, comandando di mutilare i figli, dicendo alla gente quali parole possa pronunciare e quali no, costringendo la gente a sentirsi colpevole del proprio piacere e così via. Perché gli dei non possono star tranquilli? Tutto questo intervenire e infastidirsi puzza di incompetenza. Se Dio non voleva che la moglie di Lot si voltasse indietro a guardare, perché non l’aveva creata obbediente, così avrebbe fatto quello che le diceva suo marito? O se non avesse fatto Lot con quella testa di cazzo, forse lei gli avrebbe dato più ascolto. Se Dio è onnipotente e onniscente, perché non ha fatto funzionare l’universo fin da principio così sarebbe venuto fuori come voleva lui? Perché sta continuamente aggiustando le cose e lamentandosi? No, c’è una sola cosa che la Bibbia chiarisce: il suo Dio è un artefice maldestro. Non ci sa fare nella fase progettuale e non ci sa fare nella fase esecutiva. Dovrebbe ritirarsi dagli affari, se ci fosse della concorrenza. Ecco perché non credo che siamo un esperimento. Potrbbero esserci moltissimi pianeti sperimentali nell’universo, luoghi dove apprendisti dei mettono alla prova le loro capacità. Peccato che Rankin e Joss non siano nati su uno di questi pianeti. Ma su quello» — di nuovo indicò la finestra — «non si trova neppure traccia di un microintervento. Gli dei non ci fanno una visitina per sistemare le cose quando le abbiamo abborracciate. Basta considerare la storia umana per rendersi conto che siamo stati soli.» «Finora,» disse Ellie. «Deux ex machina? E’ quello che pensa? Lei crede che gli dei abbiano finalmente avuto pietà di noi e ci abbiano mandato la Macchina?» «Meglio ‘Machina ex deo’, o come diavolo si dice in latino. No, non credo che siamo l’esperimento. Credo che siamo il controllo, il pianeta cui nessuno si è interessato, il luogo dove nessuno è mai intervenuto. Un mondo di calibratura decaduto. O è quello che capita se non intervengono. La Terra è un argomento di lezione per gli apprendisti dei. ‘Se davvero siete dei casinisti,’ si sentono dire, ‘farete qualcosa come la Terra.’ Naturalmente sarebbe uno spreco distruggere un mondo perfettamente riuscito. Così, ci fanno una visitina di quando in quando, caso mai… Forse ogni volta portano con loro gli dei pasticcioni. L’ultima volta che hanno dato un’occhiata, ci stavamo trastullando nelle savane, cercando di superare in corsa le antilopi. ‘Okay, va bene’, dicono. ‘Questi tipi non ci daranno nessun fastidio. Li verremo a trovare fra altri dieci milioni di anni. Ma tanto per non correre rischi, controlliamoli su frequenze radio.’ Ma ecco che un bel giorno c’è un allarme. Un messaggio dalla Terra. ‘Cosa? Hanno già la televisione? Vediamo che stanno facendo.’ Stadio olimpico, bandiere nazionali. Uccello rapace. Adolf Hitler. Migliala di persone osannanti. ‘Oh, oh,’ dicono. Conoscono i segni premonitori. Veloci come un lampo ci dicono: ‘Finitela ragazzi. E’ un pianeta perfetto quello che avete. Ecco, costruite questa Macchina, invece.’ Si preoccupano di noi. Vedono che siamo su una china pericolosa. Pensano che dovremmo affrettarci a correre ai ripari. E la penso anch’io così. Dobbiamo costruire la Macchina.» Ellie sapeva che cosa avrebbe pensato Drumlin di simili argomentazioni. Benché molto di quello che Hadden aveva appena detto fosse in sintonia con il suo pensiero, era veramente stanca di quelle affascinanti e fiduciose speculazioni sui propositi degli alieni. Voleva che il progetto andasse avanti, che la Macchina venisse completata e attivata, che cominciasse il nuovo stadio della storia umana. Diffidava ancora delle proprie motivazioni personali, era ancora cauta anche se veniva citata come un possibile membro dell’equipaggio a bordo di una Macchina completata. Quindi, in fondo, i ritardi nella ripresa della costruzione le tornavano comodi. Le davano tempo per meditare sui suoi problemi. «Ceneremo con Yamagishi. Le piacerà. Ma siamo un po’ preoccupati per lui. Tiene la sua pressione parziale dell’ossigeno così bassa di notte.» «Che intende dire?» «Ebbene, più basso è il contenuto di ossigeno nell’aria, più a lungo si vive. Almeno è quanto i dottori ci dicono. Perciò noi tutti stabiliamo la quantità di ossigeno nelle nostre stanze. Durante il giorno, non la si può portare molto al di sotto del 20 %, perché altrimenti non ci si regge in piedi e la funzionalità mentale può essere danneggiata. Ma di notte, quando si dorme, si può abbassare la concentrazione parziale dell’ossigeno. Però è un rischio. La si può abbassare troppo. Yamagishi è sceso al 14 % in questi giorni, perché vuole vivere per sempre. Il risultato è che manca di lucidità fino all’ora di pranzo.» «Sono sempre stata così durante tutta la mia vita, con il 20 % di ossigeno,» disse Ellie ridendo. «Adesso sta sperimentando di eliminare la debolezza con droghe psicotrope. Sa, tipo piracetam. Migliorano decisamente la memoria. Non so se rendano davvero più intelligenti, ma è quanto dicono. Così, Yamagishi sta ingurgitando una quantità incredibile di psicotropi, e non respira abbastanza ossigeno la notte.» «Allora si comporta da pazzo?» «Da pazzo? E’ difficile dirlo. Non conosco moltissimi criminali di guerra di categoria A novantaduenni.» «Ecco perché ogni esperimento ha bisogno di un controllo,» disse Ellie. Hadden sorrise. Anche alla sua età avanzata, Yamagishi esibiva il portamento impettito che aveva acquisito durante il suo lungo servizio nell’esercito imperiale. Era un omino completamente calvo, con un paio di baffetti bianchi e un’espressione stereotipata di benevolenza in volto. «Sono qui per i femori,» spiegò. «So quello che si dice del cancro e della durata della vita. Ma io mi trovo qui per i femori. Alla mia età, le ossa si fratturano facilmente. L’industriale Tsu-kuma è morto per una caduta dal futon sul tatami. Una caduta dal letto, solo cinquanta centimetri, gli è costata la vita. Un mezzo metro. E le sue ossa si sono spezzate. In condizioni di gravita zero, i femori non si rompono.» Il suo discorso sembrava molto assennato. Erano stati fatti alcuni compromessi gastronomici, ma la cena era di una sorprendente raffinatezza. Si era sviluppata una piccola tecnologia specializzata per mangiare in assenza di peso. J C’erano coperchi per ogni cosa e i bicchieri per il vino erano provvisti di chiusure da cui sporgevano cannucce. Alimenti come noci o fiocchi di granturco erano proibiti. Yamagishi la invitò a servirsi del caviale. Era una delle poche raffinatezze occidentali, spiegò, il cui prezzo al chilo sulla Terra superasse quello della spedizione nello spazio. La coesione delle uova di storione costituiva una fortunata irregolarità, pensò Ellie, che cercò di immaginare migliaia di uova separate in caduta libera che andavano a oscurare i corridoi di quella casa di riposo orbitante. All’improvviso, ricordò che anche sua madre si trovava in una casa di riposo, infinitamente più modesta di quella. E prendendo come punto di riferimento i Grandi Laghi visibili in quel momento fuori dalla finestra, fu in grado di localizzare con precisione la cittadina di sua madre. Poteva trascorrere due giorni lassù in orbita terrestre chiacchierando con due tipacci miliardari, ma non riusciva a trovare un quarto d’ora per una telefonata a sua madre? Si ripromise di chiamarla non appena fosse atterrata a Cocoa Beach. Una comunicazione dallo spazio avrebbe potuto rappresentare una novità troppo grossa per la casa di riposo per anziani di Janesville, nel Wisconsin. Yamagishi interruppe il corso dei suoi pensieri per informarla che era l’uomo più vecchio dello spazio. Persino l’ex Vice Premier cinese era più giovane. Si tolse la giacca, si arrotolò la manica destra della camicia, contrasse il bicipite e le chiese di tastargli il muscolo. Passò poi velocemente a illustrarle con abbondanza di particolari le meritorie istituzioni benefiche che avevano ricevuto da lui cospicue donazioni. Ellie cercò di essere gentile. «E’ molto calmo e tranquillo quassù. Deve trovarlo piacevole il suo ritiro.» Aveva rivolto quella banale osservazione a Yamagishi, ma fu Hadden a rispondere. «Non è sempre tutto tranquillo. Qualche volta c’è una crisi e siamo costretti a darci da fare.» «Brillamento solare, estremamente nocivo. Rende sterili,» intervenne Yagamishi. «Seee, se c’è un brillamento solare di notevole entità segnalato dal telescopio, lo sappiamo circa tre giorni prima che le parti-celle cariche colpiscano il Castello. Allora, i residenti stabili, come Yamagishi-san e io, vanno nel rifugio antitempesta. Molto spartano, molto angusto, ma abbastanza schermato alle radiazioni per servire a qualcosa. C’è un po’ di radiazione secondaria, naturalmente. L’inconveniente sta nel fatto che tutto lo staff non permanente e i visitatori sono costretti a partire entro tre giorni. Questo tipo di emergenza può mettere a dura prova la flotta commerciale. Talvolta dobbiamo ricorrere alla NASA o ai russi per portare in salvo qualcuno. Non si immaginerebbe mai che razza di gente si debba far partire in caso di brillamenti solari: mafiosi, capi di servizi segreti, stalloni e donnine…» «Perché mai ho l’impressione che il sesso sia ai primi posti sulla lista delle importazioni dalla Terra?» chiese Ellie un po’ riluttante. «Oh, è così, è così. Ci sono tantissime ragioni. La clientela, il luogo. Ma la ragione principale è la gravita zero. In condizioni di gravita zero, a ottantanni si possono fare cose che non si sarebbero mai credute possibili a venti. Dovrebbe prendersi una vacanza quassù, con il suo amichetto. Lo consideri un preciso invito.» «Novanta,» disse Yamagishi. «Prego?» «A novanta si possono fare cose che non si sognavano di fare a venti. E’ quello che sta dicendo Yamagishi-san. Ecco perché tutti vogliono venire quassù.» Al momento del caffè, Hadden ritornò sull’argomento Macchina. «Yamagishi-san e io siamo in società con alcune altre persone. Lui è il presidente onorario del consiglio di amministrazione delle Industrie Yamagishi, che, come lei sa, sono il principale appaltatore per il collaudo dei componenti della Macchina in corso di allestimento a Hokkaido. Ora provi a immaginare il nostro problema. Le farò un esempio. Ci sono tre grandi gusci sferici, l’uno dentro l’altro. Sono fatti in una lega di niobio, hanno particolari disegni incisi all’esterno, e sono ovviamente destinati a ruotare in tre direzioni ortogonali molto velocemente e in condizioni di vuoto. Si chiamano benzel. Lei è al corrente di tutto, ovviamente. Che accade se si costruisce un modello in scala dei tre benzel e li si fa ruotare molto velocemente? Che succede? Tutti i fisici preparati pensano che non accadrà nulla. Ma, naturalmente, nessuno ha fatto l’esperimento. Questo particolare esperimento. Quindi nessuno lo sa realmente. Supponga che accada qualcosa, una volta attivata l’intera Macchina. Dipende dalla velocità di rotazione? Dipende dalla composizione dei benzel? Dal disegno degli intagli? E’ una questione di scala? Perciò abbiamo costruito queste cose e le abbiamo fatte funzionare: modelli in scala e copie a grandezza naturale. Vogliamo far ruotare la nostra versione dei grandi benzel, quelli che saranno uniti agli altri componenti nelle due Macchine. Nel caso non accada nulla, vorremmo aggiungere componenti addizionali, uno alla volta. Continueremo a inserirli, compiendo un piccolo lavoro di integrazione dei sistemi a ogni fase, finché forse per l’aggiunta di un componente, non l’ultimo, la Macchina farebbe qualcosa di sorprendente. Stiamo soltanto cercando di capire il funzionamento della Macchina. Vede dove voglio arrivare?» «Intende dire che in Giappone state assemblando una copia identica della Macchina?» «Beh, non è esattamente un segreto. Stiamo sottoponendo a test i componenti singoli. Nessuno ha detto che possiamo collaudarli soltanto uno alla volta. Perciò ecco quello che Yamagishi-san e io proponiamo: cambiarne il programma degli esperimenti di Hokkaido. Procediamo a una totale integrazione dei sistemi adesso e, se non succede nulla, collauderemo in seguito componente per componente. A ogni modo, il denaro è stato tutto stanziato. Siamo convinti che ci vorranno mesi — forse anni — prima che gli americani possano rimettersi in carreggiata. E non crediamo che i russi siano in grado di ultimare la Macchina in un tempo inferiore. Il Giappone è l’unica possibilità. Non siamo obbligati ad annunciarlo immediatamente. Non dobbiamo prendere una decisione immediata sull’attivazione della Macchina. Stiamo soltanto collaudando i componenti.» «Ma voi due potete prendere questo tipo di decisione da soli?» «Oh, rientra sempre in quello che chiamano le nostre specifiche responsabilità. Contiamo di poter arrivare allo stadio in cui si trova la Macchina del Wyoming fra circa sei mesi. Dovremo stare molto più attenti ai sabotaggi, naturalmente. Ma se i componenti sono okay, credo che la Macchina sarà okay: Hokkaido è difficile da raggiungere. Allora, una volta che tutto è controllato e pronto, possiamo chiedere all’Associazione mondiale per la Macchina se sarebbero contenti di provarla. Se l’equipaggio sarà d’accordo, scommetto che l’Associazione darà il nullaosta. Che ne pensi, Yamagishi-san?» Yamagishi non aveva sentito la domanda. Stava canticchiando «Caduta libera», un recente successo pieno di vivaci particolari sui peccati in orbita terrestre. Non ne conosceva tutte le parole, spiegò quando la domanda venne ripetuta. Impassibile, Hadden proseguì. «Ora, alcuni dei componenti saranno stati fatti ruotare o eliminati o che altro. Ma in ogni caso dovranno superare i test prescritti. Non pensavo che sarebbe bastato a spaventarla. Personalmente, intendo dire.» «Personalmente? Che cosa le fa pensare che lo sarò? Nessuno mi ha interpellato, in primo luogo, e c’è una quantità di nuovi fattori.» «Quasi certamente il comitato di selezione glielo chiederà e la Presidente sarà favorevole. Entusiasticamente. Andiamo», disse sogghignando, «non vorrà passare tutta la vita al polo nord?» Sulla regione scandinava e sul Mar del Nord c’erano vaste formazioni nuvolose, e la Manica era coperta da una ragnatela di nebbia. «Sì, lei ci andrà.» Yamagishi si era alzato e con le mani tese rigidamente lungo i fianchi le fece un profondo inchino. «A nome dei ventidue milioni di impiegati delle società che io controllo, le dico che è stato un piacere incontrarla.» Nel cubicolo che le avevano assegnato per la notte, Ellie fece sonni agitati. Il suo giaciglio era collegato elasticamente a due pareti, di modo che se si fosse rigirata in gravita zero non avrebbe sbattuto contro qualcosa. Si svegliò mentre tutti gli altri sembravano essere ancora addormentati e aggrappandosi a una serie di sostegni si portò davanti alla grande finestra. Si trovavano sull’emisfero non illuminato dal Sole. La Terra era immersa nell’oscurità tranne che per una spruzzatina di luci, tentativo coraggioso degli uomini di supplire all’opacità della Terra quando il loro emisfero era dall’altra parte del Sole. Venti minuti dopo, all’alba, Ellie decise che se l’avessero interpellata avrebbe risposto di sì. Hadden le arrivò alle spalle e lei trasalì leggermente. «E’ bellissimo, lo devo ammettere. Sono quassù da anni ed è ancora bellissimo. Si chiederà se non mi da fastidio avere le fiancate di una nave spaziale attorno. Guardi, c’è un’esperienza che finora nessuno ha fatto. Sei in tuta spaziale, non c’è nessun cordone ombelicale, nessuna astronave. Forse il Sole è dietro di te e sei circondato da ogni parte da stelle. Forse la Terra è sotto di te. O forse c’è un altro pianeta. Io mi immagino Saturno. Eccoti fluttuare nello spazio in comunione totale con il cosmo. Le tute spaziali odierne dispongono di riserve sufficienti per ore. L’astronave da cui sei uscito può essersene andata da tempo. Forse devono ripassare a prenderti fra un’ora. Forse no. Il bello sarebbe se la nave non tornasse indietro. Le tue ultime ore, circondato dallo spazio, dalle stelle e dai mondi. Se avessi una malattia incurabile, o se volessi regalarti solo un ultimo piacere davvero squisito, che potresti trovare di meglio?» «Dice sul serio? Avrebbe l’intenzione di lanciare sul mercato questo… programma?» «Beh, è ancora troppo presto per commercializzare la cosa. Forse non è esattamente la maniera giusta di occuparsene. Diciamo solo che sto pensando di dimostrarne la fattibilità.» Ellie decise di non parlare ad Hadden della sua decisione e lui non le chiese nulla. Più tardi, quando il «Narnia» stava cominciando le operazioni di rendez-vous e attraccando al «Matusalemme», Hadden la prese da parte. «Si diceva che Yamagishi è la persona più vecchia che ci sia quassù. Beh, se si considerano quelli che restano quassù in permanenza — lasciamo da parte lo staff, gli astronauti e le ballerine — io sono la persona più giovane. Ho un interesse legittimo nella soluzione, lo so, ma è una possibilità medica ben definita che la gravita zero mi faccia vivere per secoli. Sono impegnato in un esperimento di immortalità. Non me ne sto certo occupando per potermene vantare. Lo faccio per una ragione pratica. Se stiamo escogitando dei modi per allungare la durata della nostra vita, pensi a ciò che devono aver fatto quelle creature di Vega. Probabilmente sono immortali o quasi. Sono una persona pratica e ho pensato moltissimo all’immortalità. Ci ho pensato probabilmente più a lungo e più seriamente di chiunque altro. E le posso dire una cosa di sicuro sugli immortali: stanno molto attenti. Non lasciano le cose al caso. Hanno investito troppi sforzi per diventare immortali. Non conosco il loro aspetto, non so che possano volere da lei, ma se mai lei arriverà a vederli, questo è l’unico consiglio pratico che ho per lei: qualcosa di sicurissimo secondo lei, sarà considerato da loro un rischio inaccettabile. Se dovrà negoziare lassù, non dimentichi quello che le sto dicendo.» 17 IL SOGNO DELLE FORMICHE «Il parlare umano è come un bricco fesso su cui battiamo rozzi ritmi per far ballare gli orsi, mentre aspiriamo a far musica che intenerisca le stelle.»      GUSTAVE FLAUBERT, Madame Bovary (1857) «La teologia popolare… è un coacervo di inconsistenza derivato dall’ignoranza… Gli dei esistono perché la natura stessa ne ha impresso una concezione nelle menti degli uomini.»      CICERONE, De Natura Deorum, 1,16 Ellie era indaffarata a impacchettare appunti, nastri magnetici e una fronda di palma per la spedizione in Giappone, quando ricevette la notizia che sua madre aveva subito un colpo apoplettico. Subito dopo, le venne recapitata una lettera dal corriere del progetto. Veniva da John Staughton ed era priva delle consuete formule cortesi d’apertura: Tua madre e io parlavamo spesso delle tue mancanze e dei tuoi difetti. Era sempre una conversazione difficile. Quando ti difendevo (e, sebbene tu possa non crederlo, ciò accadeva spesso), lei mi diceva che ero un pezzo di burro nelle tue mani. Quando ti criticavo, mi invitava a impicciarmi dei miei affari. Ma voglio che tu sappia che la tua riluttanza a farle visita negli ultimi anni, da quando è cominciata la storia di Vega, le ha causato una sofferenza continua. Soleva dire alle sue amiche in quell’orribile casa di cura in cui aveva insistito di entrare che la saresti andata a trovare presto. Lo disse loro per anni. Fantasticava su come avrebbe fatto vedere in giro la sua famosa figlia, fissava nella sua testa l’ordine in cui ti avrebbe presentato le sue decrepite compagne. Probabilmente, non vorrai sentire queste cose, e te le dico con dispiacere. Ma è per il tuo bene. Il tuo comportamento le ha provocato più dolore di qualsiasi altra cosa le sia mai capitata, persino della morte di tuo padre. Puoi essere una persona importante adesso, si trova il tuo ologramma in tutto il mondo, hai a che fare con politici e altre celebrità e così via, ma come essere umano dai tempi della scuola superiore non hai imparato proprio nulla… Con gli occhi pieni di lacrime, Ellie cominciò a spiegazzare la lettera e la sua busta, ma sentì che c’era qualcosa di rigido all’interno, un ologramma parziale ricavato da una vecchia foto bidi-mensionale con una tecnica di extrapolazione computerizzata. Era una foto che non aveva mai visto prima. Sua madre, giovane, piuttosto bella, sorrideva all’obiettivo con un braccio appoggiato con disinvoltura su una spalla del padre di Ellie che appariva mal rasato. Entrambi sembravano raggianti di gioia. Sconvolta dall’angoscia, da un senso di colpa, dalla rabbia nei confronti di Staughton e da un po’ di autocommiserazione, Ellie soppesò l’evidente realtà che non avrebbe mai più rivisto una delle due persone della foto. Sua madre giaceva immobile nel letto. La sua espressione era stranamente neutra, priva com’era di gioia o di rimpianto. Era semplicemente… in attesa. Il suo solo movimento consisteva in un occasionale battere di palpebre. Non era chiaro se potesse udire o capire quello che Ellie stava dicendo. Ellie pensò a schemi di comunicazione, non ne poteva fare a meno; il pensiero sorse spontaneo: un battito per il sì, due battiti per il no.’ O collegare un encefalografo con un tubo a raggio catodico che sua madre potesse vedere e insegnarle a modulare le sue onde beta. Ma si trattava di sua madre, non di Alpha Lyrae, e qui si richiedeva sentimento non algoritmi decodificatori. Tenne la mano della madre e le parlò per ore. Divagò su sua madre e suo padre, sulla propria infanzia. Rievocò i suoi primi passi tra le lenzuola di bucato, le sue impressioni quando veniva innalzata al cielo. Parlò di John Staughton. Si scusò per molte cose. Pianse un poco. I capelli di sua madre erano arruffati e lei, trovata una spazzola, glieli ravviò. Esaminò il volto rugoso e riconobbe il proprio. Gli occhi di sua madre, incavati e umidi, guardavano fissi, con un occasionale lampo di vita che sembrava indirizzato a un oggetto a grande distanza. «So da dove vengo,» le disse Ellie sommessamente. Quasi impercettibilmente, sua madre scosse il capo di qua e di là, come se stesse rimpiangendo tutti quegli anni in cui lei e sua figlia si erano allontanate. Ellie strinse delicatamente la mano della madre e credette che lei rispondesse facendo altrettanto. Le dissero che la vita di sua madre non era in pericolo. Se ci fosse stato qualche mutamento nelle sue condizioni, l’avrebbero chiamata immediatamente nel suo ufficio del Wyoming. Entro alcuni giorni, avrebbero potuto trasferirla dall’ospedale alla casa di cura dove l’assicuravano che le attrezzature mediche erano adeguate. Staughton sembrava padrone di sé, ma con una profondità di I sentimenti per sua madre che lei non aveva mai supposto. r Avrebbe telefonato spesso, gli disse. Nell’austera hall di marmo troneggiava, un po’ fuori posto forse, una vera statua, non un ologramma, di una donna nuda in stile prassitelico. Presero un ascensore Otis-Hitachi in cui la seconda lingua era l’inglese invece del braille, e si ritrovò in una specie di stanzone in cui c’era gente che si accalcava attorno a de-Igli elaboratori della parola. Un termine veniva battuto in Hiragana, l’alfabeto fonetico giapponese di cinquantun lettere, e sullo I. schermo appariva il corrispondente ideogramma cinese in Kanji. i C’erano centinaia di migliaia di tali ideogrammi, o caratteri, archiviati nelle memorie dei computer, benché in genere ne bastassero soltanto tre o quattromila per leggere un giornale. Poiché molti caratteri di significato totalmente diverso venivano espressi con lo stesso termine parlato, venivano stampate tutte le possibili traduzioni in Kanji, in ordine di probabilità. L’elaboratore verbale possedeva una procedura parziale contestuale in cui i caratteri candidati venivano anche ordinati secondo la stima fatta dal computer del preteso significato. Raramente si sbagliava. In un linguaggio che fino a poco tempo prima non aveva mai avuto una macchina per scrivere, l’elaboratore verbale stava attuando una rivoluzione delle comunicazioni che non piaceva troppo ai tradizionalisti. Nella sala delle conferenze, si accomodarono su poltrone basse — un’evidente concessione ai gusti occidentali — attorno a un basso tavolo laccato, e venne servito il tè. Nel campo visivo di Ellie, al di là della finestra, c’era la città di Tokyo. Stava passando molto tempo davanti a finestre, pensò. Il giornale era 1’ «Asahi Shimbun» — il Corriere del Sol Levante — e osservò con interesse che uno dei reporter politici era una donna, caso raro secondo gli standard dei media americani e sovietici. Il Giappone era impegnato in una rivalutazione nazionale del ruolo delle donne. I tradizionali privilegi maschili stavano arrendendosi lentamente in quella che sembrava una guerriglia sottaciuta. Solo il giorno prima, il presidente di una ditta chiamata Nanoelectronics le aveva raccontato con disappunto che non c’era una «ragazza» in tutta Tokyo che sapesse ancora come si annodava un obi. Come nel caso delle cravatte a farfalla con l’elastico, un surrogato facile da indossare aveva conquistato il mercato. Le donne giapponesi avevano di meglio da fare che buttar via mezz’ora al giorno per avvolgersi in metri di stoffa. La giornalista indossava un austero abito da donna d’affari, lungo fino al polpaccio. Per ragioni di sicurezza, erano vietate le visite di giornalisti nella zona di Hokkaido dove si stava ultimando la Macchina. Invece, quando membri dell’equipaggio o funzionari del progetto si recavano nell’isola principale di Honshu, si sottoponevano regolarmente a una serie di interviste di giornalisti giapponesi e stranieri. Come sempre, le domande erano banali. I reporter di tutto il mondo mostravano quasi lo stesso atteggiamento nei riguardi della Macchina, a parte alcune eccezioni dovute a locali peculiarità. Era contenta che, dopo la «delusione» americana e russa, una Macchina venisse costruita in Giappone? Si sentiva sperduta nell’isola settentrionale di Hokkaido? Era preoccupata perché i componenti della Macchina usati a Hokkaido avevano subito dei collaudi che andavano oltre le rigide disposizioni del Messaggio? Prima del 1945, quel distretto della città era appartenuto alla Marina imperiale, e infatti, nelle immediate vicinanze Ellie poteva vedere il tetto dell’osservatorio navale, con le sue due cupole argentate in cui alloggiavano telescopi ancora usati per funzioni cronometriche e calendaristiche, scintillanti al sole di mezzogiorno. Perché la Macchina includeva un dodecaedro e i tre gusci sferici chiamati benzel? Sì, i reporters capivano che lei non lo sapeva. Ma che ne pensava? Ellie spiegò che era assurdo avere un’opinione al riguardo in mancanza di evidenza. Quelli insistevano e lei si mise a difendere il diritto all’ambiguità. Se esisteva un pericolo reale, avrebbero mandato dei robot al posto delle persone, come un esperto giapponese in intelligenza artificiale aveva raccomandato? Avrebbe portato con sé effetti personali? Foto di famiglia? Microcomputer? Un coltello dell’esercito svizzero: Ellie notò due figure che emergevano da una botola sul tetto del vicino osservatorio. I loro volti erano coperti da maschere. Portavano l’armatura grigio-blu imbottita del Giappone medievale. Brandendo bastoni di legno più alti di loro, si fecero un inchino reciproco, rimasero immobili per un attimo, e poi duellarono per la mezz’ora seguente. Le sue risposte ai giornalisti si fecero un po’ formali; era ipnotizzata dallo spettacolo che aveva di fronte. Nessun altro sembrava accorgersene. I bastoni dovevano essere pesanti, perché il combattimento rituale era lento, come se i guerrieri si trovassero sul fondo dell’oceano. Conosceva il dottor Lunacarskij e la signora Sukhavati da molto prima dell’arrivo del Messaggio? Che pensava del dottor Eda? E del signor Xi? Ne apprezzava le qualità? Sarebbero andati d’accordo loro cinque? Certo si meravigliava di far parte di un gruppo così selezionato. Quali erano le sue impressioni sulla qualità dei componenti giapponesi? Che poteva dire dell’incontro che i Cinque avevano avuto con l’imperatore Akihito? Le loro discussioni con i capi scintoisti e buddisti rientravano in uno sforzo generale compiuto dal Progetto Macchina per sentire il parere dei personaggi più rappresentativi nel campo religioso prima che la Macchina venisse attivata, o costituivano solo un atto di cortesia nei confronti del Giappone, il paese che li ospitava? Riteneva che il congegno potesse essere un cavallo di Troia o una Macchina del Giudizio? Nelle sue risposte Ellie cercò di essere cortese, concisa e conciliante. L’ufficiale del Progetto Macchina addetto alle pubbliche relazioni, che l’aveva accompagnata, era visibilmente compiaciuto. Di colpo, l’intervista finì. Auguravano a lei e ai suoi colleghi!’, un successo completo, disse l’organizzatore. Aspettavano con impazienza di poterla intervistare al suo ritorno. Speravano che sarebbe venuta spesso in Giappone dopo l’impresa. I suoi ospiti stavano sorridendo e inchinandosi. I guerrieri infagottati erano rientrati nella botola. Le sue guardie del corpo la stavano attendendo con sguardo vigile fuori della sala delle conferenze, la cui porta era stata aperta in quel momento. Mentre usciva, Ellie chiese alla giornalista di quelle apparizioni da Giappone medievale. «Oh sì,» rispose lei. «Sono astronomi della guardia costiera. Si dedicano al kendo quotidianamente all’ora di pranzo. Sono così puntuali che ci può regolare l’orologio.» Xi era nato durante la Lunga Marcia, e da ragazzo aveva combattuto il Kuomintang durante la rivoluzione. Era stato ufficiale dei servizi segreti in Corea, raggiungendo infine una posizione di autorità nel campo della tecnica strategica cinese. Ma durante la rivoluzione culturale era stato pubblicamente degradato e condannato al confino, sebbene in seguito fosse stato riabilitato con un certo rumore. Uno dei delitti di Xi agli occhi della rivoluzione culturale era stato quello di ammirare qualcuna delle antiche virtù di Confucio, e specialmente un passo del «Grande insegnamento», che per secoli ogni Cinese anche di cultura modestissima aveva conosciuto a memoria. Era da questo passo, aveva detto Sun Yatsen, che aveva tratto ispirazione il suo movimento rivoluzionario nazionalista all’inizio del ventesimo secolo: Gli antichi che desideravano illustrare virtù preclare nel Regno, per prima cosa davano un buon ordinamento alle loro nazioni. Desiderando dare un buon ordinamento alle loro nazioni, per prima cosa mettevano in ordine le loro famiglie. Desiderando mettere in ordine le loro famiglie, per prima cosa coltivavano le loro persone. Desiderando coltivare le loro persone, per prima cosa correggevano i loro cuori. Desiderando correggere i loro cuori, per prima cosa cercavano di essere sinceri nei loro pensieri. Desiderando essere sinceri nei loro pensieri, per prima cosa estendevano al massimo la loro conoscenza. Tale estensione della conoscenza stava nell’indagine delle cose. Perciò, credeva Xi, la ricerca della conoscenza era fondamentale per il benessere della Cina. Ma le Guardie Rosse la pensavano diversamente. Durante la rivoluzione culturale, Xi era stato relegato in una mal ridotta fattoria collettiva nella provincia di Ningxia, vicino alla Grande Muraglia, una regione con una ricca tradizione musulmana, dove, mentre stava arando un terreno, aveva scoperto un elmo di bronzo della dinastia Han, dalla complessa decorazione. Una volta reintegrato nella leadership, Xi rivolse la sua attenzione dalle armi strategiche all’archeologia. La rivoluzione culturale aveva tentato di troncare un’ininterrotta tradizione culturale cinese vecchia di cinquemila anni. La reazione di Xi fu di contribuire a riallacciare i legami con il passato della nazione. Si dedicò con passione crescente allo scavo della necropoli sotterranea di Xian. Era lì che era stata fatta la grande scoperta dell’esercito di terracotta dell’imperatore che aveva dato nome alla Cina. Il suo nome ufficiale era Qin Shi Huangdi, ma attraverso i capricci della traslitterazione si era trasformato in quello notissimo in Occidente di Ch’in. Nel terzo secolo avanti Cristo, Qin unificò il paese, costruì la Grande Muraglia, e decretò magnanimamente che alla sua morte quei modelli in terracotta a grandezza naturale sostituissero i membri del suo seguito — soldati, servi e nobili — che secondo una tradizione antica avrebbero dovuto esser sepolti vivi con il suo cadavere. L’esercito di terracotta era composto di 7500 soldati, quasi una divisione. Ognuno di essi aveva dei tratti somatici ben differenziati. E i tipi fisici erano quelli di tutte le province del paese, un tempo divise e ostili, che l’imperatore era riuscito a trasformare in nazione. Una vicina tomba racchiudeva il corpo quasi perfettamente conservato della marchesa di Tai, una dama di corte dell’imperatore. La tecnica per conservare i cadaveri — si poteva vedere chiaramente la severa espressione sul volto della donna, perfezionata forse da decenni di lavate di capo ai servi — era di gran lunga superiore a quella dell’antico Egitto. Qin aveva semplificato la scrittura, codificato le leggi, costruito strade, completato la Grande Muraglia, e unificato il paese. Aveva anche fatto confiscare le armi. Se da un lato era accusato di massacri di letterati che avevano criticato la sua politica, e di roghi di libri perché un certo tipo di conoscenza sarebbe stata dannosa, dall’altro gli si doveva dar credito di aver eliminato la corruzione endemica e di aver introdotto la pace e l’ordine. A Xi ciò ricordava la rivoluzione culturale. Immaginava di conciliare queste tendenze conflittuali all’interno di una sola persona. L’arroganza di Qin aveva raggiunto proporzioni sconcertanti; per punire una montagna che lo aveva offeso, ordinò che venisse spogliata della vegetazione e dipinta di rosso, il colore portato dai criminali condannati. Qin era stato grande, ma anche pazzo. Si può unificare una pletora di genti così diverse e litigiose senza essere un po’ pazzi? Si sarebbe pazzi solo a tentare, aveva detto una volta Xi a Ellie ridacchiando. Conquistato sempre più dal fascino di quel luogo, Xi aveva organizzato imponenti campagne di scavo a Xian. A poco a poco si convinse che anche l’imperatore stesso giacesse in attesa, perfettamente conservato, in qualche grande tomba accanto all’armata di terracotta dissotterrata. Nei pressi, secondo antiche cronache, era anche sepolto sotto un grande tumulo un plastico minuzioso della nazione cinese del 210 avanti Cristo, con ogni tempio e pagoda rappresentati nei minimi particolari. I fiumi sarebbero stati fatti di mercurio, solcati dalla chiatta in miniatura dell’imperatore in navigazione eterna nel suo dominio sotterraneo. Quando si scoprì che il terreno a Xian era inquinato da mercurio, l’eccitazione di Xi crebbe. Xi aveva portato alla luce un’iscrizione dell’epoca che descriveva una grande cupola che l’imperatore aveva commissionato per coprire il suo reame in miniatura, chiamato, come quello vero, il Celeste Impero. Poiché il cinese scritto non era molto cambiato in 2200 anni, egli fu in grado di leggere direttamente il documento, senza l’intervento di un esperto linguista. Un cronista dell’epoca di Qin parlava direttamente a Xi. Per molte notti, Xi si mise a dormire cercando di visualizzare la grande Via Lattea che attraversava la volta del cielo nella tomba a cupola del grande imperatore, e la notte risplendente di comete che erano apparse al momento della sua morte per onorarne la memoria. La ricerca della tomba di Qin e del suo modello dell’universo aveva tenuto occupato Xi durante l’ultimo decennio. Non l’aveva ancora trovata, ma quel suo sogno aveva acceso la fantasia dei Cinesi. Si diceva di lui: «C’è un bilione di persone in Cina, ma c’è soltanto uno Xi.» In una nazione che andava lentamente aprendosi all’individualità, egli esercitava una benefica influenza. Qin era stato chiaramente ossessionato dall’immortalità. L’uomo che aveva dato il suo nome alla più popolosa nazione della Terra, l’uomo che aveva fatto costruire la più imponente struttura del tempo, temeva evidentemente di essere dimenticato. Perciò volle che venissero innalzate strutture più monumentali; fece conservare o riprodurre per i secoli a venire i corpi e i volti dei suoi cortigiani; fece costruire la sua tomba ancora inviolata e il modello del mondo; e inviò ripetute spedizioni nel Mar Cinese Orientale a cercare l’elisir di lunga vita. Si lamentava amaramente delle spese quando organizzava ogni nuovo viaggio. Una di tali missioni vide impegnate moltissime giunche oceaniche e un equipaggio di tremila persone, giovani di ambo i sessi che non ritornarono mai, travolti da un fato misterioso. L’acqua dell’immortalità era introvabile. Esattamente cinquant’anni dopo, la risicoltura e la siderurgia apparvero all’improvviso in Giappone: sviluppi che alterarono profondamente l’economia giapponese e crearono una classe di aristocratici guerrieri. Xi dimostrò che il nome giapponese per Giappone rifletteva chiaramente l’origine cinese della cultura giapponese: il paese del Sol Levante. E dove bisognava stare per veder sorgere il Sole sul Giappone? Perciò il nome del quotidiano di cui Ellie aveva da poco visitato la sede era, a parere di Xi, un ricordo della vita e dei tempi dell’imperatore Qin. Ellie pensò che paragonato a Qin, Alessandro il Grande ci faceva la figura di uno scolaro prepotente. Beh, quasi. Se Qin era stato ossessionato dall’immortalità, Xi era ossessionato da Qin. Ellie gli raccontò della visita fatta a Sol Hadden in orbita terrestre e furono d’accordo che se l’imperatore Qin fosse vissuto alla fine del ventesimo secolo, si sarebbe trovato in orbita terrestre. Ellie presentò Xi ad Hadden mediante il videotelefono e lasciò che parlassero da soli. L’eccellente inglese di Xi si era affinato durante le trattative, in cui aveva avuto un ruolo importante, per il trasferimento della colonia britannica di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese. Stavano ancora parlando, quando il «Matusalemme» tramontò e furono obbligati a servirsi allora della rete di satelliti per le telecomunicazioni in orbita geosincronica se volevano continuare la loro conversazione. Dovevano essersi trovati d’accordo su molte cose, visto che Hadden poco tempo dopo pretese che l’attivazione della Macchina venisse sincronizzata con il passaggio del «Matusalemme» sul Giappone. Voleva che Hokkaido si trovasse nel fuoco del suo telescopio una volta arrivato il grande momento. «I buddisti credono in Dio oppure no?» chiese Ellie mentre stavano per recarsi a cena dal Venerabile. «Sembra che il loro Dio sia così grande che non debba neppure esistere,» replicò seccamente Vaygay. Mentre sfrecciavano attraverso la campagna, parlarono di Ut-sumi, il venerabile capo del più famoso monastero zen del Giappone. Alcuni anni prima, nel corso delle cerimonie per il cinquantenario della distruzione di Hiroshima, Utsumi aveva pronunciato un discorso che aveva destato l’universale interesse. Era ben inserito nella vita politica giapponese e faceva in qualche modo da consigliere spirituale per il partito in carica, ma trascorreva la maggior parte del suo tempo in attività monastiche e pie. «Anche suo padre era capo di un monastero buddista,» ricordò Sukhavati. Ellie aggrottò le sopracciglia. «Non meravigliarti tanto. Il matrimonio era loro concesso, come al clero ortodosso in Russia. Non è vero, Vaygay?» «Prima della mia epoca,» disse lui, un po’ distrattamente. Il ristorante si trovava in un boschetto di bambù e si chiamava «Ungetsu»: la Luna Annuvolata; e guarda caso c’era davvero una luna velata da nubi nel cielo serale. I loro ospiti giapponesi avevano fatto in modo che non ci fossero altri clienti. Ellie e i suoi compagni si tolsero le scarpe ed entrarono in una piccola sala da pranzo da cui si vedevano fusti ondeggianti di bambù. Il cranio del Venerabile era rasato, il suo abbigliamento era costituito da una tunica nera e argento. Li salutò in un perfetto inglese colloquiale e il suo cinese come le riferì Xi più tardi, risultò altrettanto passabile. L’ambiente era riposante, la conversazione vivace. Ogni portata era una piccola opera d’arte, un gioiello commestibile. Ellie capì come la nouvelle cuisine traesse le sue origini dalla tradizione gastronomica giapponese. Se ci fosse stata l’usanza di mangiare a occhi bendati, lei si sarebbe sentita appagata. Se, invece, quelle squisitezze fossero state messe in tavola solo per essere ammirate e non per essere mangiate, si sarebbe sentita appagata ugualmente. Sia la vista che il gusto in quella cena procuravano un piacere celestiale. Ellie era seduta di fronte al Venerabile e accanto a Lunacarskij. Altri chiedevano ragguagli sulla natura — o almeno sul regno di appartenenza — di questo o quel bocconcino. Tra il sushi e le drupe del ginkgo, la conversazione si portò, in un certo qual modo, sulla missione. «Ma perché comunichiamo?» chiese il Venerabile. «Per scambiare informazioni,» rispose Lunacarskij, che apparentemente dedicava tutta la sua attenzione ai ricalcitranti bastoncini. «Ma perché desideriamo scambiare informazioni?» «Perché ci nutriamo di informazioni. Le informazioni sono necessarie alla nostra sopravvivenza. Senza informazioni moriamo.» Lunacarskij era alle prese con una drupa di ginkgo che scivolava via dai suoi bastoncini ogni volta che tentava di portarla alla bocca. Abbassò il capo per incontrare i bastoncini a mezza via. «Io credo,» proseguì il Venerabile, «che si comunichi per amore o per compassione.» Afferrò con le dita una delle sue drupe di ginkgo e se la infilò direttamente in bocca. «Allora lei pensa,» chiese Ellie, «che la Macchina sia uno strumento di compassione? Lei pensa che non ci sia alcun rischio?» «Io posso comunicare con un fiore,» proseguì lui a mo’ di risposta. «Posso parlare a una pietra. Non dovreste avere nessuna difficoltà a capire gli esseri — è il termine appropriato? — di un altro mondo.» «Sono perfettamente preparato a credere che la pietra comunichi con lei,» disse Lunacarskij assaporando la sua drupa di ginkgo. Aveva seguito l’esempio del Venerabile. «Ma mi domando se lei comunichi davvero con la pietra. Come potrebbe convincerci di essere in grado di comunicare con una pietra? Il mondo è pieno di errori. Come fa a sapere che non si sta ingannando?» «Ah, ecco lo scetticismo scientifico.» Il Venerabile si illuminò di un sorriso che Ellie trovò assolutamente seducente; era un sorriso innocente, quasi fanciullesco. «Per comunicare con una pietra, lei deve assumere un atteggiamento molto meno… preoccupato. Rifletta meno e parli meno! Quando affermo di comunicare con una pietra, non mi riferisco a parole. I cristiani dicono: ‘In principio era il Verbo.’ Ma io sto parlando di una comunicazione molto più antica, molto più fondamentale di questa.» «E’ solo il vangelo di san Giovanni che parla del Verbo,» commentò Ellie, pentendosi subito della sua pedanteria. «I precedenti vangeli sinottici non dicono nulla al riguardo. Si tratta in realtà di un’interpolazione dovuta alla filosofia greca. A quale tipo di comunicazione preverbale allude?» «La sua domanda è fatta di parole. Lei mi chiede di usare delle parole per descrivere ciò che non ha nulla a che vedere con le parole. Vediamo. C’è una storia giapponese intitolata ‘Il sogno delle formiche’. Si svolge ovviamente nel regno delle formiche. E’ una storia lunga e non gliela racconterò adesso. Ma il succo della storia è questo: per capire il linguaggio delle formiche, bisogna diventare una formica.» «Il linguaggio delle formiche è in realtà un linguaggio chimico,» disse Lunacarskij, lanciando uno sguardo penetrante al monaco. «Esse depositano tracce molecolari specifiche per indicare il percorso che hanno seguito per trovare il cibo. Per capirne il linguaggio mi serve un gascromatografo o uno spettrometro di massa. Non c’è bisogno che diventi una formica.» «Probabilmente, è il solo modo che conosce per diventare una formica,» replicò il Venerabile con lo sguardo nel vuoto. «Mi dica, perché gli scienziati studiano le tracce lasciate dalle formiche?» «Beh,» intervenne Ellie, «presumo che un entomologo direbbe che lo si fa per capire le formiche e la loro società. Gli scienziati godono nel capire.» «E’ solo un altro modo per dire che amano le formiche.» Ellie represse un piccolo brivido. «Sì, ma quelli che finanziano gli entomologi dicono qualco-s’altro. Dicono che è per controllare il comportamento delle formiche, per costringerle ad abbandonare una casa che hanno infestato, o per capire la biologia del terreno per l’agricoltura. Potrebbe costituire un’alternativa ai pesticidi. Lei direbbe forse che c’è un certo amore per le formiche in ciò,» disse Ellie in tono riflessivo. «Ma è anche nel nostro personale interesse,» disse Lunacarskij. «I pesticidi sono velenosi anche per noi.» «Ma perché parlate di pesticidi nel mezzo di una cena così squisita?» sbottò Sukhavati dall’altra parte della tavola. «Faremo il sogno delle formiche un’altra volta,» disse piano il Venerabile a Ellie, mostrando di nuovo quel suo sorriso perfetto e imperturbato. Rimessisi le scarpe con l’aiuto di corni lunghi un metro, si diressero alle loro automobili, mentre le cameriere e la proprietaria sorridevano e si inchinavano cerimoniosamente. Ellie e Xi osservarono il Venerabile che prendeva posto in una limousine con alcuni dei loro ospiti giapponesi. «Gli ho chiesto, visto che poteva parlare con una pietra, se era in grado di comunicare con i morti,» le raccontò Xi. «E che cosa ha detto?» «Ha detto che con i morti era facile. Le sue difficoltà erano con i vivi. 18 SUPERUNIFICAZIONE «Un mare in tempesta! Stesa sopra Sado la Via Lattea.»      MATSUO BASHO (1644-94), «Haiku» Forse avevano scelto Hokkaido per il suo carattere di eccezionaiità. Il clima richiesto dalle tecniche costruttive era al di fuori dei consueti standard giapponesi, e l’isola era anche la patria degli Ainu, gli irsuti aborigeni ancora disprezzati da molti Giapponesi. Gli inverni erano rigidi come quelli del Minnesota o del Wyoming. Hokkaido presentava certe difficoltà logistiche, ma era fuori mano in caso di catastrofe, essendo separata tisicamente dalle altre isole giapponesi. Tuttavia non era affatto isolata ora che era stato portato a termine un tunnel di cinquantun chilometri che la collegava con Honshu; si trattava del più lungo tunnel sottomarino del mondo. Hokkaido era sembrata abbastanza sicura per il collaudo dei componenti individuali della Macchina. Ma erano state manifestate alcune perplessità e preoccupazioni riguardo al vero e proprio assemblaggio della Macchina a Hokkaido, che era, come testimoniavano eloquentemente le montagne che circondavano la base, una regione frutto di un recente vulcanismo. Una montagna stava innalzandosi al ritmo di un metro al giorno. Persino i russi — l’isola di Sakhalin distava soltanto quarantatré chilometri, al di là dello stretto di La Pérouse — avevano espresso qualche apprensione a tale riguardo. Ma copeco o rublo faceva poca differenza. Per quel che ne sapevano, anche una Macchina costruita sull’emisfero invisibile della Luna avrebbe potuto far saltare per aria la Terra, una volta attivata. La decisione di costruire la Macchina era il fatto basilare nel valutare i pericoli; il luogo della realizzazione era di secondaria importanza. Agli inizi di luglio, la Macchina stava ancora una volta prendendo forma. In America era ancora ostacolata da polemiche politiche e settarie; e c’erano problemi tecnici apparentemente seri con la Macchina russa. Ma lì, in una base molto più modesta di quella del Wyoming, le sbarre erano state sistemate e il dodecaedro completato, benché non fosse stato fatto nessun annuncio ufficiale. Gli antichi Pitagorici, che avevano scoperto per primi il dodecaedro, ne avevano dichiarata segreta l’esistenza e avevano fissato pene severe per chi ne avesse parlato. Perciò forse era giusto che quel dodecaedro grande come una casa, ben lontano nel tempo e nello spazio da quello della scuola pitagorica, fosse noto solo ad alcuni. Il direttore giapponese del progetto aveva decretato qualche giorno di riposo per tutti. La città più vicina di una certa grandezza era Obihiro, una graziosa località alla confluenza dei numi Yubetsu e Tokachi. Alcuni andarono a sciare sul monte Asahi ancora innevato; altri a sbarrare sorgenti termali con una diga improvvisata di rocce, riscaldandosi con il decadimento di elementi radioattivi originatisi nell’esplosione di qualche supernova bilioni di anni prima. Alcuni membri del personale si recarono alle corse di Bamba, in cui possenti cavalli da tiro trascinavano pesanti slitte zavorrate su strisce parallele di terreno lavorato. Ma per festeggiare in maniera degna, i Cinque volarono in elicottero a Sapporo, la più grande città di Hokkaido, situata a meno di duecento chilometri di distanza. Ebbero la fortuna di arrivare in tempo per il Festival Tana-bata. Il rischio per la sicurezza veniva considerato modesto, perché era la Macchina più che i membri dell’equipaggio a essere essenziale per il successo del progetto. I Cinque non si erano sottoposti a nessun allenamento speciale, a parte un accurato studio del Messaggio, della Macchina e degli strumenti miniaturizzati che si sarebbero portati dietro. In un mondo razionale, non ci sarebbe stata alcuna difficoltà a rimpiazzarli, pensò Ellie, anche se gli impedimenti politici nel selezionare cinque persone gradite a tutti i membri dell’Associazione Mondiale per la Macchina erano stati notevoli. Xi e Vaygay avevano «una questione in sospeso», dissero, che poteva essere risolta solo con abbondanti libagioni di saké. Così Ellie, Devi Sukhavati e Abonneda Eda seguirono i loro ospiti giapponesi che li guidarono lungo una delle strade laterali della Passeggiata Obori, dove c’erano elaborate esposizioni di banderuole e di lanterne di carta, di quadretti di foglie, di tartarughe e di orchi, e di cartelloni interessanti su cui erano rappresentati un giovane e una ragazza in costumi medievali. Tra due edifici era disteso un grande pezzo di tela per vele su cui era stato dipinto un pavone rampante. Ellie guardò Eda nella sua tunica svolazzante di lino ricamato e con l’alto copricapo rigido e Sukhavati che indossava un altro magnifico sari di seta, e fu contenta di trovarsi in loro compagnia. La Macchina giapponese fino a quel momento aveva superato tutti i test prescritti e ci si era accordati su un equipaggio che era non soltanto rappresentativo — anche se in modo imperfetto — della popolazione del pianeta, ma che includeva individui genuini, e non stereotipati, di cinque paesi. Ognuno di loro era, in un certo senso, un ribelle. Eda, per esempio: il grande fisico, lo scopritore della cosiddetta superunificazione, un’elegante teoria che includeva, come casi speciali, fenomeni fisici che spaziavano dalla gravitazione ai quark. Si trattava di un risultato pari a quelli di Isaac Newton o di Albert Einstein e Eda veniva paragonato a entrambi. Era nato in Nigeria da genitori di fede musulmana, fatto di per sé non inconsueto, ma di una setta islamica non ortodossa chiamata Ah-madiyah, che comprendeva i Sufi. Il sufismo, aveva spiegato dopo la serata con il Venerabile Utsumi, rappresentava per l’Isiam quello che rappresentava lo Zen per il buddismo. L’Ahma-diyah proclamava «una jihad della penna, non della spada». Nonostante il suo contegno tranquillo, quasi umile, Eda era un fiero oppositore del più convenzionale concetto musulmano di jihad, di guerra santa, ed era favorevole invece al più libero scambio di idee. Per questa ragione, costituiva un serio motivo di imbarazzo per gran parte dell’Islam conservatore, e qualche nazione islamica si era opposta alla sua partecipazione all’impresa. E non erano state le sole. Un negro vincitore di un premio Nobel — definito talvolta la persona più intelligente della Terra — era troppo per quelli che avevano mascherato il loro razzismo come una concessione alle nuove cortesie sociali. Quando Eda aveva fatto visita in prigione a Tyrone Free quattro anni prima, c’era stato un notevole aumento d’orgoglio fra i neri d’America e un nuovo modello da imitare per i giovani. Eda tirava fuori il peggio dai razzisti e il meglio da chiunque altro. «Il tempo necessario per dedicarsi alla fisica è un lusso,» disse a Ellie. «Ci sono molte persone che potrebbero fare le stesse cose che faccio io se avessero la stessa opportunità. Ma se si devono battere le strade alla ricerca di cibo, non resterà abbastanza tempo per la fisica. E’ mio dovere migliorare le condizioni dei giovani scienziati nel mio paese.» A poco a poco in Nigeria venne considerato come un eroe nazionale, si mise a parlare con sempre maggiore franchezza di corruzione, di un ingiusto significato del termine diritto, dell’importanza della onestà nella scienza e in qualsiasi altro campo, delle notevoli prospettive di grandezza per la nazione nigeriana, che aveva, disse, la stessa popolazione degli Stati Uniti degli anni Venti, ricchezza di risorse e una forza costituita dalle sue molte culture. Se la Nigeria fosse riuscita a superare i suoi problemi, sosteneva Eda, sarebbe stata un faro per il resto del mondo. Mentre cercava tranquillità e isolamento in tutte le altre cose, su questi punti faceva sentire prepotentemente la sua voce. Molti nigeriani — musulmani, cristiani e animisti, i giovani, ma non solo essi — presero sul serio la sua visione. Tra le molte caratteristiche di Eda, la più straordinaria era forse la modestia. Raramente esprimeva opinioni. Le sue risposte alle domande più dirette erano laconiche. Soltanto nei suoi scritti — o nei suoi discorsi una volta che si era imparato a conoscerlo a fondo — si scorgeva la sua profondità. Tra tutte le ipotesi sul Messaggio e sulla Macchina e sulle conseguenze della sua attivazione, Eda aveva espresso un solo commento: nel Mozambico, si dice che le scimmie non parlino perché sanno che se si lasciano scappare anche una sola parola verrà un uomo che le metterà al lavoro. Con un equipaggio così loquace era strano avere qualcuno taciturno come Eda. Come molti altri, Ellie prestava una particolare attenzione persino alle sue più casuali espressioni. Egli era solito descrivere come un coacervo di «errori pazzeschi» la sua prima versione, solo in parte riuscita, della superunificazione. L’uomo era sulla trentina e decisamente affascinante, come si erano confidate in privato Ellie e Devi. Era anche sposato con una sola donna, che in quel momento si trovava a Lagos con i figli. Un chiosco di canne di bambù allestito per tali occasioni, era stato adornato di festoni, di migliaia di strisce di carta colorata che quasi 10 sommergevano. Si vedevano giovanotti e ragazze, soprattutto, che contribuivano a far crescere quello strano fogliame. 11 Festival Tanabata è unico in Giappone per la sua celebrazione dell’amore. I fatti della storia principale si trovavano su pannelli dai molti riquadri e venivano rappresentati su un palcoscenico improvvisato all’aperto. Due stelle erano innamorate, ma separate dalla Via Lattea. Solo una volta all’anno, il settimo giorno del settimo mese del calendario lunare, gli amanti riuscivano a incontrarsi: purché non piovesse. Ellie guardò il blu cristallino di quel cielo alpino e augurò agli amanti tanta fortuna. La stella giovanotto, proseguiva la leggenda, era una sorta di cowboy giapponese ed era rappresentata dalla nana A7 Altair. La giovane donna era una tessitrice ed era rappresentata da Vega. A Ellie sembrò strano che Vega dovesse essere al centro di un festival giapponese alcuni mesi prima dell’attivazione della Macchina. Ma se si esaminano varie culture, non sarà difficile trovare interessanti leggende a proposito di ogni stella brillante del cielo. La leggenda era di origine cinese ed Ellie ricordava di averne sentito parlare anni prima da Xi, durante la prima seduta dell’Associazione Mondiale per il Messaggio a Parigi. Nella maggior parte delle grandi città, il Festival Tanabata stava morendo. I matrimoni organizzati non erano più una consuetudine e il tormento degli amanti separati non faceva più vibrare i cuori come un tempo. Ma in alcune località — Sapporo, Sendai, e qualche altra — il Festival diventava ogni anno più popolare. A Sapporo, esso aveva una speciale risonanza per il disprezzo ancora diffuso nei confronti dei matrimoni tra giapponesi e ainu. C’era sull’isola un’agenzia a conduzione familiare di investigatori che, dietro adeguato compenso, indagavano sui parenti e gli antenati di possibili spose per i figli di famiglie tradizionaliste. Discendere da un ainu era ancora motivo di un sommario rifiuto sociale. Devi, ricordando il suo giovane marito di molti anni prima, era particolarmente sarcastica. Eda senza dubbio aveva sentito una storia o due dello stesso genere ma non parlava. Il Festival Tanabata della città di Sendai nell’isola di Honshu era adesso un pezzo forte alla televisione giapponese per chi poteva vedere raramente la vera Altair o Vega. Ellie si chiedeva se i Vegani avrebbero continuato a trasmettere alla Terra lo stesso Messaggio per sempre. In parte perché la Macchina stava per essere completata in Giappone, le veniva rivolta una considerevole attenzione nel commento televisivo del Festival Tanabata di quell’anno. Ma i Cinque, come venivano adesso talvolta chiamati, non erano stati invitati ad apparire alla televisione giapponese, e la loro presenza lì a Sapporo per il Festival era stata quasi ignorata. Comunque, Eda, Sukhavati e lei erano stati subito riconosciuti ed erano ritornati alla Passeggiata Obori accompagnati dagli applausi cortesi dei passanti. Molti anche si inchinavano. Un altoparlante, all’esterno di un negozio di dischi, diffondeva un pezzo di rock-and-roll che Ellie riconobbe. Si trattava di «Voglio rimbalzare su di te», eseguito dal gruppo negro White Noise. Nel sole del pomeriggio, c’era un vecchio cane dagli occhi cisposi che, al suo avvicinarsi, scodinzolò debolmente. I commentatori giapponesi parlavano di Machindo, la Linea della Macchina: la prospettiva, che si diffondeva sempre più, della Terra come un pianeta e di tutti gli uomini accomunati da un’uguale posta nel suo futuro. Qualcosa del genere era stato proclamato in alcune religioni, certo non in tutte, i cui praticanti comprensibilmente si risentirono per l’attribuzione di quella visione a una Macchina aliena. Se l’accettazione di una nuova visione della nostra posizione nell’universo rappresenta una conversione religiosa, riflette Ellie, allora una rivoluzione teologica stava investendo la Terra. Persino i chiliasti americani ed europei erano stati influenzati dal Machindo. Ma se la Macchina non avesse funzionato e il Messaggio fosse sparito, quanto sarebbe durata quella visione? Anche se avessimo commesso qualche errore di interpretazione o di costruzione, pensò Ellie, anche se non apprendessimo mai qualcosa di più sui Vegani, il Messaggio stava a dimostrare, al di là di ogni ombra di dubbio, che c’erano altri esseri nell’universo e che erano più avanti di noi. Ciò dovrebbe contribuire a mantenere il pianeta unito per un po’, pensò. Chiese a Eda se avesse mai avuto un’esperienza religiosa sconvolgente. «Sì,» disse lui. «Quando?» Talvolta lo si doveva incoraggiare a parlare. «Quando ho imparato per la prima volta Euclide. Anche quando ho capito per la prima volta la gravitazione di Newton. E le equazioni di Maxwell e la relatività generale. E durante il mio lavoro sulla superunificazione. Sono stato fortunato abbastanza da aver avuto molte esperienze religiose.» «No,» replicò Ellie. «Sai ciò che intendo dire. Indipendentemente dalla scienza.» «Mai,» rispose subito Eda. «Mai indipendentemente dalla scienza.» Le parlò un poco della religione natia. Non si considerava vincolato da tutti i suoi precetti, ma ci si trovava bene. Era convinto che potesse fare un gran bene. Si trattava di una setta relativamente nuova — contemporanea della Scienza cristiana o dei Testimoni di Geova — fondata da Mirza Ghulam Ahmad nel Punjab. Devi sembrava conoscere qualcosa sull’Ahmadiyah, una setta che cercava di far proseliti e aveva riscosso un particolare successo nell’Africa occidentale. Le origini della religione erano avvolte nell’escatologia. Ahmad aveva proclamato di essere il Mandi, il personaggio che, secondo i musulmani, sarebbe apparso alla fine del mondo. Dichiarava anche di essere Cristo redivivo, un’incarnazione di Krishna, e un buruz o riapparizione di Maometto. Il chiliasmo cristiano aveva ora contaminato l’Ahmadiyah e la ricomparsa di Ahmad sarebbe stata imminente, stando ad alcuni dei suoi fedeli. L’anno 2008, in cui si sarebbe celebrato il centenario della morte di Ahmad, veniva dato per favorito per il suo ritorno finale come Mahdi. Il generale fervore messianico, anche se confuso, sembrava crescere ancor di più ed Ellie si dichiarò preoccupata per le tendenze irrazionali del genere umano. «A un festival dell’amore,» le disse Devi, «non dovresti essere così pessimista.» A Sapporo c’era stata un’abbondante nevicata e la tradizione locale di eseguire con la neve e con il ghiaccio sculture di animali e figure mitologiche era stata aggiornata. Un immenso dodecaedro era stato minuziosamente intagliato nel ghiaccio e veniva mostrato regolarmente, come una sorta di feticcio, nel corso dei telegiornali serali. Dopo giornate piuttosto calde per la stagione, si potevano vedere gli estemporanei scultori intenti a riparare i danni arrecati alle loro algide opere. Che l’attivazione della Macchina potesse, in un modo o in un altro, scatenare un’apocalisse totale era un timore espresso con sempre maggiore frequenza. Il Progetto Macchina reagiva rassicurando l’opinione pubblica, i governi, e decidendo di tener segreta la data dell’attivazione. Alcuni scienziati proposero l’atteso evento per il 17 novembre, una sera in cui era prevista la più spettacolare pioggia di meteore del secolo. Un simbolismo adatto, dissero. Ma Valerian sostenne che se la Macchina avesse dovuto lasciare la Terra in quel momento, una nube di detriti cometari avrebbe costituito un ulteriore e inutile rischio. Perciò l’attivazione venne rimandata di alcune settimane, alla fine dell’ultimo mese del millenovecento e qualcosa. Se tale data non era proprio la svolta del millennio, ma un anno prima, vennero comunque programmate solenni celebrazioni da coloro che non si scomodavano a capire le convenzioni del calendario o che desideravano festeggiare l’arrivo del terzo millennio per due volte di seguito. Sebbene gli extraterrestri non avessero potuto conoscere il peso di ogni membro dell’equipaggio, avevano specificato in dettagli minuziosi la massa di ogni componente della Macchina e la massa totale consentita. Restava ben poco per l’equipaggiamento di progettazione terrestre. Questo fatto, alcuni anni prima, era stato sfruttato come tesi a sostegno di un equipaggio di sole donne, di modo che si potesse aumentare l’equipaggiamento in dotazione; ma il suggerimento era stato respinto come frivolo. Non c’era posto per tute spaziali. Si sperava che i Vegani tenessero presente che gli uomini avevano la tendenza a respirare ossigeno. Senza praticamente nessun equipaggiamento personale, con le loro differenze culturali e la loro ignota destinazione, i Cinque andavano chiaramente incontro a grandi rischi. La stampa mondiale ne discuteva spesso; i Cinque, invece, mai. Un assortimento notevole di macchine fotografiche, di spettrometri, di supercomputer a superconduttori, di biblioteche di microfilm veniva proposto con insistenza all’equipaggio. Cosa sensata e insensata al tempo stesso. A bordo della Macchina non c’erano cuccette, cucine o servizi igienici. Avrebbero portato solo un minimo di provviste, sistemate in parte in tasca. Devi avrebbe preso con sé una semplice cassetta di pronto soccorso. Per quanto la riguardava, pensò Ellie, aveva in programma di portarsi dietro solo uno spazzolino da denti e un cambio di biancheria intima. Se possono farmi andare su Vega in poltrona, si disse, saranno probabilmente in grado di provvedere pure al necessario. Se aveva bisogno di una macchina fotografica o di una cinepresa, disse ai funzionari del progetto, non avrebbe dovuto far altro che chiederne una ai Vegani. Era opinione diffusa, apparentemente seria, che i Cinque sarebbero partiti nudi; dato che l’abbigliamento non era stato menzionato, non avrebbe dovuto essere incluso, perché avrebbe potuto in qualche modo disturbare il funzionamento della Macchina. Ellie e Devi, come molti altri, erano divertite e sottolinearono che non c’era nessun divieto di indossare abiti, un’abitudine umana popolare che risultava evidente nella trasmissione dei giochi olimpici. I Vegani sapevano che sulla Terra ci si vestiva, protestarono Xi e Vaygay. Le uniche restrizioni riguardavano la massa totale. Si dovevano lasciare a casa anche i denti finti e gli occhi di vetro? La vinsero loro, in parte a causa della riluttanza di molte nazioni a essere associate a un progetto che culminava in maniera così indecorosa. Ma il dibattito diede origine a battute un po’ audaci tra i giornalisti, i tecnici e i Cinque. «Per quello,» disse Lunacarskij, «non specificano neppure che debbano andare degli uomini. Forse troverebbero ugualmente accettabili cinque scimpanzè.» Persino una sola fotografia bidimensionale di una macchina aliena avrebbe potuto essere di inestimabile valore, dissero a Ellie. Figurarsi poi una foto degli stessi alieni. Avrebbe fatto il favore di ripensarci e di portare un apparecchio fotografico con sé? Der Heer, che si trovava ora a Hokkaido con una grossa delegazione americana, la invitò a essere seria. La posta in gioco era troppo alta, disse, per… ma lei lo fulminò con un’occhiata tale che gli impedì di terminare la frase. Dentro di sé, Ellie sapeva bene ciò che avrebbe detto: per tenere un comportamento infantile. Stranamente, der Heer stava agendo come se fosse stato la parte offesa nella loro relazione. Raccontò tutto a Devi, che non le diede ragione come lei si aspettava. Der Heer, disse, era stato «molto dolce». Alla fine, Ellie acconsentì a portar con sé una videocamera ultraminiaturizzata. Nella nota di carico che il progetto esigeva, sotto la voce «Effetti personali», Ellie segnò: «Fronda di palma, 0,811 chilogrammi.» Fu mandato der Heer per farla ragionare. «Sai che c’è uno splendido sistema di ripresa all’infrarosso pesante solo 600 grammi che ti potresti portar dietro. Perché dovresti preferire il ramo di un albero?» «Una fronda. Si tratta di una fronda di palma. So bene che sei cresciuto a New York, ma dovresti sapere che cos’è una palma. Si trova tutto in Ivanhoe. Non l’hai letto alla scuola superiore? Al tempo delle Crociate, i pellegrini che compivano il lungo viaggio in Terra Santa riportavano indietro una fronda di palma per dimostrare di esserci davvero stati. E’ per tenermi su di morale. Non m’importa quanto possano essere progrediti. La Terra è la mia Terra Santa. Porterò loro una fronda per far vedere da dove vengo.» Der Heer scosse soltanto il capo. Ma quando Ellie espose le sue ragioni a Vaygay, egli disse: «Lo capisco benissimo.» Ellie ricordò le preoccupazioni di Vaygay e la storia che le aveva raccontato a Parigi della carrozza inviata al povero villaggio. Ma questa non era affatto la sua preoccupazione. Si rese conto che la fronda di palma serviva a un altro scopo. Lei aveva bisogno di qualcosa che le ricordasse la Terra. Temeva di esser tentata di non tornare indietro. Il giorno prima dell’attivazione della Macchina, Ellie ricevette un pacchettino che era stato consegnato a mano al suo appartamento del Wyoming e spedito oltre oceano per corriere. Non c’era l’indirizzo del mittente e, all’interno, non trovò nessun biglietto d’accompagnamento e nessuna firma. Il pacchetto conteneva un medaglione d’oro appeso a una catena. Avrebbe potuto essere usato come un pendolo. Su entrambe le facce era stata incisa un’iscrizione, in carattere minuscoli ma leggibili. Sul recto c’era scritto: Hera, superba regina dalle vesti dorate, comandava Argo, i cui sguardi dardeggiavano il mondo. Sul verso potè leggere: Questa è la risposta dei difensori di Sparta al comandante dell’esercito romano: ‘Se sei un dio, non farai del male a coloro che non ti hanno mai offeso. Se sei un uomo, fatti avanti: e troverai uomini pari a te.’ E donne. Sapeva chi glielo aveva mandato. Il giorno seguente, il giorno dell’Attivazione, si fece un sondaggio d’opinione tra i membri più autorevoli dello staff su che cosa sarebbe accaduto. I più pensavano che non sarebbe accaduto nulla, che la Macchina non avrebbe funzionato. Una minoranza era convinta che i Cinque si sarebbero trovati molto presto nel sistema di Vega, conformemente alla teoria della relatività. Altri suggerirono che la Macchina fosse un veicolo per esplorare il sistema solare, il più costoso tiro birbone della storia, un’aula, una macchina del tempo, o una cabina telefonica galattica. Uno scienziato scrisse: «Cinque orribili sostituti con scaglie verdi e denti affilati si materializzeranno lentamente sulle poltrone.» Questa era la risposta che si avvicinava di più all’idea del cavallo di Troia. Un’altra, ma solo una, diceva: «Macchina del Giudizio Universale». Ci fu una specie di cerimonia. Si pronunciarono discorsi, si servirono cibi e bevande. La gente si abbracciava. Qualcuno piangeva sommessamente. Solo pochi si mostravano apertamente scettici. Si poteva percepire che se fosse capitato davvero qualcosa durante l’Attivazione, la reazione sarebbe stata straordinaria. I; Su molti volti si leggeva un presagio di gioia. Ellie riuscì a telefonare alla casa di cura per salutare sua madre. Ma non ci fu risposta. Sua madre stava recuperando alcune I funzioni motorie del suo lato paralizzato, le disse l’infermiera. Presto sarebbe stata in grado di pronunciare qualche parola. Al termine della telefonata, Ellie si sentiva quasi serena. I tecnici giapponesi portavano delle bende attorno al capo, come voleva la tradizione quando ci si preparava a uno sforzo mentale, fisico o spirituale, e soprattutto al combattimento. Stampata sulla benda c’era una proiezione convenzionale del planisfero. Nessuna singola nazione occupava una posizione di predominio. Da parte dei vari governi non erano arrivate molte istruzioni. Nessuno era stato invitato a fare il saluto alla bandiera. I leader nazionali inviarono brevi dichiarazioni su videotape. Quella della I Presidente era particolarmente bella, pensò Ellie: «Questo non è un messaggio di istruzioni e non è un addio. E’ solo un arnvederci. Ognuno di voi fa questo viaggio per un bilione di anime. Voi rappresentate tutti i popoli del pianeta Terra. Se sarete trasportati da qualche parte, cercate di imparare ogni cosa, non solo la scienza, per il bene di noi tutti. Voi rappresentate l’intero genere umano, passato, presente e futuro. Qualunque cosa accada, il vostro posto nella storia è assicurato. Voi siete gli eroi del nostro pianeta. Parlate per tutti noi. Siate saggi e… tornate!» Alcune ore più tardi, per la prima volta, essi entrarono nella I-Macchina, in fila indiana, attraverso una piccola camera d’equilibrio. Si accesero delle luci interne nascoste, molto deboli. Persino dopo che la Macchina era stata completata e aveva superato ogni test prescritto, si temeva che i Cinque si mettessero ai loro posti, prematuramente. Qualcuno del personale del progetto si preoccupava che il solo fatto di sedersi potesse indurre la Macchina ad entrare in funzione, anche se i benzel erano immobili. Ma ecco che si trovavano all’interno e fino a quel momento non stava succedendo nulla di straordinario. Finalmente Ellie poteva abbandonarsi, con una certa precauzione a dire il vero, sulla plastica sagomata e imbottita. Lei avrebbe voluto del chintz; delle fodere di chintz sarebbero state perfette per quelle poltrone. Ma scoprì che anche lì era una questione di orgoglio nazionale. La plastica sembrava più moderna, più scientifica, più seria. Conoscendo il vizio del fumo di Vaygay, si era stabilito che non si sarebbero portate sigarette a bordo della Macchina. Lunacarskij aveva imprecato in dieci lingue. Adesso era entrato dopo gli altri, al termine della sua ultima Lucky Strike. Ansimò solo un poco mentre si sedeva accanto a lei. Non si erano trovate cinture di sicurezza nel progetto estratto dal Messaggio, perciò non ce n’era nessuna nella Macchina. Qualcuno del personale aveva sostenuto, però, che era stata una pazzia non avervi provveduto. La Macchina va da qualche parte, Ellie pensò. Era un mezzo di trasporto, un’apertura verso un altro luogo… o verso un altro tempo. Era un treno merci che sfrecciava sferragliando nella notte. Se ci eri salito, ti poteva trasportare lontano dalle soffocanti cittadine provinciali dell’infanzia, alle grandi città di cristallo. Rappresentava la scoperta e la fuga, e la fine della solitudine. Ogni rinvio logistico nella fabbricazione e ogni discussione sull’esatta interpretazione di qualche punto secondario delle istruzioni l’avevano fatta sprofondare nella disperazione. Non era la gloria che andava cercando… non in special modo, non molto… ma una sorta di liberazione. Si sentiva rapita in estasi, si vedeva come un selvaggio delle montagne a bocca aperta davanti alla porta reale di Ishtar dell’antica Babilonia; era Dorothy che vedeva per la prima volta le guglie della Città di Smeraldo a Oz, un ragazzine di un angolo povero di Brooklyn finito nel Corridor of Nations dell’Esposizione Mondiale del 1939, e attratto dal Trylon e dalla Perisphere che si vedevano in lontananza; era Pocahontas che risaliva l’estuario del Tamigi con Londra che le si distendeva davanti da orizzonte a orizzonte. Il suo cuore esultava in anticipo. Avrebbe scoperto, ne era certa, che cos’altro è possibile, che cosa può essere realizzato da altri esseri, grandi esseri — esseri che probabilmente viaggiavano tra le stelle quando gli antenati dell’uomo stavano ancora dondolando tra i rami della foresta in cui il sole penetrava solo a tratti. Drumlin, come molti altri che aveva conosciuto nel corso degli anni, l’aveva definita un’inguaribile romantica; e si chiese ancora perché mai tanti considerassero la cosa un’imbarazzante menomazione. Il suo romanticismo era stato una forza propulsiva nella sua vita e una fonte di delizie. Sostenitrice e professionista della fantasia, stava per andare a trovare il Mago. Ci fu un comunicato radio: tutto era apparentemente in ordine, per quel che si poteva accertare con la strumentazione che era stata sistemata all’esterno della Macchina. Si attendeva soprattutto l’evacuazione dello spazio tra i benzel e attorno a essi. Un sistema di straordinaria efficacia stava pompando fuori l’aria per ottenere il più alto vuoto mai raggiunto sulla Terra. Ellie controllò due volte lo stivaggio della sua videomicrocamera e diede un colpetto alla fronda di palma. Si erano accese potenti luci all’esterno del dodecaedro. Due dei gusci sferici si erano messi ora a ruotare alla velocità che il Messaggio aveva definito critica. Per quelli che guardavano fuori tutto appariva già confuso. Il terzo benzel si sarebbe messo in azione nel giro di un minuto. Una forte carica elettrica stava sviluppandosi. Una volta che tutti e tre i gusci sferici con gli assi perpendicolari tra loro fossero arrivati alla velocità richiesta, la Macchina sarebbe stata attivata. O almeno così diceva il Messaggio. Il volto di Xi mostrava una fiera determinazione, pensò Ellie; quello di Lunacarskij una calma imposta; gli occhi di Sukhavati erano spalancati; Eda rivelava soltanto un atteggiamento di tranquilla attenzione. Devi colse il suo sguardo e le sorrise. Sentì la mancanza di un figlio. Fu il suo ultimo pensiero prima che le pareti ondeggiassero e diventassero trasparenti e, così sembrò, prima che la Terra si aprisse e la inghiottisse. TERZA PARTE LA GALASSIA «Così io percorro altipiani sconfinati e so che c’è speranza per ciò che Tu hai plasmato con la polvere di essere in comunione con le cose eterne.»      Rotoli del Mar Morto 19 SINGOLARITÀ NUDA «… salire in paradiso per la via stellata dello stupore.»      RALPH WALDO EMERSON, Merlino, «Poesie» (1847) «Non è impossibile che per qualche essere infinitamente superiore l’intero universo sia come una pianura, con la distanza tra pianeta e pianeta pari a quella fra gli atomi di un granello di sabbia, e gli spazi tra sistema e sistema non più grandi degli intervalli tra un granello e quello vicino.» SAMUEL TAYLOR COLERIDGE, Omniania Stavano precipitando. I pannelli pentagonali del dodecaedro erano divenuti trasparenti. E così pure il soffitto e il pavimento. Sopra e sotto, Ellie poteva scorgere la trina di organosilicati e le sbarre di erbio che vi erano state piantate, che sembravano muoversi. Tutti e tre i benzel erano scomparsi. Il dodecaedro sprofondava sfrecciando per un lungo tunnel oscuro dal diametro appena sufficiente a consentirne il passaggio. L’accelerazione sembrava attorno a un g. Forse avrebbero fatto meglio ad aggiungere le cinture, visto che non tutti rimanevano schiacciati contro le loro poltrone come accadeva a lei. Era difficile non pensare di essersi tuffati nella crosta terrestre, diretti al nucleo di ferro fuso del pianeta. O forse stavano finendo dritti a… Cercò di immaginare quell’incredibile mezzo di trasporto come un ferryboat dello Stige. Le pareti del tunnel presentavano una struttura che faceva percepire a Ellie la loro velocità di crociera. I disegni erano screziature irregolari dai contorni sfumati, non c’era nulla che richiamasse una forma ben definita. Le pareti erano notevoli non per il loro aspetto, ma solo per la loro funzione. Anche ad alcune centinaia di chilometri sotto la superficie terrestre le rocce avrebbero dovuto essere incandescenti, ma non c’era traccia di ciò. Nessun diavoletto stava dirigendo il traffico e non si vedevano armadi con vasi di marmellata. Ogni tanto, un vertice del dodecaedro sfiorava la parete e frammenti di una materia sconosciuta se ne staccavano. Il dodecaedro sembrava intatto. In breve, si lasciarono dietro una nuvola di minuscole particelle. Ogni volta che il dodecaedro toccava la parete, Ellie sentiva un’ondulazione, come se qualcosa di morbido si fosse fatto indietro per diminuire l’impatto. La debole luce gialla era diffusa, uniforme. Talvolta, il tunnel deviava leggermente e il dodecaedro ne seguiva obbediente la curvatura. Nulla, per quel che riusciva a vedere, si dirigeva verso di loro. A velocità del genere, persino una collisione con un passero avrebbe prodotto un’esplosione devastante. O se si fosse trattato di una caduta senza fine in un pozzo senza fonda? Sentiva una continua ansia fisica alla bocca dello stomaco. Eppure non ebbe ripensamenti. Buco nero, pensò. Buco nero. Sto cadendo attraverso l’orizzonte degli eventi di un buco nero verso la terribile singolarità. O forse non si tratta di un buco nero e sono diretta verso una singolarità nuda. Ecco come la chiamano i fisici, una singolarità nuda. Vicino a una singolarità, la casualità potrebbe essere violata, gli effetti potrebbero precedere le cause, il tempo potrebbe scorrere a ritroso, difficilmente si potrebbe sopravvivere, tanto meno ricordare l’esperienza. Nel caso di un buco nero rotante, Ellie ricordava che non era solo un punto che si doveva evitare, ma una singolarità anulare o qualcosa di ancor più complesso. I buchi neri erano pericolosi. Le forze gravitazionali erano così forti che, se si fosse tanto distratti da caderci dentro, si finirebbe stirati in un filo lungo e sottile. Si sarebbe anche schiacciati lateralmente. Per fortuna non c’era segno di nulla del genere. Attraverso le grigie superfici trasparenti in cui si erano trasformati ora soffitto e pavimento, Ellie poteva vedere un’intensa attività. La matrice di organosilicato stava afflosciandosi in alcuni punti e tendendosi in altri; le sbarre di erbio che vi erano conficcate stavano girando su se stesse e inclinandosi. All’interno del dodecaedro tutto — compresa lei e i suoi compagni — sembrava a posto. Beh, forse c’era un po’ di eccitazione. Ma non si erano ancora trasformati in fili lunghi e sottili. Ellie sapeva che erano meditazioni inutili. La fisica dei buchi neri non era il suo campo. Comunque, non riusciva a capire come ciò potesse avere qualcosa a che fare con i buchi neri, che erano primordiali — formatisi durante l’origine dell’universo — o prodotti in epoca posteriore dal collasso di una stella più massiccia del Sole. La gravita allora sarebbe così forte che — a parte gli effetti quantici — persino la luce non potrebbe uscire, anche se rimarrebbe certamente il campo gravitazionale. Ecco perché si chiama buco nero. Ma non avevano collassato una stella e lei non riusciva a vedere in che modo avessero catturato un buco nero primordiale. Comunque, nessuno sapeva dove potesse nascondersi il più vicino buco nero primordiale. Avevano soltanto costruito la Macchina e fatto ruotare i benzel. Lanciò un’occhiata a Eda, che stava calcolando qualcosa su un piccolo computer. Lungo le ossa poteva percepire, oltre che con il senso dell’udito, un rumore sordo ogni volta che il dodecaedro sfregava contro la parete, e alzò la voce per farsi sentire. «Riesci a capire che sta succedendo?» «Per niente,» le urlò lui di rimando. «Posso quasi dimostrare che ciò non può succedere. Conosci le coordinate di Boyer-Lin-dquist?» «No, mi dispiace.» «Ti spiegherò più tardi.» Fu contenta che lui pensasse che ci sarebbe stato un «più tardi». Ellie si accorse della decelerazione prima di poterne avere le prove visibili, come se si fossero trovati sulla discesa delle montagne russe, fossero giunti a un tratto orizzontale e stessero in quel momento risalendo lentamente. Un attimo prima che cominciasse la fase di decelerazione, il tunnel aveva fatto una complessa sequenza di scarti e zigzag. Non c’era stato un percettibile cambio di colore o di intensità della luce in cui erano immersi. Raccolse la sua macchina, innestò il teleobiettivo e guardò davanti a sé il più lontano possibile. Poteva vedere soltanto fino allo spuntone seguente del tortuoso percorso. Ingrandita, la struttura delle pareti del tunnel appariva complicata, irregolare, e, solo per un momento, debolmente luminosa. Il dodecaedro ormai procedeva con una relativa lentezza. Non si vedeva ancora la fine della galleria. Ellie si chiese se ce l’avrebbero fatta a uscirne. Forse i progettisti avevano fatto male i loro calcoli. Forse la Macchina era stata costruita imperfettamente, solo un po’ imprecisamente; forse quel che era sembrato a Hokkaido un’imperfezione tecnologica accettabile avrebbe condotto al fallimento la loro missione lì… dove diavolo si trovassero. O, guardando la nuvola di minuscole particelle che li seguiva o talvolta li superava, Ellie pensò che forse avevano urtato contro le pareti una volta di troppo e perduto più velocità del consentito. Lo spazio tra il dodecaedro e le pareti sembrava essersi molto ridotto adesso. Forse si sarebbero trovati incastrati in quella terra impossibile e sarebbero rimasti lì a languire fino all’esaurimento dell’ossigeno. Che i Vegani, dopo essersi dati tutta quella pena, avessero dimenticato che gli uomini devono respirare? Non avevano osservato tutti quei nazisti osannanti? Vaygay ed Eda erano immersi negli arcani della fisica gravitazionale: twistors, rinormalizzazione di propagatori fantasma, vettori tempo Killing, non invarianza abeliana di gauge, rifocalizza-zione geodesica, undici trattamenti Kaluza-Klein di supergravità, e, naturalmente, la superunificazione, completamente diversa, di Eda. Bastava uno sguardo per capire che non erano vicini a una spiegazione. Ma Ellie immaginò che nel giro di poche ore i due fisici avrebbero compiuto qualche progresso. La superunificazione comprendeva virtualmente tutti i rami e gli aspetti della fisica conosciuta sulla Terra. Era difficile credere che quel… tunnel non fosse una soluzione fino ad allora non raggiunta delle equazioni di Eda. Vaygay chiese: «Qualcuno ha visto una singolarità nuda?» «Non so come si presenta,» rispose Devi «Scusami. Probabilmente non sarebbe nuda. Vi siete accorti di qualche inversione di causalità, di qualcosa di strano, di davvero pazzesco, secondo il vostro modo di pensare, di qualcosa come uova strapazzate che si ricompongono in chiare e tuorli…?» Devi guardò Vaygay stringendo le palpebre. «Va bene,» interloquì Ellie in fretta. Vaygay è un po’ eccitato, disse tra sé. «Queste sono domande belle e buone sui buchi neri. Solo che sembrano pazzesche.» «No,» ribattè Devi lentamente, «tranne che per la domanda in se stessa.» Ma poi si animò. «In realtà si è trattato di un viaggio meraviglioso.» Si trovarono tutti d’accordo. Vaygay era esultante. «Questa è una versione fortissima di censura cosmica,» stava dicendo. «Le singolarità sono invisibili persino all’interno dei buchi neri.» «Vaygay sta solo scherzando,» aggiunse Eda. «Una volta all’interno dell’orizzonte degli eventi, non c’è modo di sfuggire alla singolarità del buco nero.» Nonostante l’aria rassicurante di Ellie, Devi lanciò uno sguardo dubbioso a Vaygay e a Eda. I fisici dovevano inventare parole e frasi per concetti lontanissimi dall’esperienza quotidiana. Era loro abitudine evitare i puri neologismi ed evocare invece, anche se debolmente, qualche analogo luogo comune. L’alternativa consisteva nell’usare i nomi degli autori di scoperte ed equazioni. E loro fecero anche questo. Ma se non si fosse saputo che stavano parlando di fisica, ci si sarebbe preoccupati davvero per loro. Ellie si alzò per andare da Devi, ma nello stesso momento Xi attirò la loro attenzione con un grido. Le pareti del tunnel stavano ondeggiando, avvicinandosi al dodecaedro, spingendolo in avanti. Si stava stabilendo un bel ritmo. Ogni volta che il dodecaedro rallentava fino quasi a fermarsi, riceveva un’altra compressione dalle pareti. Ellie avvertì un leggero attacco di nausea. In alcuni tratti l’avanzata era ardua e le pareti dovevano lavorar sodo, contraendosi ed espandendosi in una sorta di movimento peristaltico. Altrove, specialmente nei rettilinei, procedevano facilmente. A una grande distanza, Ellie scorse un debole punto luminoso, che aumentava lentamente di intensità. Una radianza azzurrina cominciò a inondare l’interno del dodecaedro. I cilindri neri di erbio, adesso quasi immobili, brillavano in quella luce. Benché il viaggio sembrasse aver richiesto soltanto dieci o quindici minuti, il contrasto tra la luce tenue, ridotta, che aveva pervaso l’interno durante la maggior parte della corsa e la crescente luminosità davanti a loro era impressionante. Stavano andandole incontro velocemente, percorrendo il tunnel e poi uscendo in quello che sembrava lo spazio comune. Davanti a loro campeggiava un enorme sole azzurrino, vicino in maniera sconcertante. Ellie capì in un attimo che si trattava di Vega. Esitava a guardarla direttamente attraverso il teleobiettivo; sarebbe stato da temerari anche per il Sole, una stella più fredda e più pallida. Ma Ellie tirò fuori un pezzo di carta bianca, la si-sterno sul piano focale della lente e proiettò una chiara immagine della stella. Poteva vedere due grandi raggruppamenti di macchie solari e una traccia, un’ombra di parte del materiale dell’anello in orbita equatoriale. Posò l’apparecchio, protese la mano con la palma verso l’esterno, a coprire il disco di Vega, e fu ricompensata dalla vista di una corona brillante di vaste dimensioni che circondava l’astro; prima era rimasta invisibile, annullata com’era dalla luce abbagliante di Vega. Con la palma ancora distesa, Ellie esaminò l’anello di frammenti che girava attorno alla stella. La natura del sistema di Vega era stata dibattuta ovunque fin da quando si era ricevuto il Messaggio con i numeri primi. Agendo in rappresentanza della comunità astronomica del pianeta Terra, Ellie sperava di non commettere nessun serio errore. Videoregistrò a diverse velocità e a varie aperture. Erano sbucati quasi sul piano dell’anello, in uno spazio circumstellare privo di frammenti. L’anello era estremamente sottile a paragone delle sue vaste dimensioni laterali. Ellie era in grado di individuare deboli gradazioni di colore all’interno delle fasce, ma nessuna delle particelle singole dell’anello. Se erano del tutto simili agli anelli di Saturno, un frammento di alcuni metri di diametro sarebbe stato gigantesco. Forse gli anelli vegani erano composti interamente di granelli di polvere, pezzetti di roccia, frammenti di ghiaccio. Si voltò per guardare da dove erano usciti e vide una zona nera, un’oscurità circolare, più nera del velluto, più nera del cielo notturno. Essa eclissava quella porzione sottovento del sistema di anelli di Vega che era altrimenti — dove non veniva oscurato da quella cupa apparizione — chiaramente visibile. Mentre guardava attraverso l’obiettivo più da vicino, credette di vedere deboli ed erranti lampi di luce provenienti proprio dal suo centro. Radiazione Hawking? No, la sua lunghezza d’onda sarebbe stata eccessiva. O luce dal pianeta Terra che viaggiava ancora nella galleria? Dall’altra parte di quella oscurità c’era Hokkaido. Pianeti. Dov’erano i pianeti? Scrutò il piano degli anelli con il teleobiettivo, alla ricerca di pianeti incastonati in esso, o almeno della dimora degli esseri che avevano trasmesso il Messaggio. In ogni interruzione degli anelli, Ellie cercava un mondo premuroso che con la sua influenza gravitazionale avesse ripulito i sentieri dalla polvere. Ma non riuscì a trovare nulla. «Non riesci a trovare nessun pianeta?» chiese Xi. «Nulla. Ci sono alcune grandi comete nelle vicinanze. Posso vederne le code. Ma nulla che assomigli a un pianeta. Ci devono essere migliaia di anelli separati. Per quello che posso dire, sono tutti fatti di frammenti. Il buco nero sembra aver aperto un grande varco negli anelli. E esattamente dove ci troviamo ora, girando lentamente attorno a Vega. Il sistema è molto giovane — solo alcune centinaia di milioni di anni — e alcuni astronomi pensavano che fosse troppo presto perché ci potessero essere dei pianeti. Ma allora, da dove è venuta la trasmissione?» «Forse quella non è Vega,» propose Vaygay. «Forse il nostro segnale radio proviene da Vega, ma il tunnel immette in un altro sistema stellare.» «Forse, ma è una strana coincidenza che l’altra tua stella abbia circa la stessa temperatura di colore di Vega — guarda, puoi vedere che è bluastra — e lo stesso tipo di sistema di frammenti. E’ vero, non posso controllarlo in base alle costellazioni a causa della luce che emana. Ma scommetterei uno contro dieci che quella è Vega.» «Ma allora dove sono?» chiese Devi. Xi, la cui vista era acuta, stava guardando in su, attraverso la matrice di organosilicato, fuori dai pannelli pentagonali trasparenti, nel cielo molto al di sopra del piano degli anelli. Non disse nulla e Ellie seguì il suo sguardo. C’era qualcosa là, davvero, scintillante nella luce dell’astro e con una forma geometrica percettibile. Guardò nel suo teleobiettivo. Era una sorta di enorme poliedro irregolare, dalle facce coperte di… cerchi? Dischi? Piatti? Paraboloidi? «Ecco, Qiaomu guarda qui dentro. Dicci cosa vedi.» «Sì, vedo. Le tue controparti… radiotelescopi. A migliaia, che puntano, suppongo, in molte direzioni. Non si tratta di un mondo. E’ solo un congegno.» Si alternarono al teleobiettivo. Ellie riuscì a dissimulare la sua impazienza di guardare ancora. La natura fondamentale di un radiotelescopio era più o meno caratterizzata dalla fisica delle radio onde, ma lei trovò piuttosto deludente che una civiltà in grado di creare, o anche solo di usare, i buchi neri per una sorta di trasporto iperrelativistico stesse ancora servendosi di telescopi di struttura riconoscibile, anche se giganteschi. Sembrava una cosa antiquata e priva di immaginazione da parte dei Vegani. Lei comprendeva il vantaggio di collocare i telescopi in orbita polare attorno alla stella, al sicuro da collisioni con i frammenti degli anelli tranne che per due volte a ogni rivoluzione. Ma dei radiotelescopi puntati su tutto il cielo — a migliaia — suggerivano un controllo celeste di vasta portata, un Argus vero e proprio. Innumerevoli mondi candidati erano stati tenuti d’occhio per trasmissioni televisive, radar militari, e forse altre varietà di primitive trasmissioni radio sconosciute sulla Terra. Si chiese se avessero trovato spesso segnali del genere o se la Terra costituisse il loro primo successo dopo un milione di anni di osservazioni. Non c’era traccia di un comitato di benvenuto. Una delegazione dalle province era così irrilevante che non ci si scomodava neppure a registrarne l’arrivo? Quando fu di nuovo il suo turno di usare il teleobiettivo, fece molta attenzione al fuoco, all’apertura e al tempo di esposizione. Voleva una documentazione permanente per far vedere alla Fondazione nazionale scientifica com’era una radioastronomia veramente seria. Si augurava che ci fosse un modo per determinare la grandezza del mondo poliedrico. I telescopi lo ricoprivano come cirripedi su una balena. Un radiotelescopio in condizioni di gravita zero poteva essere essenzialmente di qualsiasi misura. Una volta sviluppate le foto, sarebbe stata in grado di determinare la grandezza angolare (forse alcuni primi di arco), ma sarebbe stato certamente impossibile calcolare le dimensioni lineari, le reali dimensioni a meno che non si conoscesse la distanza della cosa. Comunque, lei aveva l’impressione che fosse immensa. «Se qui non ci sono mondi,» stava dicendo Xi, «allora non ci sono Vegani. Non ci vive nessuno qui. Vega è soltanto un posto di guardia, dove la pattuglia di frontiera va a riscaldarsi le mani. Quei radiotelescopi» — guardava in su — «sono le torri di vedetta della Grande Muraglia. Se si è limitati dalla velocità della luce, è difficile tenere insieme un impero galattico. Si ordina a una guarnigione di domare una ribellione. Diecimila anni dopo si scopre quello che è successo. Non va bene. Troppo lento. Allora si concede autonomia ai comandanti di guarnigione. Ma così non ci sarebbe più l’impero. Quelle» — e adesso indicava la macchia che copriva il cielo alle loro spalle — «quelle sono le strade imperiali. L’impero persiano le aveva. Roma le aveva. La Cina le aveva. Allora non si è vincolati alla velocità della luce. Con le strade si può tenere insieme un impero.» Ma Eda, profondamente assorto, stava scuotendo il capo. Un problema di fisica gli dava da pensare. Il buco nero, se di buco nero veramente si trattava, stava adesso orbitando attorno a Vega, in un largo passaggio completamente sgombro da detriti; sia gli anelli interni che quelli esterni si tenevano alla larga. Il suo nero era incredibile. Mentre prendeva brevi panoramiche dell’anello detritico che si stendeva davanti a lei, Ellie si chiese se un giorno esso avrebbe formato il proprio sistema planetario. La collisione, l’adesione e la crescita dei frammenti seguite da un processo di condensazione gravitazionale avrebbero fatto orbitare alla fine attorno alla stella solo alcuni grandi mondi. Era proprio questo il quadro che si erano fatti gli astronomi dell’origine dei pianeti attorno al Sole quattro bilioni e mezzo di anni fa. Ellie riusciva adesso a distinguere delle alterazioni nell’omogeneità degli anelli, dei punti con una visibile protuberanza in cui alcuni frammenti si erano apparentemente aggregati insieme. Il movimento del buco nero attorno a Vega stava creando un’evidente ondulazione nelle fasce di frammenti immediatamente adiacenti. Il dodecaedro stava producendo senza dubbio una scia più modesta. Ellie si domandava se quelle perturbazioni gravitazionali, quelle estese rarefazioni e condensazioni, avrebbero avuto qualche conseguenza a lungo termine, mutando la struttura della successiva formazione planetaria. Se così fosse stato, allora l’esistenza di qualche pianeta di bilioni di anni a venire sarebbe stata dovuta al buco nero e alla Macchina… e perciò al Messaggio, t perciò al Progetto Argus. Si rendeva conto di personalizzare troppo la cosa; se lei non fosse mai vissuta, qualche altro radioastronomo avrebbe sicuramente ricevuto il Messaggio, prima o poi. La Macchina sarebbe stata attivata in un momento diverso e il dodecaedro sarebbe arrivato lì in un altro tempo. Dunque, qualche futuro pianeta in quel sistema avrebbe potuto esserle debitore della sua esistenza. Ma allora, per simmetria, aveva impedito l’esistenza di qualche altro mondo che era destinato a formarsi se lei non fosse mai vissuta. Era vagamente /gravoso essere responsabili con azioni innocenti dei destini di mondi sconosciuti. Tentò una ripresa panoramica, cominciando all’interno del dodecaedro e poi fuori sui montanti che tenevano assieme i pannelli pentagonali trasparenti, e avanti a inquadrare lo spazio vuoto negli anelli di frammenti in cui essi stavano orbitando in compagnia del buco nero. Seguì con la camera il varco, fiancheggiato da due anelli bluastri, sempre più lontano. C’era qualcosa di un po’ strano laggiù, una sorta di curva nell’anello interno adiacente. «Qiaomu,» disse, porgendogli il teleobiettivo, «guarda laggiù. Dimmi cosa vedi.» «Dove?» Ellie indicò di nuovo con il dito. Dopo un istante lui lo aveva trovato. Ellie lo dedusse dalla sua leggera ma inequivocabile inspirazione. «Un altro buco nero,» disse. «Molto più grande.» Stavano cadendo di nuovo. Questa volta il tunnel era più ampio e loro stavano andando a una velocità superiore. «Tutto qui?» Gridò Ellie a Devi. «Ci portano fino a Vega per esibire i loro buchi neri. Ci fanno dare un’occhiata ai loro radiotelescopi da un migliaio di chilometri di distanza. Ci passiamo dieci minuti e poi loro ci ficcano in un altro buco nero e ci rimandano sulla Terra. E’ questa la ragione per cui abbiamo speso due trilioni di dollari?» «Forse siamo fuori strada,» stava dicendo Lunacarskij. «Forse l’unico punto reale era infilarsi nella Terra.» Ellie immaginò degli scavi notturni sotto le porte di Troia. Eda, con le dita aperte, li stava invitando alla calma. «Aspettiamo a dirlo, questo è un tunnel diverso. Perché si dovrebbe pensare che riporti alla Terra?» «Ma Vega non doveva essere la nostra meta?» chiese Devi. «Il metodo sperimentale. Vediamo dove usciamo adesso.» In quel tunnel c’erano meno sfregamenti contro le pareti e meno ondulazioni. Eda e Vaygay stavano discutendo un diagramma spazio-tempo che avevano tracciato nelle coordinate Kruskal-Szekeres. Ellie non aveva la benché minima idea di che cosa stessero parlando. La fase di decelerazione, la parte del passaggio che sembrava in salita, era ancora sconcertante. Questa volta la luce alla fine del tunnel si presentava arancione. Emersero a una considerevole velocità nel sistema di una binaria in contatto, cioè di due soli tangenti. Gli strati esterni di una vecchia stella gigante rossa si stavano riversando sulla fotosfera di una vigorosa nana gialla di mezz’età, somigliante al Sole. La zona di contatto tra le due stelle era brillante. Ellie cercò degli anelli di frammenti, dei pianeti o dei radio osservatori orbitanti, ma non riuscì a trovare nulla. Ma la cosa non significava molto, si disse. Quei sistemi potevano avere un bel numero di pianeti, ma non sarebbe mai riuscita a scorgerli con quel piccolo teleobiettivo. Proiettò il sole doppio sul pezzo di carta e ne fotografò l’immagine usando un obiettivo con focale corta. Poiché non c’erano anelli, c’era meno luce diffusa in quel sistema che attorno a Vega; con un obiettivo grandangolare fu in grado, dopo qualche ricerca, di riconoscere una costellazione che assomigliava abbastanza al Gran Carro. Ma aveva una certa difficoltà a individuare le altre costellazioni. Poiché le stelle luminose del Gran Carro si trovano ad alcune centinaia di anni luce dalla Terra, Ellie concluse che non erano balzati in avanti più di alcune centinaia di anni luce. Lo disse a Eda e gli chiese cosa ne pensasse. «Che ne penso? Penso che sia una metropolitana.» «Una metropolitana?» Ellie ricordò la sensazione di cadere che aveva provato subito dopo che la Macchina era stata attivata; per un momento le era sembrata una caduta nelle profondità dell’inferno. «Una metropolitana. Una sotterranea. Queste sono le stazioni. Le fermate. Vega e questo sistema e altri. I passeggeri salgono e scendono alle fermate. Si cambia treno, si prendono le coincidenze.» Indicò la binaria in contatto, e lei notò che la sua mano proiettava due ombre, una antigialla e l’altra antirossa, come — fu l’unica immagine che le venne in mente — in una discoteca. «Ma noi, noi non possiamo uscirne,» proseguì Eda. «Noi ci troviamo in un vagone ferroviario sigillato. Stiamo andando al terminal, al capolinea.» Drumlin aveva definito tali speculazioni cose da Fantasilan-dia, e questa era — a quanto ne sapeva — la prima volta che Eda aveva ceduto alla tentazione. Dei Cinque, lei era il solo astronomo d’osservazione, anche se la sua specialità non era nello spettro ottico. Sentì che era sua precisa responsabilità accumulare la maggior quantità di dati possibile, nei tunnel e nel comune spazio-tempo quadridimensionale in cui uscivano periodicamente. Il presunto buco nero da cui sbucavano era sempre in orbita attorno a qualche stella o a un sistema di stelle multiple. I buchi neri erano sempre in coppia, ce n’erano sempre due che dividevano un’orbita simile: uno da cui venivano espulsi e un altro in cui cadevano. Non c’erano due sistemi che si assomigliassero davvero. Nessuno era uguale al sistema solare. Tutto ciò forniva istruttive intuizioni astronomiche. Nessuno di essi mostrava qualcosa di simile a un prodotto di un’intelligenza aliena: un secondo dodecaedro, o qualche progetto di ingegneria di ampia portata capace di smontare un mondo e di ricostituirlo in ciò che Xi aveva definito un congegno. Questa volta, emersero vicino a una stella che mutava visibilmente la sua brillantezza (Ellie era in grado di dirlo in base alla progressione di aperture d’obiettivo richieste); forse si trattava di una delle stelle variabili del tipo RR Lyrae; alla fermata successiva c’era un sistema quintuplo; quindi una nana marrone dalla debole luminosità. Alcune erano nello spazio aperto, altre avvolte da una nebulosità, circondate da nubi molecolari risplendenti. Ricordò l’avvertimento «Ciò sarà dedotto dalla vostra quota di Paradiso». Nulla era stato detratto dalla sua. Nonostante uno sforzo consapevole di mantenere una calma professionale, il suo cuore si esaltava a quella profusione di soli. Sperava che ognuno di essi fosse una casa per qualcuno. O che lo sarebbe stato un giorno. Ma dopo il quarto balzo cominciò a preoccuparsi. Soggettivamente e stando al suo orologio da polso, sembrava che fosse trascorsa circa un’ora da quando avevano lasciato Hokkaido. Se avessero impiegato molto più tempo, la mancanza di servizi si sarebbe fatta sentire. Probabilmente c’erano degli aspetti della fisiologia umana che un’avanzatissima civiltà non riusciva a dedurre nemmeno dopo un attento esame di una trasmissione televisiva. E se gli extraterrestri erano così intelligenti, perché li facevano avanzare con tanti piccoli balzi? Benissimo, forse il salto dalla Terra avveniva in modo rudimentale perché soltanto dei primitivi stavano sfruttando un’estremità del tunnel. Ma dopo Vega? Perché non potevano farli giungere direttamente alla meta del dodecaedro? Ogni volta che Ellie usciva sfrecciando da un tunnel, era in grande aspettativa. Quali meraviglie avevano in serbo per lei ancora? Le venne fatto di pensare a un gigantesco parco dei divertimenti, e immaginò Hadden intento a puntare il suo telescopio su Hokkaido nel momento in cui la Macchina era stata attivata. Nonostante lo splendore dei panorami offerti dai creatori del Messaggio, e per quanto Ellie si compiacesse della sua padronanza della materia mentre spiegava agli altri qualche aspetto dell’evoluzione stellare, dopo un po’ finì per sentirsi delusa. Dovette faticare per definire la sensazione che provava. Dunque, gli extraterrestri si stavano vantando. Era una cosa sconveniente. Tradiva una certa mancanza di carattere. Mentre si tuffavano in un altro tunnel, più largo e più tortuoso degli altri, Lunacarskij chiese a Eda di esprimere il suo parere sul perché le fermate della metropolitana fossero poste in sistemi stellari così poco promettenti. «Perché non attorno a una stella singola, a una stella giovane in buona salute e senza frammenti?» «Perché,» Eda rispose, «… naturalmente sto solo facendo una supposizione come mi hai chiesto, perché tutti questi sistemi sono abitati…» «E non vogliono che i turisti spaventino i nativi,» aggiunse Sukhavati. Eda sorrise. «O viceversa.» «Ma è quello che intendi dire, non è vero? C’è una sorta di etica di non interferenza con i pianeti primitivi. Loro sanno che di tanto in tanto alcuni dei primitivi possono usare la sotterranea… ««E sono abbastanza sicuri dei primitivi,» Ellie continuò il pensiero, «ma non possono esserne assolutamente sicuri. Dopo tutto, i primitivi sono primitivi. Perciò, lasciamo che si servano soltanto delle metropolitane che vanno in rovina. I costruttori devono essere molto cauti. Ma allora perché ci hanno mandato un treno locale e non un espresso?» «Probabilmente è troppo complicato costruire un tunnel espresso,» disse Xi, con anni di esperienza di scavi alle spalle. Ellie pensò al tunnel Honshu-Hokkaido, uno dei vanti dell’ingegneria civile terrestre, lungo in tutto cinquantun chilometri. Alcune delle curve adesso erano piuttosto strette. Ellie pensò alla sua Thunderbird e poi sentì avvicinarsi un attacco di nausea. Decise di resistervi il più a lungo possibile. Il dodecaedro non era stato fornito di sacchetti per il mal d’aria. All’improvviso si trovarono su un rettilineo e poi ci fu il cielo pieno di stelle. Dovunque Ellie guardasse, c’erano stelle, non nel numero irrisorio visibile a occhio nudo sulla Terra, ma in una quantità enorme — molte delle quali sembravano quasi toccarsi — che la circondavano da ogni parte, gialle, blu o rosse, specialmente rosse. Il cielo risplendeva di soli vicini. Potè individuare un’immensa nube spiraliforme di polvere, un disco di materia in via di aggregazione che stava apparentemente finendo in un buco nero di stupefacenti proporzioni, da cui si sprigionavano lampi di radiazione simili a lampi di calore in una notte d’estate. Se quello era il centro della Galassia, come lei sospettava, sarebbe stato immerso in radiazioni di sincrotrone. Sperava che gli extraterrestri si fossero ricordati della debolezza fisica degli uomini. E nel suo campo visivo, mentre il dodecaedro ruotava, apparve… un prodigio, una meraviglia, un miracolo. Ci erano finiti vicino quasi prima di rendersene conto. Riempiva metà del cielo. Adesso lo stavano sorvolando. Sulla sua superficie c’erano centinaia, forse migliaia, di porte d’ingresso illuminate, ciascuna di forma differente. Molte erano poligonali o circolari o con una sezione trasversale ellittica, alcune avevano appendici sporgenti o una serie di cerchi eccentrici che si sovrapponevano in parte. Ellie si rese conto che si trattava di porti d’attracco, di migliaia di differenti porti d’attracco: alcuni forse delle dimensioni di pochi metri soltanto, altri chiaramente del diametro di chilometri, o addirittura più grandi. Ciascuno di essi, decise Ellie, aveva la sagoma di una macchina interstellare come la loro. Grandi creature in macchine importanti avevano imponenti porti d’entrata. Piccole creature come loro, avevano porti minuscoli. Era un sistema democratico, senza traccia di civiltà particolarmente privilegiate. La diversità di porti suggeriva poche distinzioni sociali tra le svariate civiltà, ma implicava una diversità sorprendente di esseri e culture. Era una sorta di stazione centrale in grande stile, pensò Ellie. La visione di una Galassia popolata, di un universo traboccante di vita e di intelligenza, la fece quasi piangere di gioia. Si stavano avvicinando a un porto illuminato di giallo che, come Ellie potè vedere, aveva la sagoma esatta del dodecaedro in cui stavano viaggiando. Ellie guardò un porto d’attracco vicino, dove qualcosa della grandezza del dodecaedro e della forma approssimata di una stella marina stava inserendosi lentamente nella sua sagoma. Lanciò occhiate a destra e a sinistra, su e giù, alla quasi impercettibile curvatura di quella grande Stazione situata in quello che secondo lei poteva essere il centro della Via Lattea. Che vanto per il genere umano, che riscatto l’esser stati invitati lì finalmente! C’è speranza per noi, pensò Ellie. C’è speranza! «Beh, non è Bridgeport.» Disse ciò ad’alta voce, mentre la manovra di attracco si completava in perfetto silenzio. 20 GRAN STAZIONE CENTRALE «Tutte le cose sono artificiali, poiché la natura è l’arte di Dio.»      THOMAS BROWNE, Dei sogni, «Religio Medici» (1642) «Gli Angeli hanno bisogno di assumere un corpo, non per loro stessi, ma per noi.»      TOMMASO D’AQUINO, Summa Teologica, I, 52, 2 «Il diavolo ha il potere di assumere un aspetto piacevole.»      WILLIAM SHAKESPEARE, Amieto, II, 2, 628 La camera d’equilibrio era stata progettata per accogliere una persona sola alla volta. Quando si erano presentate questioni di priorità — quale nazione sarebbe stata rappresentata per prima sul pianeta di un’altra stella — i Cinque si erano ribellati e avevano detto ai direttori del progetto che la loro missione non era di quel tipo. Avevano di proposito evitato di discuterne fra loro. Sia la porta interna che quella esterna della camera di equilibrio si aprirono simultaneamente. Non avevano dato nessun ordine. Apparentemente, quel settore della Stazione era adeguatamente pressurizzato e ossigenato. «Beh, chi vuole andare per primo?» chiese Devi. Con la videocamera in mano, Ellie aspettava in fila di uscire, ma poi decise che la fronda di palma avrebbe dovuto essere con lei quando avesse messo piede su quel nuovo mondo. Mentre andava a ricuperarla, udì un grido di gioia giungere dall’esterno, probabilmente di Vaygay. Ellie si precipitò fuori nell’intensa luce solare. La soglia della porta esterna della camera d’equilibrio era a livello della sabbia. Devi aveva i piedi in acqua e stava divertendosi a spruzzare Xi. Eda stava sorridendo apertamente. Si trattava di una spiaggia. Le onde stavano sciabordando sulla sabbia. Il cielo azzurro mostrava alcuni pigri cumuli. C’erano delle palme a breve distanza dal bagnasciuga. In cielo c’era un sole. Uno solo e giallo. Proprio come il nostro, pensò Ellie. Nell’aria vagava un sottile profumo: chiodi di garofano, forse, e cannella. Avrebbe potuto essere una spiaggia di Zanzibar. Così avevano viaggiato per trentamila anni luce per passeggiare su una spiaggia. Avrebbe potuto anche andar peggio, pensò Ellie. Soffiava la brezza e si creò un piccolo turbine di sabbia davanti a lei. Era soltanto un’elaborata simulazione della Terra, forse ricostruita in base ai dati raccolti da una normale spedizione esplorativa milioni di anni prima? O i Cinque avevano intrapreso quell’epico viaggio solo per migliorare la loro conoscenza di astronomia descrittiva, e poi erano stati scaricati senza troppe cerimonie in qualche piacevole angolo della Terra? Quando si voltò, Ellie scoprì che il dodecaedro era scomparso. Avevano lasciato a bordo il supercomputer superconduttore e la sua biblioteca di consultazione, oltre ad alcuni degli strumenti. La cosa li preoccupò per non più di un minuto. In fondo stavano bene ed erano sopravvissuti a un viaggio che valeva la pena di essere raccontato. Vaygay spostò lo sguardo dalla fronda che El-lie aveva voluto a tutti i costi portare con sé al gruppo di palme lungo la spiaggia e rise. «Come portar carbone a Newcastle,» commentò Devi. Ma la sua fronda era diversa. Forse ne avevano di tipi diversi lì. O forse la varietà locale era stata prodotta da un fabbricante disattento. Ellie guardò il mare. Le venne in mente con forza l’immagine della prima colonizzazione del suolo terrestre, circa quattrocento milioni di anni prima. Dovunque si trovassero — nell’Oceano Indiano o al centro della Galassia — loro cinque avevano compiuto qualcosa di incomparabile. L’itinerario e le destinazioni erano stati completamente fuori della loro portata, era vero. Ma avevano attraversato l’oceano di spazio interstellare e dato inizio a quella che doveva essere sicuramente una nuova epoca nella storia dell’uomo. Ellie ne era molto orgogliosa. Xi si tolse gli stivali e arrotolò fino al ginocchio i pantaloni della tuta, carica di sgargianti etichette, che per ordine dei governi dovevano tutti indossare. Cominciò ad avanzare lentamente tra le onde che s’infrangevano dolcemente. Devi si appartò dietro una palma e ne uscì in sari, con la tuta da viaggio ripiegata sotto il braccio. Fece venire in mente ad Ellie un film di Dorothy Lamour. Eda tirò fuori quella specie di berretto di lino che rappresentava il suo segno distintivo sulla Terra. Ellie li riprese con il suo apparecchio in brevi sequenze. Una volta ritornati a casa, sarebbe sembrato esattamente come un filmetto delle vacanze. Si unì a Xi ed a Vaygay fra i flutti. L’acqua dava l’impressione di essere quasi calda. Era un piacevole pomeriggio e, tutto considerato, un cambiamento gradito rispetto all’inverno di Hokkaido che avevano lasciato poco più di un’ora prima. «Tutti hanno portato qualcosa di simbolico,» disse Vaygay, «eccetto me.» «Che vuoi dire?» «Sukhavati ed Eda si sono portati i costumi nazionali. Xi ha portato un grano di riso.» Infatti, Xi stava tenendo il grano in un sacchettino di plastica tra il pollice e l’indice. «Tu hai la tua fronda di palma,» proseguì Vaygay. «Ma io, io non ho portato nessun simbolo, nessun ricordo dalla Terra. Io sono l’unico vero materialista del gruppo, e tutto ciò che ho portato si trova nella mia testa.» Ellie portava appeso al collo il suo medaglione, sotto la tuta da viaggio. In quel momento se lo tirò fuori, dopo essersi aperta il colletto. Vaygay se ne accorse e lei glielo diede da leggere. «Penso si tratti di Plutarco,» disse dopo un attimo. «Erano parole coraggiose quelle pronunciate dagli Spartani. Ma ricordati che sono stati i Romani a vincere la battaglia.» Dal tono di questo ammonimento, Vaygay doveva aver ritenuto il medaglione un regalo di der Heer. Ellie si sentì riscaldare dalla disapprovazione che il russo mostrava per Ken — sicuramente giustificata da fatti — e dalla sua costante sollecitudine. Lo prese sottobraccio. «Ammazzerei qualcuno per una sigaretta,» disse amabilmente, usando il braccio per stringere la mano di lei contro il suo fianco. I Cinque si sedettero insieme accanto a una piccola pozza creata dalla marea. Il frangersi dei flutti produceva un sommesso rumore bianco che le ricordava l’Argus e i suoi anni di ascolto del rumore cosmico. Il Sole che aveva superato lo zenith, si trovava sull’oceano. Un granchio passò velocemente con la sua andatura sghemba, con gli occhietti rotanti sulle antenne. Con granchi, noci di cocco, e le limitate provviste che avevano in tasca, avrebbero potuto sopravvivere abbastanza bene per un certo periodo. Non c’erano orme sulla spiaggia, a parte le loro. «Noi pensiamo che abbiano fatto loro quasi tutto il lavoro.» Vaygay stava spiegando il pensiero suo e di Eda a proposito di quello che loro cinque avevano sperimentato. «Tutto ciò che il progetto ha fatto è stato di creare una modesta increspatura nello spazio-tempo affinchè avessero qualcosa su cui agganciare il loro tunnel. In tutta questa geometria multidimensionale, deve essere molto difficile scoprire una minuscola grinza nello spazio-tempo. Ancor più arduo adattarvi un ugello.» «Che cosa stai dicendo? Hanno cambiato la geometria dello spazio?» «Sì. Stiamo dicendo che lo spazio è topologicamente connesso in maniera non semplice. E’ come — so che ad Abonneda non piace questa analogia — è come una superficie piatta bidimensio-nale, la superficie intelligente, collegata grazie a un dedalo di gallerie con un’altra superficie piatta bidimensionale, la superficie stupida. L’unico modo in cui si può passare dalla superficie intelligente alla superficie stupida in un tempo ragionevole è attraverso le gallerie. Adesso immaginate che la gente che si trova sulla superficie intelligente scavi una galleria provvista di ugello. Creeranno un tunnel tra le due superfici, purché gli stupidi cooperino facendo una piccola piega sulla loro superficie in modo che vi si possa attaccare l’ugello.» «Così i tipi intelligenti inviano un messaggio radio e dicono agli stupidi come fare una piega. Ma se sono veramente esseri bidimensionali, come possono fare una piega sulla loro superficie?» «Accumulando una grande massa in un punto.» Vaygay lo disse a titolo di prova. «Ma non è quello che abbiamo fatto.» «Lo so, lo so. In qualche modo l’hanno fatto i benzel.» «Vedete,» spiegò Eda con calma, «se i tunnel sono buchi neri, ci sono implicitamente delle vere contraddizioni. C’è un tunnel interno nell’esatta soluzione Kerr delle equazioni del campo di Einstein, ma è instabile. La più leggera perturbazione lo isolerebbe e convertirebbe il tunnel in una singolarità fisica attraverso cui non può passare nulla. Ho tentato di immaginare una civiltà superiore che fosse in grado di controllare la struttura interna di una stella in fase di collasso per mantenere stabile il tunnel interno. E’ molto difficile. La civiltà dovrebbe controllare e stabilizzare il tunnel per sempre. Sarebbe in special modo difficile se vi passasse qualcosa della grandezza del dodecaedro.» «Anche se Abonneda riesce a scoprire come mantenere il tunnel aperto, ci sono molti altri problemi,» disse Vaygay. «Troppi. I buchi neri ammassano problemi più in fretta di quanto non ammassino materia. Ci sono le forze di attrazione. Avremmo dovuto essere fatti a pezzi nel campo gravitazionale del buco nero. Avremmo dovuto essere allungati come personaggi di quadri di El Greco o come le sculture di quell’italiano…?» Si rivolse ad Ellie per colmare la lacuna. «Giacometti,» suggerì lei. «Era svizzero.» «Sì, come Giacometti. Quindi altri problemi: secondo le misurazioni terrestri richiede un’infinita quantità di tempo per noi il passaggio attraverso un buco nero e potremmo non ritornare mai più, mai più sulla Terra. Forse è quello che è successo. Forse non ritorneremo a casa mai più. Inoltre, ci potrebbe essere un inferno di radiazioni vicino alla singolarità. E’ un’instabilità quanto-meccanica… ««E infine,» proseguì Eda, «un tunnel del tipo Kerr può condurre a grottesche violazioni della causalità. Con un modesto cambio di traiettoria all’interno del tunnel, si potrebbe emergere all’estremità opposta, all’inizio della storia dell’universo, un pico-secondo dopo il Big Bang, per esempio. Questo sarebbe un universo molto disordinato.» «Ehi, ragazzi,» disse Ellie, «non sono esperta di relatività generale. Ma non li abbiamo visti i buchi neri? Non ci siamo caduti dentro? Non ne siamo usciti? Un grammo di osservazione non vale una tonnellata di teoria?» «Lo so, lo so», disse Vaygay dispiaciuto. «Deve essere qualcos’altro. La nostra comprensione della fisica non si spinge così lontano, non è vero?» Egli rivolse quest’ultima domanda, in tono leggermente lamentoso, a Eda che rispose soltanto: «Un buco nero del tipo consueto non può essere un tunnel; hanno delle singolarità invalicabili al loro centro.» Con un sestante di fortuna e i loro orologi da polso, calcolarono il moto angolare del Sole che tramontava. Era di 360 gradi in ventiquattro ore, come sulla Terra. Prima che il Sole scendesse troppo sull’orizzonte, smontarono l’apparecchio di Ellie e usarono le lenti per accendere un fuoco. Lei tenne la fronda accanto a sé nel timore che qualcuno inavvertitamente la gettasse nelle fiamme dopo il calare delle tenebre. Xi si dimostrò un provetto fuochista. Li fece disporre attorno al fuoco in modo che lo proteggessero dal vento e lo mantenne basso. A poco a poco uscirono le stelle. C’erano tutte le costellazioni familiari della Terra. Ellie si offrì di restare sveglia per badare al fuoco mentre gli altri dormivano. Voleva veder sorgere Lyra. Dopo alcune ore, l’evento si compì. La notte era eccezionalmente chiara e Vega risplendeva nitida e brillante. Dal moto apparente delle costellazioni in cielo, dalle costellazioni dell’emisfero meridionale che riuscì a individuare, e dal Gran Carro che si trovava vicino all’orizzonte settentrionale, Ellie dedusse che si trovavano a latitudini tropicali. Se tutto era una simulazione, pensò prima di addormentarsi, si dovevano esser dati un gran bel da fare. Ellie fece uno strano sogno. Lei e gli altri stavano nuotando — nudi, disinvolti — sottacqua, ora volteggiando pigramente vicino a una madrepora, ora scivolando entro caverne che subito venivano oscurate da alghe ondeggianti. Una volta, lei tornò alla superficie. Una nave a forma di dodecaedro passò volando a bassissima quota. Le pareti erano trasparenti e all’interno potè vedere persone in perizoma e sarong intente a leggere giornali e a conversare tranquillamente. Ritornò sott’acqua, all’elemento cui apparteneva. Benché il sogno sembrasse proseguire per molto tempo, nessuno di loro aveva qualche difficoltà a respirare. Stavano inspirando ed espirando acqua. Non si preoccupavano affatto e stavano nuotando con la stessa naturalezza dei pesci. Vaygay assomigliava addirittura un po’ a un pesce, a un epinefelo, forse. L’acqua doveva essere estremamente ossigenata. Nel mezzo del sogno, Ellie ricordò un topo che aveva visto una volta in un laboratorio di fisiologia, perfettamente a suo agio in una boccia piena d’acqua arricchita d’ossigeno. Cercò di ricordare quanto ossigeno ci voleva, ma era troppo complicato stabilirne la quantità. Stava pensando sempre meno, si disse. Benissimo. Davvero. Gli altri erano adesso distintamente uguali a pesci. Le pinne di Devi erano traslucide. Il sogno era oscuramente interessante, vagamente sensuale. Ellie sperò che continuasse per poter scoprire qualcosa. Ma persino la domanda cui voleva trovare una risposta le sfuggiva. Oh, respirare acqua calda, pensò. Che cosa avrebbero ancora inventato? Ellie si svegliò con un senso di disorientamento così profondo che sconfinava nella vertigine. Dove si trovava? Nel Wisconsin, a Puerto Rico, nel New Mexico, nel Wyoming, a Hokkaido? O nello stretto di Malacca? Allora ricordò. A trentamila anni luce dalla Terra, in un punto imprecisato della Via Lattea, battendo tutti i record di disorientamento. Nonostante il mal di testa, Ellie scoppiò a ridere e Devi, che dormiva accanto a lei, si agitò. A causa della pendenza della spiaggia — ne avevano perlustrato un chilometro o poco più il pomeriggio precedente e non avevano trovato traccia di abitazione — la luce diretta del Sole non l’aveva ancora raggiunta. Ellie era sdraiata su un rialzo di sabbia. Devi, che si stava svegliando, aveva dormito con il capo sull’abito da viaggio ripiegato. «Non credi che ci sia qualcosa di sibaritico in una cultura che ha bisogno di guanciali soffici?» Ellie chiese. «Quelli che poggiano le loro teste di notte su forcelle di legno, non li troveresti più affidabili?» Devi rise e le diede il buon giorno. Sentirono gridare alle loro spalle. I tre uomini stavano facendo dei cenni e dei richiami. Ellie e Devi si alzarono in fretta e li raggiunsero. Ritta sulla sabbia c’era una porta. Una porta di legno, a pannelli e con un pomello di bronzo o che sembrava di bronzo. La porta aveva cardini di metallo verniciato di nero ed era posta tra due stipiti, un architrave e una soglia. Nessuna targhetta. Non aveva nulla di straordinario. Per la Terra. «Adesso passateci dietro,» le invitò Xi. Dal didietro la porta non c’era affatto. Ellie poteva vedere Eda, Vaygay e Xi, Devi leggermente in disparte, e la sabbia ininterrotta tra loro quattro e lei. Si spostò di lato e vide una linea verticale sottile come la lama di un rasoio e scura. Era riluttante a toccarla. Ritornando di nuovo dietro la porta, si accertò che non ci fossero ombre o riflessi nell’aria davanti a lei, e quindi l’attraversò. «Brava.» Le gridò Eda ridendo. Ellie si voltò e trovò la porta chiusa davanti a lei. «Che cosa avete visto?» chiese. «Una bella donna che passava attraverso una porta chiusa di due centimetri di spessore.» Vaygay sembrava stesse bene nonostante la mancanza di sigarette. «Avete tentato di aprire la porta?» chiese Ellie. «Non ancora,» rispose Xi. Ellie indietreggiò di nuovo per ammirare l’apparizione. «Assomiglia a qualcosa di… come si chiama quel surrealista francese?» chiese Vaygay. «Rene Magritte,» lei rispose. «Era belga.» «Siamo d’accordo, presumo, che non si tratta veramente della Terra,» propose Devi abbracciando in un gesto l’oceano, la spiaggia e il cielo. «A meno che non ci troviamo nel Golfo Persico di tremila anni fa, e che ci siano dei geni in giro,» disse Ellie ridendo. «Non sei impressionata dalla cura della costruzione?» «Benissimo,» rispose Ellie. «Sono bravissimi, lo riconosco. Ma a che scopo? Perché affannarsi tanto con tutti questi particolari?» «Forse hanno solo una passione per le cose precise.» «O forse stanno soltanto mettendosi in mostra.» «Non vedo,» proseguì Devi, «come possano conoscere così bene le nostre porte. Pensate a quante differenti maniere ci sono di fare una porta. Come possono saperlo?» «Potrebbe essere la televisione,» rispose Ellie. «Vega ha ricevuto segnali televisivi dalla Terra fino a — vediamo — fino alla programmazione del 1974. Chiaramente, possono mandare i clip interessanti qui tramite una consegna speciale in un attimo. Probabilmente ci sono state molte porte alla televisione tra il 1936 e il 1974. Okay,» continuò lei, come se non fosse stato un cambio d’argomento, «che accadrebbe se aprissimo la porta e ci entrassimo?» «Se siamo qui per essere sottoposti a un test,» disse Xi, «dall’altra parte di quella porta si trova probabilmente il test, forse uno per ciascuno di noi.» Lui era pronto. Avrebbe voluto esserlo anche lei. Le ombre delle palme più vicine stavano ora allungandosi sulla spiaggia. Senza dire una parola, si guardarono l’un l’altro. I quattro sembravano impazienti di spalancare la porta e di oltrepassarne la soglia. Solo Ellie provava una certa… riluttanza. Chiese a Eda se gli sarebbe piaciuto andare per primo. Potremmo fare anche noi del nostro meglio, pensò Ellie. Eda si tolse il berretto, fece un leggero inchino pieno di grazia, si voltò e si avvicinò alla porta. Ellie gli corse accanto e lo baciò su entrambe le guance. Anche gli altri lo abbracciarono. Si voltò di nuovo, aprì la porta, entrò, e si dissolse nell’aria, a iniziare dal piede che aveva varcato la soglia. Con la porta aperta era sembrato che ci fosse soltanto la continuazione della spiaggia e delle onde dietro di lui. La porta si chiuse. Ellie ne fece il giro di corsa, ma non c’era traccia di Eda. Poi fu la volta di Xi. Ellie pensò con angoscia a come si erano sempre mostrati docili, accettando subito ogni invito anonimo che fosse stato loro rivolto. Avrebbe potuto far parte del Messaggio o l’informazione avrebbe potuto essere comunicata una volta attivata la Macchina. Avrebbero potuto dirci che stavamo per attraccare a una simulazione di spiaggia terrestre. Avrebbero potuto dirci che c’era una porta che ci aspettava. Era vero che, per quanto istruiti fossero, gli extraterrestri potevano conoscere l’inglese imperfettamente, con la televisione come loro unico professore. La loro conoscenza del russo, del mandarino, del tamil e dell’hausa sarebbe stata ancor più primitiva. Ma avevano inventato il linguaggio introdotto nel sillabario del Messaggio. Perché non usarlo? Per conservare l’elemento sorpresa? Vaygay vide che Ellie fissava la porta chiusa e le chiese se voleva essere la prossima a entrare. «Grazie, Vaygay. Sto riflettendo. So che è una cosa un po’ insensata. Ma mi è appena venuta in mente: perché dobbiamo saltare attraverso ogni cerchio che ci presentano? E se non facessimo quello che ci chiedono?» «Ellie, sei così americana! Per me è come a casa mia. Sono abituato a fare ciò che le autorità suggeriscono: specialmente quando non ho scelta.» Sorrise e girò elegantemente sui tacchi. «Non lasciarti infinocchiare dal Granduca,» gli gridò dietro. Alto nel cielo, un gabbiano emise un grido rauco. Vaygay aveva lasciato la porta aperta. C’era ancora soltanto spiaggia al di là. «Stai bene?» le chiese Devi. «Mi sento bene. Davvero. Voglio solo un momento per me stessa. Verrò tra un attimo.» «Seriamente, te lo sto chiedendo come medico. Ti senti proprio bene?» «Mi sono svegliata con un gran mal di testa e credo di aver fatto qualche sogno straordinario. Non mi sono lavata i denti e non ho bevuto il mio caffè. E mi manca anche il giornale del itti mattino. A parte tutto ciò, sto davvero bene.» «Bene, sembra tutto a posto. Anch’io ho un po’ di mal di testa. Abbi cura di te stessa Ellie. Ricorda ogni cosa, così sarai in grado di raccontarmi tutto… la prossima volta che c’incontreremo.» «Lo farò,» promise Ellie. Si baciarono e si augurarono ogni bene. Devi valicò la soglia e svanì. La porta si richiuse alle sue spalle. In seguito Ellie credette di aver sentito nell’aria un odore di curry. Si lavò i denti con l’acqua salata. Una vena di pignoleria era sempre stata parte del suo carattere. Fece colazione con latte di cocco. Con attenzione ripulì dalla sabbia le superfici esterne della sua microcamera e il suo piccolo arsenale di videocassette su cui aveva registrato le meraviglie del viaggio. Lavò la fronda di palma nei flutti, come aveva fatto il giorno in cui l’aveva trovata a Cocca Beach prima della sua partenza per «Matusalemme». La mattinata era già calda e decise di fare una nuotata. Ripiegati con cura i suoi abiti sulla fronda di palma, avanzò arditamente tra le onde. Era improbabile che gli extraterrestri si eccitassero alla vista di una donna nuda, anche se discretamente conservata. Ellie cercò di immaginare un microbiologo sconvolto dalla passione dopo aver osservato un paramecio colto «in flagrante delicto» di mitosi. Languidamente, galleggiava sul dorso, ondulando su e giù, in armonia con l’arrivo delle successive creste delle onde. Cercò di immaginare migliaia di panorami sinottici, di mondi simulati, ciascuno una copia meticolosa della parte più bella del pianeta originario di qualcuno, ciascuno con cielo e tempo, oceano, geologia, e vita indigena indistinguibile dagli originali. Sembrava una stravaganza, benché suggerisse anche che c’era qualcosa di soddisfacente in vista. Indipendentemente dalle risorse, non si costruiva un paesaggio in quella scala per cinque campioni provenienti da un mondo votato alla distruzione. D’altro canto… L’idea degli extraterrestri collezionisti di animali era diventata una specie di luogo comune. E se quella Stazione piuttosto grande con la sua profusione di porti d’attracco e di ambienti fosse stata davvero uno zoo? «Ammirate gli animali esotici nei loro habitat naturali,» le sembrava di sentir gridare da un imbonitore con la testa da lumaca. I turisti sarebbero venuti da tutta la Galassia, specialmente durante le vacanze scolastiche. E poi, quando c’era un test, i padroni della Stazione allontanavano temporaneamente le creature e i turisti, cancellavano le orme dalla spiaggia e concedevano ai primitivi appena arrivati una mezza giornata di riposo e di ricreazione prima che cominciasse la dura prova. O forse era così che rifornivano gli zoo. Ellie pensò agli animali rinchiusi negli zoo terrestri che si diceva avessero grosse difficoltà a riprodursi in cattività. Facendo delle capriole nell’acqua, si tuffò sotto la superficie in un momento di imbarazzo. A bracciate vigorose si diresse verso la spiaggia, e per la seconda volta in ventiquattr’ore rimpianse di non aver avuto un bambino. Non c’era nessuno in giro e non una vela all’orizzonte. Alcuni gabbiani stavano camminando sulla spiaggia, apparentemente alla ricerca di granchi. Le sarebbe piaciuto aver portato con sé del pane per sfamarli. Una volta asciutta, si rivestì ed esaminò di nuovo la porta che era lì semplicemente in attesa. Provò una invincibile riluttanza a entrare. Più di riluttanza. Forse terrore. Indietreggiò, sempre tenendola d’occhio. Sotto una palma, con le ginocchia tirate sotto il mento, Ellie guardava la lunga distesa di sabbia bianca. Dopo un po’ si alzò e si stirò. Reggendo la fronda e la microcamera con una mano, si avvicinò alla porta e girò il pomo. La porta si aprì leggermente. Attraverso la fessura poteva scorgere i cavalloni al largo. Diede un’altra spinta alla porta e quella si spalancò senza un cigolio. La spiaggia, tranquilla e indifferente, le stava di fronte. Scosse il capo e ritornò all’albero, riassumendo il suo atteggiamento pensoso. Si interrogava sulla sorte degli altri. Si trovavano adesso in qualche remoto settore riservato ai test, alle prese con questionari complessi? O si trattava di un esame orale? E chi erano gli esaminatori? Sentì di nuovo crescere il disagio in sé. Un altro essere intelligente — evolutosi indipendentemente su qualche lontano mondo in condizioni fisiche ultraterrene e con una sequenza completamente diversa di mutazioni genetiche casuali — un essere siffatto non sarebbe stato simile a nessuna delle creature che lei conosceva. O che aveva immaginato. Se quella era una stazione-test, allora c’erano dei padroni della stazione che sarebbero stati sicuramente, terribilmente non umani. Era sempre stata turbata profondamente dagli insetti, dai serpenti, dalle talpe con il naso a stella. Provava un brivido di ripugnanza di fronte a esseri umani che presentassero anche solo una piccola malformazione. Zoppi, bambini con la sindrome di Down, persino l’apparenza del parkinsonismo suscitavano in lei, nonostante la sua chiara determinazione intellettuale, una sensazione di disgusto, un desiderio di fuggire. In genere, era stata in grado di controllare la sua paura, anche se si chiedeva se non avesse mai ferito qualcuno a causa della sua fobia. Non si trattava di qualcosa cui pensasse molto; si accorgeva del proprio imbarazzo e passava a un altro tema. Ma adesso si preoccupava di essere incapace persino di affrontare — ancor meno di sconfiggere per il genere umano — un essere extraterrestre. Non avevano provveduto a proteggere i Cinque da questo rischio. Non si era compiuto nessuno sforzo per determinare se avessero paura dei topi o dei nani o dei Marziani. Le commissioni esaminatrici semplicemente non ci avevano pensato. Si chiese perché non lo avessero fatto; adesso sembrava una cosa abbastanza ovvia. Era stato un errore mandare lei. Forse, una volta di fronte a qualche creatura galattica anguicrinita, avrebbe disonorato la propria reputazione: o peggio ancora, si sarebbe fatta giudicare inclassificabile in qualsiasi test avesse dovuto affrontare, facendo sorgere seri dubbi negli alieni a proposito del punteggio assegnato al genere umano. Ellie guardò con apprensione e desiderio l’enigmatica porta la cui estremità inferiore si trovava ormai immersa nell’acqua. La marea stava salendo. C’era una figura sulla spiaggia ad alcune centinaia di metri di distanza. In un primo momento pensò si trattasse di Vaygay, che era forse uscito in fretta dalla stanza degli esami e veniva a portarle buone notizie. Ma chiunque fosse, non indossava la tuta del Progetto Macchina. Inoltre, sembrava qualcuno di più giovane, di più forte. Fece per afferrare il teleobiettivo e per qualche ragione esitò. Si rimise in piedi, proteggendosi gli occhi dal Sole. Solo per un momento, le era sembrato… Era chiaramente impossibile. Non avrebbero potuto approfittarsi in maniera così vergognosa di lei. Ma non potè trattenersi. Gli stava correndo incontro sulla sabbia compatta del bagnasciuga, con i capelli al vento. Egli appariva come nella fotografia più recente che Ellie aveva visto, energico, felice. Aveva la barba di un giorno. Gli si gettò tra le braccia singhiozzando. «Ciao, tesorino,» disse, accarezzando con la destra la nuca di Ellie. Era proprio la sua voce. La riconobbe all’istante. Ed il suo odore, la sua andatura, la sua risata. Il modo in cui la sua barba le irritava la guancia. Una combinazione perfetta per infrangere la padronanza che aveva di sé. Ebbe l’impressione di una pesante pietra tombale che veniva rimossa mentre i primi raggi di luce penetravano in un vecchio sepolcro quasi dimenticato. Deglutì e cercò di riprendere il controllo di sé, ma ondate d’angoscia apparentemente inesauribili scaturirono dall’intimo del suo essere e si mise a singhiozzare di nuovo. Lui le stava accanto pazientemente, rassicurandola con lo stesso sguardo che le aveva rivolto dalla base delle scale durante la sua prima discesa di piccina dai passi incerti. Aveva desiderato rivederlo più di ogni altra cosa, ma aveva soffocato il suo sentimento impossibile. Piangeva per tutti gli anni che li avevano tenuti lontani. Da ragazzina e da giovane donna sognava che era venuto a dirle che la sua morte era stata un errore. Era davvero bello. La sollevava tra le sue braccia. Ma scontava quelle brevi tregue con risvegli strazianti in un mondo in cui egli era assente già da molto. Eppure, lei aveva amato quei sogni e pagato il loro prezzo esorbitante quando la mattina seguente era obbligata a riscoprirne la perdita e a provare di nuovo un dolore cocente. Quei momenti illusori erano tutto quello che le era rimasto di lui. E adesso era lì: non un sogno o un fantasma, ma in carne e ossa. O quasi. L’aveva chiamata dalle stelle, e lei era venuta. Lo strinse con tutta la sua forza. Sapeva che era un trucco, una ricostruzione, una simulazione, ma era perfetto. Per un momento lo tenne per le spalle a distanza. Era veramente perfetto. Era come se suo padre, morto molti anni prima e salito in Cielo, fosse riuscito per quella via poco ortodossa a ricongiungersi a lei. Singhiozzò e l’abbracciò ancora una volta. Ci volle un altro minuto per riuscire a calmarsi. Se si fosse trattato di Ken, per esempio, avrebbe potuto almeno baloccarsi con l’idea che un altro dodecaedro — forse una Macchina russa riparata — avesse compiuto un viaggio dalla Terra al centro della Galassia. Ma non si poteva considerare una tale possibilità neppure per un attimo. I suoi resti stavano decomponendosi in un cimitero accanto a un lago. Si asciugò gli occhi, ridendo e piangendo nello stesso tempo. «Allora, a che devo questa apparizione, alla robotica o all’ipnosi?» «Sono un prodotto o un sogno? Lo puoi chiedere per qualunque cosa.» «Anche oggi, non passa settimana che io non pensi che darei qualsiasi cosa solo per trascorrere ancora alcuni minuti con mio padre.» «Beh, eccomi qui,» disse lui allegramente con le mani alzate, facendo un mezzo giro per assicurarla che c’era anche la sua schiena. Ma era così giovane, certamente più giovane di lei. Era morto a soli trentasei anni. Forse quello era il loro modo di placare i suoi timori. Se era così, erano molto… premurosi. Lo accompagnò indietro verso i suoi pochi averi, con un braccio attorno alla vita. Certo lui sembrava abbastanza reale. Se c’erano ingranaggi e circuiti integrati sotto la sua pelle, erano ben nascosti. «Allora, come stiamo andando?» chiese Ellie. La domanda era ambigua. «Voglio dire…» «Lo so. Ci sono voluti molti anni dalla ricezione del Messaggio al vostro arrivo qui.» «Classificate secondo velocità o precisione?» «Né l’una né l’altra.» «Intendi dire che non abbiamo ancora completato il test?» Non rispose. «Bene, spiegamelo.» Lo disse con una certa pena. «Alcuni di noi hanno speso degli anni per decifrare il Messaggio e costruire la Macchina. Non mi dirai di che si tratta?» «Sei diventata una vera attaccabrighe,» disse lui, come se fosse davvero suo padre, e come se stesse confrontando i suoi ultimi ricordi di lei con la sua presente personalità ancora incompleta. Le scompigliò con affetto i capelli. Ellie rammentò quel gesto che apparteneva alla sua infanzia. Ma come potevano, a trentamila anni luce dalla Terra, conoscere i gesti di affetto di suo padre in un Wisconsin lontano nel tempo e nello spazio? All’improvviso lo scoprì. «Sogni,» disse. «La notte scorsa, quando stavamo tutti sognando, siete penetrati nelle nostre teste, vero? Avete assorbito tutte le nostre conoscenze.» «Abbiamo solo fatto delle copie. Credo che tutto quello che c’era nei vostri cervelli sia ancora lì. Dacci un’occhiata. Dimmi se manca qualcosa,» egli sogghignò e proseguì. «C’erano tante cose che i vostri programmi televisivi non ci avevano detto. Oh, potevamo capire il vostro livello tecnologico abbastanza bene, e assai di più su di voi. Ma ci sono ben altre cose relative alla vostra specie, cose che non potevamo apprendere indirettamente. Ammetto che la possiate considerare una violazione della privacy…» «Stai scherzando.» «… ma abbiamo così poco tempo.» «Intendi dire che il test è finito? Abbiamo risposto a tutte le vostre domande mentre eravamo addormentati la notte scorsa? E allora? L’abbiamo superato sì o no?» «Non è così,» disse lui. «Non si tratta della sesta.» Ellie frequentava la sesta l’anno in cui lui era morto. «Non pensare a noi come a una sorta di sceriffi interstellari che abbattono civiltà fuorilegge. Consideraci piuttosto come l’Ufficio del Censimento galattico. Noi raccogliamo informazioni. So che pensate che nessuno abbia qualcosa da imparare da voi perché siete così arretrati tecnologicamente. Ma ci sono altri meriti in una civiltà.» «Quali meriti?» «Oh, la musica. La bontà. (Mi piace questa parola). I sogni. Gli uomini sono dei bravi sognatori, anche se non lo si potrebbe mai dedurre dalla vostra televisione. Ci sono culture in tutta la Galassia che commerciano in sogni.» «Operate uno scambio culturale interstellare? E’ tutto qui? Non-vi importa se qualche civiltà rapace e assetata di sangue sviluppa il volo spaziale interstellare?» «Ti ho detto che ammiriamo la bontà.» «Se i Nazisti si fossero impadroniti del mondo, del nostro mondo, e quindi avessero sviluppato il volo spaziale interstellare, non vi sareste intromessi?» «Saresti sorpresa di sapere come accada raramente qualcosa del genere. A lungo andare le civiltà aggressive distruggono se stesse, quasi sempre. E’ nella loro natura. Non possono farne a meno. In tal caso, il nostro compito consisterebbe nell’abbandonarle a loro stesse, nell’accertarci che nessuno si preoccupi per loro, nel lasciare che vadano incontro al loro destino.» «Allora, perché non ci avete lasciati stare? Non mi sto lamentando, bada! Sono solo curiosa di sapere come funziona l’Ufficio del Censimento galattico. La prima cosa che avete raccolto da noi è stata quella trasmissione con Hitler. Perché avete stabilito un contatto?» «Il filmato, naturalmente, era allarmante. Potevamo dire che vi trovavate in grossi pasticci. Ma la musica ci disse qualcos’altro. La musica di Beethoven ci disse che c’era speranza. I casi limite sono la nostra specialità. Pensammo che potevate usufruire di un piccolo aiuto. Veramente noi possiamo intervenire solo un po’. Capisci. Ci sono certe limitazioni imposte dalla causalità.» Si era accovacciato, per immergere le mani nell’acqua e ora se le stava asciugando sui pantaloni. «La notte scorsa, vi abbiamo guardato dentro. A tutti e cinque. C’è un sacco di roba lì dentro: sensazioni, ricordi, istinti, comportamento acquisito, intuizioni, follia, sogni, amori. L’amore è molto importante. Siete un interessante miscuglio.» «Tutto ciò in una sola notte di lavoro?» Ellie lo stava prendendo un po’ in giro. «Dovevamo affrettarci. Abbiamo un programma di lavoro piuttosto rigoroso.» «Perché, c’è qualcosa in vista?» «No, è solo che se non progettiamo una causalità consistente, le cose andranno per conto loro. Allora è quasi sempre peggio.» Ellie non aveva idea di ciò che intendesse dire. «‘Progettare una causalità consistente’. Mio padre non ha mai avuto l’abitudine di parlare così.» «Certo che sì. Non ti ricordi come ti parlava? Era un uomo istruito e fin da quando eri una ragazzina lui — io — ti parlava come a un suo pari. Non ti rammenti?» Ellie ricordava, ricordava. Pensò a sua madre nella casa di cura. «Che bel ciondolo,» disse lui proprio con quell’aria di paterna discrezione che lei gli aveva sempre attribuito nella sua immaginazione se fosse vissuto fino a vederla adolescente. «Chi te l’ha dato?» «Oh, questo,» disse lei sfiorando con le dita il medaglione. «Veramente viene da qualcuno che non conosco molto bene. Ha messo alla prova la mia fede… Lui… Ma tu lo devi sapere già.» Di nuovo quel sogghigno. «Voglio sapere quello che pensate di noi,» disse Ellie bruscamente, «quello che pensate davvero.» Lui non esitò un attimo. «Benissimo. Penso sia stupefacente come ve la siate cavata bene. Avete a malapena una teoria di organizzazione sociale, un sistema economico straordinariamente arretrato, nessuna comprensione del meccanismo della predizione storica, e una scarsissima conoscenza di voi stessi. Considerando la velocità con cui il vostro mondo sta mutando, è stupefacente che non vi siate ancora ridotti a pezzetti. Ecco perché non vogliamo considerarvi ancora un fallimento. Voi uomini avete una certa predisposizione all’adattabilità: almeno a breve termine.» «Questo è il punto, non è vero?» «Questo è un punto. Si può vedere che, dopo un po’, le civiltà con prospettive solo a breve termine sono sparite dalla circolazione. Realizzano anche i loro destini.» Ellie voleva chiedergli che cosa provasse francamente per gli uomini. Curiosità? Compassione? Niente del tutto? Rappresentavano soltanto una giornata di lavoro? Nel profondo del suo cuore — o qualunque organo interno equivalente possedesse — pensava di lei quello che lei pensava di… una formica? Ma non trovò la forza di sollevare la questione. Aveva troppa paura della risposta. Dall’intonazione della sua voce, dalle sfumature del suo modo di parlare, Ellie cercava di avere una visione della creatura che si celava sotto le spoglie di suo padre. Lei aveva una grandissima esperienza diretta di esseri umani; i padroni della Stazione quella di un giorno. Non riusciva a distinguere qualcosa della loro vera natura sotto quell’amabile e informativa facciata? No, non ci riusciva. Quanto al contenuto del suo discorso, naturalmente, non era suo padre, né pretendeva esserlo. Ma sotto ogni altro aspetto egli era prodigiosamente simile a Theodore F. Arroway, 1924–1960, venditore di ferramenta, sposo e padre affettuoso. Se non fosse stato per un continuo sforzo di volontà, sapeva che avrebbe soffocato di tenerezze quella… copia. Una parte di lei continuò a desiderare di chiedergli come erano state le cose da quando era salito in Cielo. Quali erano le sue vedute a proposito dell’Avvento e dell’Estasi? C’era qualcosa di speciale in preparazione per il nuovo millennio? C’erano culture umane che parlavano di una vita futura dei beati sulle vette di montagne o sulle nuvole, in caverne o oasi, ma non riusciva a trovarne una in cui se si fosse stati molto, molto buoni si sarebbe finiti, una volta morti, su una spiaggia. «Abbiamo tempo per qualche domanda prima… di quello che ci aspetta?» «Sicuro. Una o due, comunque.» «Raccontami del vostro sistema di trasporto.» «Posso fare di meglio,» disse lui. «Posso mostrartelo. Attenta, adesso!» Una massa nera simile a un’ameba si allargò dallo zenith, oscurando il Sole e il cielo azzurro. «E’ proprio un bel trucco,» disse Ellie senza fiato. La stessa spiaggia sabbiosa si trovava sotto i suoi piedi. Vi affondava le dita. Sulla sua testa… c’era il Cosmo. Si trovavano, a quanto sembrava, ben al di sopra della Via Lattea, guardando la sua struttura spiraliforme e precipitando verso di essa a un’impossibile velocità. Lui spiegava le cose con semplicità, servendosi del comune linguaggio scientifico di lei per descrivere l’immensa struttura a girandola. Le mostrò il braccio esterno di Orione in cui si trovava il Sole. All’interno, in ordine decrescente di importanza mitologica, si scorgevano il braccio del Sagittario, il braccio di Norma/Scutum e il braccio di Tre Kiloparsec. Apparve una rete di linee rette rappresentanti il sistema di trasporto che essi avevano usato. Sembrava una di quelle piantine illuminate della metropolitana parigina. Eda aveva avuto ragione. Ogni stazione si trovava in un sistema stellare con un doppio buco nero a bassa massa. Ellie sapeva che i buchi neri non potevano essere il risultato di un collasso stellare perché erano troppo piccoli. Forse erano primordiali, risalenti al Big Bang, catturati da una inimmaginabile astronave e rimorchiati alla loro stazione designata. O forse erano stati creati dal nulla. Voleva chiederglielo, ma il viaggio proseguiva incalzante. C’era un disco di idrogeno incandescente che ruotava circa al centro della Galassia e nel cui interno si trovava un anello di nubi molecolari che si dilatava verso l’esterno in dirczione della periferia della Via Lattea. Egli le mostrò i moti ordinati della gigantesca nube molecolare Sagittario B2, che per decenni era stata il terreno favorito di caccia per le molecole organiche complesse da parte dei suoi colleghi sulla Terra. Più vicino al centro, si imbatterono in un’altra gigantesca nube molecolare, e successivamente in Sagittario A West, un’intensa fonte radio che la stessa Ellie aveva osservato all’Argus. E nelle immediate adiacenze, proprio nel centro della Galassia, chiusi in un appassionato abbraccio gravitazionale c’erano un paio di immensi buchi neri. La massa di uno di essi era pari a quella di cinque milioni di soli. Fiumi di gas delle dimensioni di sistemi solari stavano inondando il suo interno. Due colossali — Ellie meditò sulle limitazioni dei linguaggi terrestri — due super-massicci buchi neri stavano orbitando l’uno attorno all’altro al centro della Galassia. Uno era stato riconosciuto, o almeno fortemente sospettato, ma due? La cosa non avrebbe dovuto manifestarsi come uno spostamento Doppler nelle righe dello spettro? Ellie immaginò un cartello sotto uno di essi con la scritta ENTRATA e un cartello sotto l’altro con la scritta USCITA. Al momento, l’entrata era in funzione; l’uscita era semplicemente là. Ed era dove si trovava la Stazione, la Gran Stazione Centrale: proprio al sicuro all’esterno dei buchi neri al centro della Galassia. I cicli erano resi brillanti da milioni di giovani stelle vicine; ma le stelle, i gas e la polvere venivano inghiottiti dal buco nero d’entrata. «Vai da qualche parte, vero?» chiese Ellie. «Naturalmente.» «Puoi dirmi dove?» «Certamente. Tutta quella roba finisce in Cygnus A.» Di Cygnus A Ellie sapeva qualcosa. Fatta eccezione soltanto per un vicino resto di supernova in Cassiopea, era la sorgente radio più potente nei cicli terrestri. Aveva calcolato che in un secondo Cygnus A produceva più energia del Sole in 40.000 anni. La sorgente radio si trovava alla distanza di 600 milioni di anni luce, ben al di là della Via Lattea, nel regno delle galassie. Come nel caso di molte sorgenti radio extragalattiche, due enormi getti di gas, disperdendosi a una velocità vicina a quella della luce, producevano un complesso intreccio di fronti d’urto Rankine-Hugoniot con il rarefatto gas intergalattico, e generavano nel processo un radio faro che splendeva radioso in quasi tutto l’universo. Tutta la materia in quell’enorme struttura del diametro di 500.000 anni luce stava riversandosi fuori da un minuscolo, quasi insignificante punto dello spazio esattamente a mezza via tra i getti. «State facendo Cygnus A?» Ricordava vagamente una notte d’estate nel Michigan quan-d’era una ragazzina. Aveva temuto di cadere in cielo. «Oh, non siamo solo noi. Si tratta di un… progetto di cooperazione di molte galassie. E’ quello cui ci dedichiamo soprattutto: opere di ingegneria. Solo… alcuni di noi hanno a che fare con le civiltà emergenti.» A ogni pausa, Ellie aveva provato una sorta di ronzio nella testa, circa nel lobo parietale sinistro. «Ci sono progetti di cooperazione tra galassie?» chiese. «Moltissime galassie, ciascuna con una specie di amministrazione centrale? Con centinaia di bilioni di stelle in ogni galassia. E allora quelle amministrazioni cooperano. Per rovesciare milioni di soli dentro Centaurus… pardon, Cygnus A? Sono sconvolta dall’immensità della cosa. Ma perché dovreste fare tutto ciò? Per quale scopo?» «Non devi pensare all’universo come a un deserto. Non lo è da bilioni di anni,» disse lui. «Pensa adesso più come… a un qualcosa di coltivato.» Di nuovo un ronzio. «Ma per quale ragione? Che cosa c’è da coltivare?» «Il problema di base è facilmente espresso. Adesso non lasciarti spaventare dalla grandezza. Sei un astronomo, dopo tutto. Il problema è che l’universo è in espansione, e non c’è materia; I sufficiente in esso ad arrestarne l’espansione. Dopo un po’, nessuna nuova galassia, nessuna nuova stella, nessun nuovo pianeta, nessuna nuova forma di vita, solo la stessa vecchia compagnia. Tutto si sta esaurendo. Una noia! Così stiamo sperimentando la tecnologia in Cygnus A per fare qualcosa di nuovo. Lo potresti chiamare un tentativo di rinnovamento urbano. Ma non ci limitiamo a questo. Più avanti potremmo voler circoscrivere un pezzo dell’universo e impedire allo spazio di diventare sempre più vuoto con il passare degli eoni. Aumentare la densità della materia è il modo per farlo, naturalmente. E’ un buon lavoro onesto.» Come gestire un negozio di ferramento nel Wisconsin. Se Cygnus A si trovava a 600 milioni di anni luce di distanza, allora gli astronomi sulla Terra — o in un punto qualsiasi della Via Lattea — la stavano vedendo come era stata 600 milioni di anni prima. Ma sulla Terra, 600 milioni di anni prima, di vita ce ne doveva esser stata ben poca, anche negli oceani. Loro erano antichi. Seicento milioni di anni prima, su una spiaggia come quella… eccetto che non c’erano granchi, gabbiani, palme. Ellie cercò di immaginare qualche microscopica pianta lambita dalle acque, mentre quegli esseri erano occupati con galactogenesi sperimentale e ingegneria cosmica preliminare. «Avete rovesciato materia all’interno di Cygnus A durante gli ultimi seicento milioni di anni?» «Beh, quello che avete scoperto con la radioastronomia era soltanto uno dei nostri primi test di fattibilità. Adesso siamo molto più avanti.» E a suo tempo, fra altre centinaia di milioni di anni, i radioastronomi terrestri — se ce ne fossero ancora — avrebbero scoperto un sostanziale progresso nella ricostruzione dell’universo attorno a Cygnus A. Ellie si armò di coraggio per ulteriori rivelazioni e si ripromise di non lasciarsi intimidire da loro. C’era una gerarchia di esseri su una scala che non aveva immaginato. Ma la Terra occupava un posto, aveva una certa importanza in quella gerarchla; non si sarebbero dati tanta pena per nulla. Il nero ritornò allo zenith e si dissolse; ritornarono il Sole e il cielo azzurro. La scena era la stessa: onde, sabbia, palme, la porta di Magritte, la microcamera, la fronda, e suo… padre. «Quelle nuvole interstellari in movimento e gli anelli vicino al centro della Galassia non sono dovuti a esplosioni periodiche qui attorno? Non è pericoloso collocare la Stazione qui?» «Episodiche, non periodiche. Accade soltanto su scala ridotta, niente di simile a quello che stiamo facendo in Cygnus A. Ed è controllabile facilmente. Sappiamo quando sta per arrivare e generalmente non facciamo altro che spostarci. Se è davvero pericoloso, trasportiamo la stazione da qualche altra parte per un certo periodo. E un procedimento di routine, capisci.» «Naturalmente. Routine. Avete costruito tutto? Le metropolitane, intendo dire. Voi e quegli altri… ingegneri delle altre galassie?» «Oh no, non abbiamo costruito niente di tutto ciò.» «Mi è sfuggito qualcosa. Aiutami a capire.» «Sembra sia la stessa cosa dovunque. Nel nostro caso, ci siamo civilizzati molto tempo fa su molti mondi diversi della Via Lattea. I primi di noi svilupparono il volo spaziale interstellare, e alla fine capitarono per caso su una delle stazioni di transito. Naturalmente, non sapevamo che cosa fosse. Non fummo sicuri che si trattasse di qualcosa di artificiale finché i primi di noi non ebbero abbastanza coraggio da entrarci.» «Che intendi con ‘noi’? Ti riferisci agli antenati della tua… razza, della tua specie?» «No, no. Siamo molte razze da molti mondi. Trovammo una grande quantità di metropolitane, di varie epoche, di vari stili e variamente decorate, e tutte abbandonate. La maggior parte di esse funzionavano ancora bene. Non abbiamo fatto altro che procedere a qualche riparazione e a qualche miglioria.» «Nessun altro prodotto di un’intelligenza? Nessuna città morta? Nessuna documentazione di quello che era successo? Nessun costruttore di sotterranea rimasto?» Lui scosse il capo. «Nessun pianeta industrializzato, abbandonato?» Egli ripetè il gesto. «C’era una civiltà galattica che ha deciso di andarsene senza lasciare traccia, a eccezione delle stazioni?» «E’ più o meno così. Ed è la stessa cosa anche in altre galassie. Bilioni di anni fa, se ne sono andati tutti da qualche parte. Non abbiamo la benché minima idea di dove siano finiti.» «Ma dove avrebbero potuto andare?» Scosse il capo per la terza volta, ma adesso molto lentamente. «Allora non siete…» «No, siamo soltanto guardiani,» disse lui. «Forse un giorno ritorneranno.» «Okay, solo un’altra,» implorò Ellie con l’indice levato davanti a sé come probabilmente era stata sua abitudine all’età di due anni. «Un’altra domanda.» «Va bene,» acconsentì lui pazientemente. «Ma ci restano soltanto pochi minuti.» Ellie lanciò di nuovo un’occhiata alla porta e represse un brivido quando un piccolo granchio quasi trasparente passò con la sua andatura sghemba. «Voglio sapere qualcosa dei vostri miti, delle vostre religioni. Che cosa vi riempie di timore reverenziale? O quelli che producono il numinoso sono incapaci di provarlo?» «Anche voi producete il numinoso. No, so quel che mi stai chiedendo. Certo che lo sentiamo. Riconosci che è difficile per me comunicartelo. Ma ti darò un esempio di quello che chiedi. Non dico che sia perfetto, ma ti offrirà un…» Si arrestò per un attimo e di nuovo lei sentì un ronzio, questa volta nel lobo occipitale sinistro. Le venne fatto di pensare che lui stesse cercando tra i suoi neuroni. Si era lasciato sfuggire qualcosa la notte scorsa? Se fosse stato così, ne sarebbe stata contenta. Voleva dire che non erano perfetti. «… assaggio del nostro numinoso. Riguarda il pi, il rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. Lo conosci bene, naturalmente, e sai anche che non puoi mai arrivare al calcolo completo del pi. Non c’è creatura nell’universo, per quanto intelligente possa essere, che sia in grado di calcolare il pi fino all’ultima cifra, perché non c’è un’ultima cifra, solo un infinito numero di cifre. I vostri matematici hanno fatto uno sforzo per calcolarlo fino a… «Di nuovo Ellie sentì il ronzio. «… nessuno di voi sembra saperlo… Diciamo fino alla decimi-liardesima posizione. Non ti sorprenderà sentire che altri matematici sono andati ancora oltre. Beh, alla fine — diciamo quando si è arrivati alla posizione di dieci alla ventesima potenza — succede qualcosa. Le cifre che variavano a caso spariscono, e per un tempo incredibilmente lungo non ci sono altro che unità e zeri.» Lui stava tracciando un cerchio sulla sabbia con l’alluce. Ellie attese un attimo prima di rispondergli. «E gli zeri e le unità alla fine si interrompono? Si ritorna a una sequenza casuale di cifre?» Notando un lieve segno di incoraggiamento da parte sua, Ellie andò oltre. «E il numero di zeri e di unità? E’ un prodotto di numeri primi?» «Sì, di undici di essi.» «Mi stai dicendo che c’è un messaggio in undici dimensioni celato in profondità all’interno del pi greco? Qualcuno nell’universo comunica con… la matematica? Ma… dammi una mano, sto davvero facendo fatica a capirti. La matematica non è arbitraria. Intendo dire che il pi deve avere lo stesso valore dovunque. Come si può nascondere un messaggio all’interno del pi? Fa parte della struttura dell’universo.» «Esattamente.» Lei lo fissò. «E’ persino meglio di così,» continuò lui. «Supponiamo che solo in un’aritmetica decimale appaia la sequenza di zeri e di unità, sebbene si debba riconoscere che qualcosa di singolare abbia luogo in ogni altra aritmetica. Supponiamo anche che gli esseri che hanno fatto per primi questa scoperta avessero dieci dita. Capisci che impressione se ne ricava? E’ come se il pi avesse atteso bilioni di anni che arrivassero dei matematici forniti di dieci dita con veloci calcolatori. Vedi, il Messaggio era indirizzato a noi, in un certo modo.» «Ma questa è solo una metafora, non è vero? Non si tratta in realtà di pi e dieci alla ventesima posizione? Non avete effettivamente dieci dita.» «No davvero.» Le sorrise di nuovo. «Allora, per Dio, che dice il Messaggio?» Egli si arrestò per un momento, sollevò l’indice e lo puntò in dirczione della porta. Un gruppetto di persone ne stava uscendo con aria eccitata. Erano in uno stato d’animo allegro, come se si trattasse di una scampagnata a lungo differita. Eda stava accompagnando una magnifica ragazza in sottana e camicetta dai vivaci colori e dai capelli coperti con cura dal gele traforato delle donne musulmane dello Yorubaland; era chiaramente contentissimo di vederla. Da foto che egli aveva mostrato, Ellie la riconobbe come la moglie di Eda. Sukhavati stava stringendo la mano a un giovanotto serio, dagli occhi grandi e sentimentali; si doveva trattare di Surindar Ghosh, lo studente di medicina, il marito di Devi morto da tanto tempo. Xi era impegnato in un’animata conversazione con un uomo di bassa statura dall’aria maestosa; aveva baffi spioventi e portava una tunica di broccato costellata di perle. Ellie se lo immaginò intento a sorvegliare personalmente la costruzione del modello funerario del Regno Medio, urlando istruzioni a coloro che versavano il mercurio. Vaygay conduceva una bambina di undici o dodici anni, con le trecce bionde che oscillavano mentre camminava. «Questa è la mia nipotina, Nina… più o meno. La mia Granduchessa. Avrei dovuto presentartela prima. A Mosca.» Ellie abbracciò la bambina. Era un vero sollievo per lei che Vaygay non fosse apparso con Meera, la spogliarellista. Ellie osservò la sua tenerezza nei confronti di Nina e decise che le piaceva più che mai. Da quando lo conosceva, egli aveva custodito gelosamente nel suo cuore il segreto di quell’affetto. «Non sono stato un buon padre per sua madre,» le confidò. «Non ho quasi mai tempo per andare a trovare Nina.» Ellie si guardò attorno. I padroni della Stazione avevano creato per ciascuno dei Cinque gli oggetti del loro amore più grande. Forse era soltanto per abbattere le barriere di comunicazione con un’altra specie, spaventosamente diversa. Ellie era contenta che nessuno di loro stesse chiacchierando allegramente con un’esatta copia di loro stessi. Che sarebbe successo se si fosse potuto fare ciò al ritorno sulla Terra? Che sarebbe accaduto se, a dispetto di tutte le nostre simulazioni e finzioni, fosse stato inevitabile apparire in pubblico con la persona più amata? Che prerequisito per un discorso sociale sulla Terra! Avrebbe cambiato ogni cosa. Ellie immaginò una falange di membri di un sesso attorno a un solitario membro dell’altro. O catene di persone. Cerchi. Le lettere «H» o «Q». Pigri otto. Si sarebbero potuti controllare gli affetti profondi con un’occhiata, solo guardandone la geometria, una sorta di relatività generale applicata alla psicologia sociale. Le difficoltà pratiche di un simile ordinamento sarebbero state considerevoli, ma nessuno sarebbe stato in grado di mentire in amore. I Guardiani mostravano, seppur educatamente, una certa fretta. Non c’era molto tempo per parlare. L’accesso alla camera d’equilibrio del dodecaedro era ora visibile, approssimativamente dove si era trovato al loro arrivo. Per simmetria, o forse per qualche legge di conservazione interdimensionale, la porta stile Ma-gritte era scomparsa. Ci fu una serie di presentazioni. Si sentì sciocca a spiegare in inglese all’imperatore Qin chi fosse suo padre. Ma Xi traduceva rispettosamente e tutti si stringevano solennemente la mano come se quello fosse il loro primo incontro, forse a un barbecue di periferia. La moglie di Eda era una considerevole bellezza, e Surindar Ghosh le stava dando più di un’occhiata casuale. Devi non sembrava farci caso; forse era semplicemente appagata dall’accuratezza dell’impostura. «Dove sei andata quando hai oltrepassato la soglia?» le chiese Ellie a bassa voce. «416 Maidenhall Way,» ella rispose. Ellie la guardò attonita. «Londra, 1973. Con Surindar.» Fece un cenno del capo nella sua dirczione. «Prima che morisse.» Ellie si chiese che cosa avrebbe trovato se avesse valicato quella soglia sulla spiaggia. Il Winsconsin alla fine degli anni Cinquanta, probabilmente. Lei non aveva seguito il programma previsto e così suo padre era venuto a trovarla. Lo aveva fatto più di una volta nel Wisconsin. Anche a Eda avevano raccontato di un messaggio racchiuso in un numero trascendente, ma nella sua storia non si trattava di pi greco o di e, la base dei logaritmi naturali, ma di una classe di numeri di cui lei non aveva mai sentito parlare. Con un’infinità di numeri trascendenti, non avrebbero mai saputo con certezza quale numero esaminare al loro ritorno sulla Terra. «Desideravo ardentemente rimanere e lavorarci,» disse a Ellie sommessamente, «e ho intuito che avevano bisogno di aiuto: per un modo di ragionare sulla decifrazione che non era venuto loro in mente. Ma penso sia qualcosa di molto personale per loro. Non vogliono dividerlo con altri. E per essere realistici, suppongo che non siamo abbastanza intelligenti per poter dar loro una mano.» Non avevano decifrato il messaggio contenuto nel pi greco? I padroni della Stazione, i Guardiani, i progettisti di nuove galas-sie non avevano scoperto un messaggio che si era trovato sotto il loro naso per una rotazione galattica o due? Il messaggio era così difficile o erano…? «E’ tempo di tornare a casa,» disse suo padre gentilmente. Era una cosa straziante. Non voleva andare. Cercò di fissare la fronda di palma. Cercò di fare ancora domande. «Che cosa intendi con ‘tornare a casa’? Vuoi dire che usciremo da qualche parte nel sistema solare? Come torneremo sulla Terra?» «Vedrai,» rispose lui. «Sarà interessante.» Le pose un braccio attorno alla vita, guidandola verso la porta aperta della camera d’equilibrio. Era come l’ora di andare a letto. Si poteva essere furbi, porre domande intelligenti, e forse si sarebbe potuti rimanere alzati fino a tardi. Di solito funzionava, almeno un po’. «La Terra adesso è collegata, vero? Da una parte e dall’altra. Se noi possiamo andare a casa, potete venir giù da noi in un batter d’occhio. Sai, questo mi rende terribilmente nervosa. Perché non interrompete il collegamento? Noi ci crederemo.» «Mi dispiace, tesorino,» rispose, come se avesse già prolungato in maniera vergognosa il suo momento di andare a letto. Era seccato per l’ora della nanna o perché erano impreparati a disinserire il tunnel? «Per un certo periodo almeno, sarà aperto soltanto per il traffico diretto verso l’interno,» egli disse. «Ma non pensiamo di usarlo.» A lei piaceva l’isolamento della Terra da Vega. Preferiva un intervallo di cinquantadue anni tra un comportamento inaccettabile sulla Terra e l’arrivo di una spedizione punitiva. Il collegamento tramite il buco nero era spiacevole. Potevano arrivare quasi istantaneamente, forse solo a Hokkaido, forse dovunque sulla Terra. Era un passaggio a ciò che Hadden aveva definito microintervento. A prescindere dalle assicurazioni che potevano fornire, ci potevano osservare più da vicino adesso. Ci si poteva scordare della visitina improvvisata ogni tre o quattro milioni di anni. Analizzò ulteriormente il proprio disagio. Come erano diventate… teologiche le circostanze. Cerano degli esseri che vivevano nel cielo, esseri enormemente intelligenti e potenti, esseri preoccupati per la nostra sopravvivenza, esseri che si aspettavano da noi un determinato comportamento. Essi rifiutavano di ammettere un ruolo simile, ma potevano chiaramente assegnare ricompense e punizioni, distribuire vita e morte ai miserabili abitanti della Terra. Che differenza c’era allora rispetto alla religione dei vecchi tempi? La risposta le venne in mente istantaneamente: era una questione di evidenza. Nei suoi videotape, nei dati che gli altri avevano acquisito, ci sarebbe stata un’evidenza innegabile dell’esistenza della Stazione, di quello che vi accadeva, del sistema di transito con il buco nero. Ci sarebbero state cinque storie indipendenti, che si confermavano a vicenda, convalidate da un’evidenza fisica irresistibile. Questo era un fatto, non una diceria e una formula magica. Ellie si voltò verso di lui e lasciò cadere la fronda. Senza dire una parola, egli si piegò e gliela restituì. «Sei stato molto generoso nel rispondere a tutte le mie domande. Posso rispondere a una delle tue?» «Grazie. Hai risposto a tutte le nostre domande la notte scorsa.» «E’ tutto? Nessun comandamento? Nessuna istruzione per i provinciali?» «Non funziona in questo modo, tesorino. Siete cresciuti adesso. Siete autonomi.» Piegò il capo, le rivolse quel suo sorriso e lei gli si gettò tra le braccia, con gli occhi che le si riempivano di nuovo di lacrime. Fu un lungo abbraccio. Alla fine, Ellie sentì che lui si stava liberando gentilmente dalle sue braccia. Era tempo di andare a letto. Immaginò di sollevare il suo indice per chiedergli di poter restare un minuto ancora. Ma non volle deluderlo. «Ciao, tesorino,» disse lui. «Esprimi a tuo madre tutto il mio amore.» «Abbi cura di te,» replicò lei con una vocina. Diede un ultimo sguardo alla spiaggia al centro della Galassia. Un paio di uccelli marini, procellarie forse, erano sospesi su una colonna d’aria ascendente. Restavano in volo quasi senza batter le ali. Proprio mentre stava per entrare nella camera d’equiliquio, si voltò e lo chiamò. «Che cosa dice il vostro Messaggio? Quello contenuto nel pi greco?» «Non lo sappiamo,» rispose con un accento di tristezza, muovendo alcuni passi verso di lei. «Forse è una sorta di accidente statistico. Ci stiamo ancora lavorando.» La brezza cominciò a soffiare scompigliandole ancora i capelli. «Beh, dacci un colpo di telefono quando avrete la soluzione,» disse Ellie. 21 CAUSALITÀ «Noi siamo per gli dei quello che sono le farfalle per i ragazzacci — Ci uccidono per passatempo.»      WILLIAM SHAKESPEARE, Re Lear, IV, 1, 36 «Il potente deve temere ogni cosa.»      PIERRE CORNEILLE, Cinna, Atto IV, Scena II Erano felicissimi di essere ritornati. Manifestarono con grida la loro eccitazione. Si levarono dalle loro poltrone, si abbracciarono e si diedero delle pacche sulle spalle. Avevano tutti le lacrime agli occhi. La loro missione aveva avuto successo ed erano ritornati superando senza incidenti tutti i tunnel. All’improvviso, tra scariche statiche, la radio cominciò ad annunciare il bollettino sulle condizioni della Macchina. I tre benzel stavano decelerando. La carica elettrica, che si era venuta creando, si stava dissolvendo. Dal commento radio era chiaro che il Progetto non aveva la benché minima idea di quel che era accaduto. Ellie si chiese quanto tempo fosse passato. Guardò l’orologio. Era trascorso almeno un giorno che li aveva portati proprio nell’anno 2000. Abbastanza a proposito. Oh, aspetta che sentano ciò che abbiamo da raccontare, pensò Ellie. In modo rassicurante, toccò il comparto in cui erano custodite le decine di videomicro-cassette. Come sarebbe cambiato il mondo, una volta distribuiti quei film! Lo spazio tra i benzel e attorno a essi era stato ripressurizzato. Si stavano aprendo le porte della camera d’equilibrio. Adesso ci si informava via radio sulle loro condizioni di salute. «Stiamo bene!» gridò Ellie nel suo microfono. «Fateci uscire. Non crederete a quello che ci è successo.» I Cinque uscirono felici dalla camera d’equilibrio, salutando espansivamente i loro compagni che avevano contribuito alla costruzione e al funzionamento della Macchina. I tecnici giappo- nesi li salutarono. I funzionari del Progetto si fecero loro intorno. Devi disse tranquillamente a Ellie: «Secondo me, ognuno indossa esattamente lo stesso abbigliamento di ieri. Guarda l’orribile cravatta gialla di Peter Valerian.» «Oh, porta sempre quella vecchia cosa,» replicò Ellie. «E’ un regalo di sua moglie.» Gli orologi indicavano le 15:20. L’attivazione aveva avuto luogo verso le tre del pomeriggio precedente. Quindi erano stati via un po’ più di ventiquattro… «Che giorno è?» chiese Ellie. La guardarono con aria interrogativa. C’era qualcosa che non andava. «Peter, per Dio, che giorno è?» «Ma che vuoi dire?» risposte Valerian. «E’ oggi, venerdì 31 dicembre, 1999. E’ san Silvetro. E’ quello che intendi dire? Ellie, stai bene?» Vaygay stava dicendo ad Archangelskij di lasciarlo cominciare dal principio, ma solo dopo essere rientrato in possesso delle sue sigarette. Funzionari del Progetto e rappresentanti dell’Associazione per la Macchina si stavano radunando attorno a loro. Ellie vide der Heer dirigersi verso di lei, fendendo la folla. «Dal vostro punto di vista, che cosa è successo?» gli chiese Ellie quando lui finalmente arrivò a portata di voce. «Nulla. Il sistema per creare il vuoto ha funzionato, i benzel si sono messi a girare, hanno accumulato una carica elettrica eccezionale, hanno raggiunto la velocità indicata, e poi si è avuto il procedimento inverso.» «Che cosa intendi con ‘procedimento inverso’?» «I benzel hanno rallentato e la carica si è dissolta. Il sistema è stato ripressurizzato, i benzel si sono arrestati e voi siete venuti fuòri. L’intera cosa ha richiesto forse venti minuti, e noi non potevamo parlarvi mentre i benzel stavano ruotando. Non vi siete accorti proprio di nulla?» Ellie rise. «Ken, ragazzo mio,» disse lei, «ho una bella storia per te.» Ci fu un party riservato al personale del progetto per celebrare l’Attivazione della Macchina e l’importante anno nuovo. Ellie e i suoi compagni di viaggio non vi presero parte. Le stazioni televisive erano piene di celebrazioni, parate, documentari, retrospettive, pronostici e discorsi ottimistici dei leader nazionali. Ellie vide un attimo del discorso del Venerabile Utsumi, beatifico come sempre. Ma non poteva oziare. Il consiglio d’amministrazione del Progetto aveva rapidamente concluso, in base ai frammenti delle loro avventure, che i Cinque avevano avuto tempo di raccontare dettagliatamente, che qualcosa non aveva funzionato. Vennero sottratti alle folle incalzanti di funzionari dei governi e dell’Associazione per un interrogatorio preliminare. I funzionari del Progetto spiegarono che si era ritenuto prudente interrogare separatamente i Cinque. Der Heer e Valerian si occuparono di lei in una piccola sala da conferenze. C’erano altri funzionari del progetto presenti, incluso il vecchio studente di Vaygay, Anatolij Goldmann. Ellie capì che Bobby Bui, che parlava russo, era presente per gli americani durante l’interrogatorio di Vaygay. Stettero ad ascoltarla educatamente, e Peter di quando in quando l’incoraggiava a parlare. Ma avevano difficoltà a comprendere la sequenza degli eventi. Gran parte di ciò che lei riferiva in qualche modo li preoccupava. La sua eccitazione non era contagiosa. Era arduo per loro capire che il dodecaedro se ne era andato per venti minuti, molto meno di un giorno, perché gli innumerevoli strumenti all’esterno dei benzel avevano filmato e registrato tutto quello che era successo e non avevano rivelato nulla di straordinario. Valerian spiegò che i benzel avevano raggiunto la loro velocità prescritta, che parecchi strumenti, che non si sapeva a che cosa servissero, avevano fatto muovere i loro indicatori, che i benzel avevano rallentato e si erano fermati, e che i Cinque erano usciti in uno stato di grande eccitazione. Ecco tutto ciò che era successo. Lui non disse esattamente «chiacchiere senza senso», ma Ellie potè sentire la sua preoccupazione. La trattavano con rispetto, ma lei sapeva che cosa stavano pensando: l’unica funzione della Macchina è stata quella di produrre in venti minuti una indimenticabile illusione, o di fare impazzire i Cinque. Ellie fece vedere loro le videomicrocassette, ognuna delle quali era etichettata con cura: «Sistema di anelli di Vega», per esempio, o «Impianto radio di Vega», «Sistema quintuplo», «Panorama stellare al centro della Galassia», e una che recava la dicitura «Spiaggia». Non contenevano nulla. Le cassette erano vergini. Non riusciva a comprendere che cosa non avesse funzionato. Aveva imparato con cura l’operazione del sistema della videomicrocamera e l’aveva usata con successo in prove effettuate prima dell’Attivazione della Macchina. Aveva persino fatto un calcolo sommario sulla lunghezza in piedi del materiale dopo che avevano lasciato il sistema di Vega. Ellie sprofondò ancor più nella disperazione quando si sentì dire che anche gli strumenti portati dagli altri non avevano funzionato. Peter Valerian voleva crederle, e der Heer pure. Ma era difficile per loro, pur con tutta la più buona volontà del mondo. La storia con cui i Cinque erano tornati appariva piuttosto inattesa e completamente priva di evidenza fisica. Inoltre, non c’era stato abbastanza tempo. Erano rimasti fuori del loro campo visivo per soli venti minuti. Non era quella l’accoglienza che si era aspettata. Ma confidava che tutto si sarebbe sistemato e chiarito. Per il momento era soddisfatta di rivivere l’esperienza nella sua mente e di buttar giù alcuni appunti dettagliati. Voleva esser sicura che non avrebbe dimenticato nulla. Sebbene un fronte estremamente freddo stesse spostandosi dalla Kamcatka, c’era ancora un tepore fuori stagione quando nel tardo pomeriggio del primo dell’anno molti voli straordinari giunsero all’aeroporto internazionale di Sapporo. Il nuovo Segretario americano della Difesa, Michael Kitz, e una squadra di esperti raccolti in fretta arrivarono a bordo di un aereo con la scritta «Stati Uniti d’America». La loro presenza venne confermata da Washington solo quando la storia stava per essere risaputa a Hokkaido. Il conciso comunicato stampa sottolineava che la visita era di routine, che non c’era crisi, che non c’era nessun pericolo, e che «nulla di straordinario era stato segnalato all’impianto per l’integrazione dei sistemi della Macchina a nord-est di Sapporo». Un Tu-120 era arrivato di notte da Mosca, portando, tra gli altri, Stefan Baruda e Timofei Gotsridze. Senza dubbio, nessuno dei due gruppi era contento di passare quel giorno festivo lontano dalle famiglie. Ma il tempo a Hokkaido costituì una piacevole sorpresa; era così caldo che le sculture di Sapporo si stavano sciogliendo, e il dodecaedro di ghiaccio era diventato un piccolo ghiacciaio quasi informe, con l’acqua che gocciolava dalle superfici arrotondate che erano state gli spigoli delle facce pentagonali. Due giorni dopo, si abbattè sulla regione una terribile ondata di freddo e tutto il traffico, anche quello costituito da veicoli con trazione sulle quattro ruote, venne interrotto nella zona dell’impianto. Tutti i collegamenti televisivi e in parte quelli radio vennero interrotti; apparentemente un ripetitore a microonde era stato abbattuto dal vento. Durante la maggior parte dei nuovi interrogatori, la sola comunicazione con il mondo esterno era costituita dal telefono. O forse, Ellie pensò, dal dodecaedro. Fu tentata di salire a bordo di nascosto e di far ruotare i benzel. Si abbandonò a questa fantasia con voluttà. Ma in realtà non c’era modo di sapere se la Macchina avrebbe mai funzionato di nuovo, almeno da quella parte del tunnel. Lui aveva detto di no. Si abbandonò di nuovo al ricordo della spiaggia. E di lui. Qualunque cosa fosse accaduta in seguito, una ferita nel profondo del suo essere si stava rimarginando. Poteva sentire i tessuti che si univano. Era stata la più costosa psicoterapia nella storia del mondo. E questo è estremamente significativo, pensò Ellie. Xi e Sukhavati vennero interrogati da rappresentanti delle loro nazioni. Benché la Nigeria non avesse sostenuto un ruolo significativo nell’acquisizione del Messaggio o nella costruzione della Macchina, Eda consentì abbastanza prontamente a un lungo colloquio con funzionari nigeriani. Ma fu superficiale in confronto agli interrogatori cui vennero sottoposti dal personale del progetto. Vaygay ed Ellie dovettero subire una serie di domande ancora più complesse da parte delle squadre ad alto livello inviate dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti con tale specifico intento. Dapprima, questi interrogatori americani e russi esclusero la presenza di stranieri, ma dopo che vennero presentati dei reclami tramite l’Associazione Mondiale per la Macchina, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica cedettero e le sedute vennero nuovamente intemazionalizzate. Kitz era incaricato dell’interrogatorio di Ellie, e considerando il breve preavviso che doveva aver ricevuto, era arrivato sorprendentemente ben preparato. Valerian e der Heer mettevano talvolta una buona parola per lei, e di quando in quando le rivolgevano una domanda intelligente. Ma quello era lo show di Kitz. Egli le disse che affrontava la sua storia in maniera scettica ma costruttiva, in quella che sperava fosse la migliore tradizione scientifica. Confidava che lei non avrebbe scambiato la franchezza delle sue domande per una personale animosità. Nutriva per lei il più grande rispetto. Dal canto suo, non avrebbe permesso che il suo giudizio venisse obnubilato dal fatto che era stato contro il Progetto Macchina fin dall’inizio. Ellie decise di lasciar passare incontestata quella patetica menzogna e cominciò la sua storia. Dapprima egli ascoltò attentamente, chiese di quando in quando qualche chiarimento, e si scusò delle interruzioni. Ma al secondo giorno simili cortesie sparirono. «Allora il nigeriano viene visitato dalla moglie, l’indiana dal marito defunto, il russo dalla graziosa nipotina, il cinese da un condottiero mongolo…» «Qin non era un Mongolo…» «… e lei, per Dio, ha ricevuto la visita del suo defunto padre che le dice che lui e i suoi amici sono stati impegnati a ricostruire l’universo, per Dio. ‘Padre nostro che sei nei cicli…’? Questa è pura religione. Questa è pura antropologia culturale. Questo è puro Freud. Non se ne accorge? Non solo lei dichiara che suo padre è ritornato dalla tomba, lei si aspetta veramente che noi crediamo che abbia fatto l’universo… ««Lei sta svisando ciò che…» «La smetta, Arroway. Non insulti la nostra intelligenza. Non ci ha presentato un briciolo di evidenza, e lei si aspetta che noi crediamo alla più balorda storia di tutti i tempi? Sa far di meglio. Lei è una donna intelligente. Come può immaginare di cavarsela così?» Lei protestò. Anche Valerian protestò; quel tipo di interrogatorio, disse, era una perdita di tempo. La Macchina veniva sottoposta a delicati test fisici in quel momento. Era così che si poteva controllare la validità della sua storia. Kitz fu d’accordo sull’importanza dell’evidenza fisica. Ma la natura della storia di Arroway, egli sostenne, era rivelatrice, faceva capire ciò che era successo in realtà. «L’incontro con suo padre in Gelo e tutto il resto, dottor Arroway, è significativo, perché lei è cresciuta nella cultura giudeo-cristiana. Lei è l’unica dei Cinque ad appartenere a tale cultura, e lei è l’unica che incontra suo padre. La sua storia è proprio troppo su misura. Non abbastanza fantasiosa.» Era peggio di quello che aveva pensato. Ellie provò un attimo di panico epistemologia): come quando la vostra auto non si trova dove l’avevate parcheggiata, o la porta che avevate chiuso la notte prima appare spalancata al mattino. «Lei pensa che ci siamo inventati tutto?» «Beh, le dirò, dottor Arroway. Quand’ero molto giovane, lavoravo nell’ufficio del pubblico ministero della contea di Cook. Quando avevano in mente di accusare qualcuno, rivolgevano tre domande.» Le contò sulle dita. «Ha avuto l’opportunità? Ha avuto il mezzo? Ha avuto il movente?» «Per fare che cosa?» Egli la guardò disgustato. «Ma i nostri orologi mostravano che eravamo stati via più di un giorno,» protestò lei. «Non so come posso esser stato così stupido,» disse Kitz, battendosi la fronte con la mano. «Lei ha demolito la mia tesi. Ho dimenticato che è impossibile mettere avanti di un giorno l’orologio.» «Ma questo implica un’intesa. Lei pensa che Xi abbia mentito? Lei pensa che Eda abbia mentito? Lei…» «Quello che penso è che dovremmo passare a qualcosa di più importante. Sa, Peter,» — Kitz si rivolse a Valerian — «sono persuaso che lei abbia ragione. Un primo abbozzo del rapporto valutativo dei materiali sarà qui domattina. Non perdiamo più tempo con delle… storie. La seduta è aggiornata a domani.» Der Heer non aveva detto una parola durante tutta la seduta pomeridiana. Le rivolse un incerto sorriso, e lei non potè fare a meno di notare quanto fosse diverso da quello di suo padre. Talvolta l’espressione di Ken sembrava implorarla. Ma a che fine lei non riusciva a capirlo; forse per farle cambiare la sua storia. Lui aveva presenti i ricordi dell’infanzia di Ellie e sapeva come avesse sofferto per suo padre. Chiaramente lui stava soppesando la possibilità che fosse impazzita. Per estensione, Ellie suppose, Ken stava anche considerando la probabilità che pure gli altri fossero diventati matti. Isteria di massa. Allucinazione comune. Folie a cinq. «Bene, eccolo qua,» disse Kitz. Il rapporto aveva circa un centimetro di spessore. Egli lo lasciò cadere sul tavolo, sparpagliando alcune matite. «Vorrà esaminarlo, dottor Arroway, ma posso darle un rapido riassunto. D’accordo?» Lei fece un cenno d’assenso. Aveva appreso da indiscrezioni che il rapporto era piuttosto favorevole al resoconto fatto dai Cinque. Ellie sperava che avrebbe posto fine a quell’assurdità. «Il dodecaedro apparentemente» — e diede particolare risalto all’avverbio — «è stato esposto a condizioni ambientali molto diverse da quelle dei benzel e delle strutture portanti. E’ stato apparentemente sottoposto a enormi sforzi di trazione e di compressione. E’ un miracolo che la cosa non sia finita in pezzi. Come è un miracolo che lei e gli altri non siate andati in pezzi nello stesso tempo. Inoltre, si è trovato in un ambiente fortemente radioattivo: c’è una radioattività artificiale a basso livello, tracce di raggi cosmici e così via. E’ un altro miracolo che siate sopravvissuti alle radiazioni. Nient’altro è stato aggiunto o sottratto. Non c’è traccia di erosione o di abrasioni sui vertici laterali che, stando alle sue dichiarazioni, continuavano a urtare contro le pareti dei tunnel. Non c’è neppure una raschiatura, che ci sarebbe stata se la Macchina fosse penetrata nell’atmosfera terrestre ad alta velocità.» «Allora questo non conferma la nostra storia? Michael, rifletta. Gli sforzi di trazione e di compressione — forze gravitazionali — sono esattamente ciò che ci si aspetta se si finisce in un classico buco nero. Lo si sa da cinquantanni almeno. Non so perché non li abbiamo sentiti, ma forse il dodecaedro ci ha protetto in qualche modo. E un’intensa radioattività proviene dall’interno del buco nero e dall’ambiente del centro galattico, una nota fonte di raggi gamma. C’è un’evidenza indipendente per i buchi neri, e c’è un’evidenza indipendente per un centro galattico. Non ce le siamo inventate quelle cose. Non capisco l’assenza di raschiature, ma ciò dipende dalla interazione di un materiale che abbiamo studiato superficialmente con un materiale che è completamente sconosciuto. Non mi sarei mai aspettata segni di attrito o di ablazioni, perché non affermiamo di essere rientrati attraverso l’atmosfera terrestre. Mi sembra che l’evidenza confermi quasi interamente la nostra storia. Qual è il problema?» «Il problema è che voi siete troppo intelligenti. Troppo intelligenti. Consideri la cosa dal punto di vista di uno scettico. Faccia un passo indietro e consideri il quadro d’insieme. C’è un gruppo di persone intelligenti in diversi paesi che pensa che il mondo abbia preso una brutta piega. Sostengono di ricevere un complicato Messaggio dallo spazio.» «Sostengono?» «Mi lasci continuare. Decifrano il Messaggio e annunciano le istruzioni per costruire una Macchina molto complessa del costo di trilioni di dollari. Il mondo si trova in una condizione particolare, le religioni sono tutte incerte sul millennio imminente, e tra la sorpresa generale la Macchina viene costruita. Ci sono modesti cambiamenti nel personale, e poi essenzialmente le stesse persone… ««Non si tratta delle stesse persone. Non è Sukhavati, non è Eda, non è Xi, e c’erano…» «Mi lasci proseguire. Essenzialmente le stesse persone prendono posto nella Macchina. Per il modo in cui la cosa è strutturata, nessuno può vederli e nessuno può parlare con loro dopo che la cosa viene attivata. Così la Macchina viene accesa e poi viene spenta. Una volta che è in funzione, non la si può fermare in meno di venti minuti. Okay. Venti minuti dopo, quelle stesse persone escono dalla Macchina, tutte felici e contente, con un’incredibile storia a proposito di un viaggio più veloce della luce all’interno di buchi neri fino al centro della Galassia e ritorno. Ora supponiamo che lei ascolti questa storia e manifesti solo la consueta circospezione. Chiede di vedere la loro evidenza. Foto, videotape, qualsiasi altro dato. Ma guarda caso, tutto è stato convenientemente cancellato. Sono in possesso di prodotti della civiltà superiore che si troverebbe al centro della Galassia? No. Oggetti ricordo? No. Una tavoletta di pietra? No. Animaletti? No. Nulla. La sola evidenza fisica è rappresentata da qualche leggero danno inferro alla Macchina. Allora lei si chiede: persone che erano così motivate e così intelligenti non potrebbero essere riuscite a imitare sforzi di trazione ed effetti di radiazioni, specialmente se potevano spendere due trilioni di dollari per falsificare l’evidenza?» Ellie rimase a bocca aperta. Ricordava l’ultima volta che le era capitato. Quella era una ricostruzione dei fatti veramente maligna e velenosa. Si chiese da che cosa vi fosse stato indotto Kitz. Doveva trovarsi davvero in difficoltà, pensò Ellie. «Non penso che nessuno crederà alla vostra storia,» proseguì lui. «Questo è l’inganno più elaborato — e più costoso — mai perpetrato. Lei con i suoi amici ha tentato di imbrogliare la Presidente degli Stati Uniti e di turlupinare il popolo americano, per non parlare di tutti gli altri governi della Terra. Dovete pensare davvero che tutti gli altri siano stupidi.» «Michael, questa è follia. Migliaia di persone hanno lavorato per acquisire il Messaggio, per decodificarlo, e per costruire la Macchina. Il Messaggio si trova su nastri magnetici, su tabulati e compact-disk in osservatori di tutto il mondo. Lei è convinto che ci sia un complotto che coinvolge tutti i radioastronomi del pianeta, e le compagnie aerospaziali e cibernetiche, e… ««No, non c’è bisogno di un complotto di tale portata. Tutto ciò di cui avete bisogno è un trasmettitore nello spazio che dia l’impressione di operare da Vega. Le dirò come penso abbiate fatto. Preparate il Messaggio e trovate qualcuno — qualcuno con una provata capacità di lancio — per spedirlo in cielo. Probabilmente come un’operazione secondaria di qualche altra missione. E in un’orbita che suggerisca il moto sideralè. Forse c’è più di un satellite. Allora il trasmettitore entra in funzione e voi siete tutti pronti nel vostro bell’osservatorio a ricevere il Messaggio, a fare la grande scoperta, e a spiegare a noi poveri imbecilli il significato di tutta la faccenda.» Era troppo persino per l’impassibile der Heer, che si agitò sulla sua poltrona. «Veramente, Mike…» cominciò, ma Ellie lo interruppe. «Non sono stata responsabile per la maggior parte della decodificazione. Molte persone vi erano coinvolte. Drumlin in special modo. All’inizio si era dimostrato profondamente scettico, com’è noto. Ma una volta arrivati i dati, Dave fu completamente convinto. Non lo si sentì fare nessuna riserva.» «Oh sì, povero Dave Drumlin. Il fu Dave Drumlin. L’avete sistemato. Il professore che non le era mai piaciuto.» Der Heer sprofondò ancor di più nella sua poltrona, e lei ebbe un’improvvisa visione di lui che intratteneva Kitz con pettegolezzi di seconda mano. Lo guardò più attentamente. Non poteva esserne certa. «Durante la decifrazione del Messaggio, lei non poteva fare tutto. C’era troppo da fare. Perciò trascurava questo e dimenticava quello. Drumlin stava invecchiando, si preoccupava che la sua studentessa di un tempo finisse per eclissarlo e si prendesse tutto il merito. All’improvviso egli vede come può entrare nell’affare, come può sostenere un ruolo di primo piano. Lei ha fatto appello al suo narcisismo, e l’ha incastrato. E se lui non fosse arrivato alla decifrazione, lei lo avrebbe aiutato. Nella peggiore delle ipotesi, lei avrebbe pelato tutte le tuniche della cipolla da sola.» «Lei sta dicendo che siamo stati in grado di inventare un simile Messaggio. Davvero, è un complimento pazzesco per Vay-gay e per me. E’ anche impossibile. Non si può fare. Lei può chiedere a ogni ingegnere competente se questa sorta di Macchina — con industrie sussidiarie nuovissime, componenti totalmente sconosciuti sulla Terra — abbia potuto essere inventata da alcuni fisici e radioastronomi nei loro giorni liberi. Quando immagina che avessimo tempo di inventare un simile Messaggio anche se avessimo saputo come fare? Consideri quanti bit di informazioni vi sono contenuti. Avrebbe richiesto anni.» «Lei aveva anni, mentre Argus non combinava nulla. Il progetto stava per essere chiuso. Drumlin, lei lo ricorda, stava premendo in tale dirczione. Così, proprio al momento giusto, lei trova il Messaggio. Allora non si parla più di dare un taglio al suo amato progetto. Credo che lei e quel russo abbiate inventato l’intera faccenda nel vostro tempo libero. Avevate degli anni.» «Questa è follia,» disse Ellie sommessamente. Valerian intervenne. Aveva conosciuto bene il dottor Arroway durante il periodo in questione. Lei aveva fatto un fecondo lavoro scientifico. Non aveva mai avuto il tempo necessario per una frode così complessa. Per quanto l’ammirasse, lui era d’accordo che il Messaggio e la Macchina erano ben al di là delle sue capacità: o delle capacità di chiunque altro. Di chiunque altro sulla Terra. Ma Kitz non si arrendeva. «E’ un giudizio personale, dottor Valerian. Quot homines, tot sententiae. Il dottor Arroway le piace. Piace anche a me. E’ comprensibile che lei voglia difenderla. Non me la prendo. Ma c’è un argomento decisivo. Lei non lo conosce ancora. Glielo esporrò.» Si sporse in avanti, guardando Ellie intensamente. Chiaramente era interessato a vedere come lei avrebbe reagito a ciò che stava per dire. «Il Messaggio si è interrotto nel momento in cui abbiamo attivato la Macchina. Nel momento in cui i benzel hanno raggiunto la velocità di crociera. Al secondo. In tutto il mondo. Ogni radio osservatorio con una linea ottica in direzione di Vega ha registrato la stessa cosa. Abbiamo evitato di dirvelo per non distogliervi dal vostro resoconto. Il Messaggio si è interrotto a metà di un bit. E’ stato veramente stupido da parte vostra.» «Non ne so nulla, Michael. Ma che c’è di strano se il Messaggio si è interrotto? Aveva raggiunto il suo intento. Abbiamo costruito la Macchina, e siamo andati… dove volevano che andassimo.» «Questo vi pone in una situazione particolare,» proseguì lui. All’improvviso Ellie capì dove voleva arrivare. Non se l’era aspettato. Lui stava discutendo di complotto, ma lei stava intuendo che si alludeva alla pazzia. Se Kitz non era pazzo, poteva esserlo lei? Se la nostra tecnologia può produrre sostanze in grado di dare allucinazioni, una tecnologia molto più avanzata poteva causare allucinazioni collettive particolareggiatissime? Solo per un momento le sembrò possibile. «Immaginiamo che sia la settimana scorsa,» stava dicendo lui. «Le onde radio che arrivano sulla Terra in questo istante dovrebbero essere state inviate da Vega ventisei anni fa. Esse impiegano ventisei anni ad attraversare lo spazio e raggiungerci. Ma ventisei anni fa, dottor Arroway, non c’era nessuna base Argus, c’erano l’LSD e le proteste per il Vietnam e lo scandalo Watergate. Siete così intelligenti, ma avete dimenticato la velocità della luce. Non c’è modo che l’attivazione della Macchina possa interrompere il Messaggio finché non siano trascorsi ventisei anni: a meno che in uno spazio ordinario non siate in grado di inviare un messaggio a una velocità superiore a quella della luce. Ed entrambi sappiamo che ciò è impossibile. Ricordo che lei si lamentava della stupidità di Rankin e di Joss che non sapevano che non si può viaggiare più veloci della luce. Mi sorprende che lei abbia pensato di potersela cavare così.» «Michael, ascolti. Il problema è come abbiamo potuto andare da qui a là e ritornare indietro praticamente in un baleno. Venti minuti, a dire il vero. Può essere acausale attorno a una singolarità. Non sono un’esperta in questo campo. Dovrebbe parlarne con Eda o Vaygay.» «Grazie per il suggerimento,» disse lui. «Lo abbiamo già fatto.» Ellie immaginò Vaygay sottoposto a un interrogatorio simile da parte del suo vecchio avversario Archangelskij o di Baruda, l’uomo che aveva proposto di distruggere i radiotelescopi e di bruciare i dati. Probabilmente loro e Katz avevano la stessa opinione sulla delicata faccenda che si trovavano a dover affrontare. Ellie sperò che Vaygay stesse tenendo duro. «Lei capisce, dottor Arroway. Sono certo che capisce. Ma permetta che mi spieghi di nuovo. Forse lei può mostrarmi dove ho tralasciato qualcosa. Ventisei anni fa, quelle onde radio stavano puntando sulla Terra. Adesso le immagini nello spazio tra Vega e qui. Nessuno può intercettare le onde radio dopo che hanno lasciato Vega. Nessuno può fermarle. Anche se il trasmettitore avesse saputo istantaneamente — attraverso il buco nero, se le fa piacere — che la Macchina era stata attivata, ci sarebbero voluti ventisei anni prima che il segnale cessasse di arrivare sulla Terra. I suoi Vegani non avrebbero potuto sapere ventisei anni fa quando la Macchina sarebbe stata attivata. E con la massima precisione. Avreste dovuto inviare indietro un messaggio in tempo per ventisei anni fa, perché il Messaggio si interrompesse il 31 dicembre 1999. Mi segue, non è vero?» «Sì, la seguo. Questo è un territorio totalmente inesplorato. Sa, non è chiamato cronotopo per nulla. Se sono in grado di fare dei tunnel attraverso lo spazio, suppongo che possano fare una sorta di tunnel attraverso il tempo. Il fatto che siamo ritornati un giorno prima dimostra che essi hanno almeno un tipo limitato di viaggio nel tempo. Perciò forse non appena abbiamo lasciato la Stazione, loro hanno inviato un messaggio ventisei anni a ritroso nel tempo per far cessare la trasmissione. Non so.» «Lei vede com’è conveniente per voi che il Messaggio si interrompa proprio adesso. Se stesse ancora trasmettendo, potremmo trovare il vostro piccolo satellite, intercettarlo e riportare indietro il nastro della trasmissione. Questa costituirebbe la prova definitiva di un imbroglio. Chiaro. Ma non potevate correre questo rischio. Così avete dovuto ricorrere alla balla del buco nero. Probabilmente imbarazzante per voi.» Appariva preoccupato. Era come una fantasia paranoide in cui un mosaico di fatti innocenti veniva riassemblato in un intricato complotto. I fatti in questo caso erano difficilmente banali, ed era logico che le autorità verificassero altre possibili spiegazioni. Ma l’interpretazione degli eventi da parte di Kitz era così maligna che rivelava, pensò Ellie, qualcuno veramente ferito, spaventato, tormentato. Nella mente di Ellie, la probabilità che tutto ciò fosse un’allucinazione collettiva diminuiva un po’. Ma la cessazione della trasmissione del Messaggio — se era accaduto come aveva detto Kitz — era preoccupante. «Ora mi dico, dottor Arroway, voi scienziati avevate l’intelligenza per escogitare tutto ciò, e la motivazione. Ma da soli non avevate i mezzi. Se non sono stati i russi a mettere in orbita quel satellite per voi, potrebbe essere stata una qualsiasi delle altre potenze missilistiche. Ma abbiamo indagato. Nessuno ha lanciato un satellite in volo libero nelle orbite adatte. Il che ci fa pensare allora a un privato in grado di effettuare dei lanci nello spazio. E la possibilità più interessante che ci è venuta in mente è rappresentata da un certo signor S.R. Hadden. Lo conosce?» «Non sia ridicolo, Michael. Le ho parlato di Hadden prima di recarmi sul ‘Matusalemme’.» «Volevo soltanto esser sicuro che concordavamo sulle cose fondamentali. Potrebbe essere andata così: lei e il russo architettate questa macchinazione. Riuscite a convincere Hadden a finanziare le prime fasi del piano: la progettazione del satellite, l’invenzione della Macchina, la crittografia del Messaggio, la contraffazione dei danni dovuti a radiazioni. In cambio, dopo che il Progetto Macchina si è messo in moto, Hadden può disporre di parte di quei due trilioni di dollari. Gli piace l’idea. Ci si può ricavare un enorme profitto, e, stando alla sua storia personale, dovrebbe essere contento di creare delle difficoltà al governo. Quando lei ha dei problemi nel decifrare il Messaggio, quando non riesce a trovare il sillabario, si reca addirittura da lui. Hadden le dice dove cercarlo. Anche questa è stata un’imprudenza. Sarebbe stato meglio che lo avesse scoperto da sola.» «E’ troppo imprudente,» intervenne der Heer. «Una persona davvero coinvolta in un imbroglio non avrebbe…» «Ken, mi sorprendi. Sei stato molto credulo, lo sai? Stai dimostrando esattamente perché Arroway e gli altri abbiano pensato che sarebbe stato intelligente chiedere il parere di Hadden. E accertarsi che noi sapessimo che lei era andata a trovarlo.» Rivolse la sua attenzione a Ellie. «Dottor Arroway, cerchi di considerare la cosa dal punto di vista di un osservatore neutrale…» Kitz continuò a rincarare la dose facendole balenare davanti nuove trame di fatti accaduti, riscrivendo interi anni della sua vita. Ellie non aveva mai giudicato Kitz uno sciocco, ma non aveva immaginato neppure che fosse dotato di una simile inventiva. Forse era stato aiutato. Ma la spinta emozionale per quella ricostruzione fantastica proveniva da Kitz stesso. Era pieno di gesti esuberanti e di fioriture retoriche. Un tale comportamento non faceva semplicemente parte del suo lavoro. Quell’interrogatorio, quell’interpretazione alternativa di eventi, avevano scatenato qualcosa di appassionato in lui. Dopo un momento, Ellie ritenne di aver capito di cosa si trattava. I Cinque erano ritornati indietro senza immediate applicazioni militari, senza un potere politico sfruttabile, ma solo con una storia incredibilmente bizzarra. E quella storia aveva certe implicazioni. Kitz era adesso padrone del più devastante arsenale della Terra, mentre i Guardiani stavano costruendo galassie. Lui era un discendente diretto di un succedersi di leader, americani e sovietici, che avevano progettato la strategia del confronto nucleare, mentre i Guardiani erano un amalgama di diverse specie provenienti da mondi separati che lavoravano insieme di comune accordo. La loro stessa esistenza era un tacito rimprovero. E poi c’era la considerazione della possibilità che il tunnel potesse essere attivato dall’altra estremità, senza che egli fosse in grado di impedirlo. Potevano essere sulla Terra in un istante. Come poteva Kitz difendere gli Stati Uniti in simili circostanze? Il suo ruolo nella decisione di costruire la Macchina — la cui storia sembrava venisse attivamente riscritta da lui — poteva essere interpretato da un tribunale ostile come abbandono del servizio. E che resoconto poteva fare Kitz agli extraterrestri della sua amministrazione del pianeta, e di quella dei suoi predecessori? Anche se nessun angelo vendicatore fosse uscito infuriato dal tunnel, se la verità del viaggio fosse saltata fuori, il mondo sarebbe cambiato. Stava già cambiando. Sarebbe cambiato molto di più. Di nuovo Ellie lo guardò con comprensione. Per un centinaio di generazioni, almeno, il mondo era stato guidato da persone assai peggiori di lui. Aveva avuto la sfortuna di arrivare a battere la palla proprio mentre le regole del gioco venivano riscritte. «… anche se lei è convinta di ogni particolare della sua storia,» stava dicendo Kitz, «non pensa che gli extraterrestri l’abbiano trattata male? Hanno approfittato dei suoi sentimenti più teneri assumendo le sembianze del suo caro papa. Non le dicono quel che stanno facendo, provocano la sovraesposizione di tutto il suo film, distruggono tutti i suoi dati, e non consentono neppure che lei lasci quella stupida fronda di palma lassù. Non manca niente di ciò che figurava nella nota di carico, fatta eccezione per un po’ di cibo, e non è ritornato niente che non compariva nella nota di carico, a parte un po’ di sabbia. Perciò, in venti minuti avete mandato giù in fretta un po’ di cibo e scaricato un po’ di sabbia fuori dalle vostre tasche. Siete ritornati indietro un nanosecondo, o poco più, dopo che eravate partiti, quindi per ogni osservatore neutrale non siete mai partiti. Ora, se gli extraterrestri volevano chiarire senza ombra di dubbio che voi eravate andati davvero da qualche parte, vi avrebbero riportati indietro un giorno dopo, o una settimana dopo. Giusto? Se non ci fosse stato nulla all’interno dei benzel per un po’, noi saremmo stati assolutamente certi che voi eravate andati da qualche parte. Se avessero voluto facilitarvi le cose, non avrebbero interrotto il Messaggio. Giusto? Questo getta una cattiva luce sulla faccenda, sa. Avrebbero dovuto capirlo. Perché mai avrebbero voluto mettervi nei pasticci? E avrebbero potuto convalidare la vostra storia in altri modi. Avrebbero potuto darvi qualcosa a loro ricordo. Avrebbero potuto lasciarvi riportare indietro i vostri film. Allora nessuno potrebbe sostenere che l’intero affare è un’intelligente montatura. Allora, com’è che non l’hanno fatto? Com’è che gli extraterrestri non confermano la vostra storia? Avete speso anni della vostra vita cercando di trovarli. Non apprezzano quello che avete fatto? Ellie, come può essere così sicura che la sua storia è realmente accaduta? Se, come lei sostiene, tutta la faccenda non èjin imbroglio, non potrebbe trattarsi di una… allucinazione? E’ doloroso prendere in considerazione tale eventualità, lo so. Nessuno vuole pensare di essere diventato un po’ pazzo. Considerando la tensione cui siete stati sottoposti, però, non ci vedo nulla di straordinario. E se l’unica alternativa è un complotto criminale… Forse ci vuole riflettere attentamente.» Ellie lo aveva già fatto. Più tardi, nel corso della stessa giornata, Ellie ebbe un colloquio privato con Kitz. Infatti, era stato proposto un accordo. Lei non aveva nessuna intenzione di accettarlo. Ma Kitz era preparato pure a tale possibilità. «Io non le sono mai piaciuto fin dall’inizio,» disse lui. «Ma passerò sopra alla cosa. Faremo qualcosa di veramente giusto. Abbiamo già diffuso un comunicato stampa che dice che la Macchina non ha funzionato quando abbiamo tentato di attivarla. Naturalmente, stiamo cercando di capire che cosa è andato male. Con tutti gli altri inconvenienti nel Wyoming e nell’Uzbekistan, nessuno mette in dubbio quest’ultimo. Poi, fra alcune settimane annunceremo che la situazione è ancora immutata. Abbiamo fatto del nostro meglio. La Macchina è troppo costosa per continuare a lavorarci. Probabilmente non siamo abbastanza intelligenti per poterla capire. Inoltre, c’è ancora qualche pericolo, dopo tutto. La Macchina può saltare per aria o qualcosa di simile. Così, in fondo, la cosa migliore da farsi è congelare il Progetto Macchina, almeno per un certo periodo. Non è che non ci abbiamo provato. Hadden e i suoi amici si opporranno, naturalmente, ma dato che ci è stato sottratto… ««Si trova a soli trecento chilometri sopra le nostre teste,» disse Ellie, indicando il cielo. «Oh, non ha appreso la notizia? Sol è morto quasi nel momento in cui veniva attivata la Macchina. Strano come sia capitato. Mi dispiace, avrei dovuto dirglielo. Ho dimenticato che lei gli era… molto amica.» Ellie non sapeva se doveva credere a Kitz. Hadden aveva una cinquantina d’anni e sembrava davvero in buona salute. Avrebbe approfondito la faccenda più avanti. «E che sarà di noi, nella sua fantasia?» chiese Ellie. «Noi? Chi ‘noi’?» «Noi. Noi cinque. Quelli che sono saliti a bordo della Macchina che lei sostiene non abbia mai funzionato.» «Oh, dopo un altro breve interrogatorio sarete liberi di andarvene. Non credo che nessuno di voi sarà così stupido da raccontare in giro questa storia assurda. Ma solo per ragioni di sicurezza stiamo preparando delle cartelle psichiatriche su voi cinque. Profili. Semplici annotazioni. Siete sempre stati un po’ ribelli, arrabbiati con il sistema: in qualsiasi sistema siate cresciuti. I Va bene. E’ una bella cosa essere indipendenti. Noi incoraggiamo l’indipendenza, specialmente negli scienziati. Ma la tensione degli ultimi anni è stata logorante, non proprio distruttiva, ma lo-Igorante. In modo particolare per i dottori Arroway e Lunacarskij. IPer prima cosa sono stati impegnati nel ritrovamento del Messaggio, nella sua decifrazione e nell’opera di persuasione dei go-T verni a costruire la Macchina. Poi, problemi di costruzione, sabotaggio industriale, l’esperienza di un’Attivazione che non porta da nessuna parte… E’ stata dura. Sempre lavoro e nessuna distrazione. E gli scienziati hanno i nervi tesi al massimo comunque. Se siete stati tutti un po’ sconvolti dal fallimento dell’impresa, avrete la simpatia dell’opinione pubblica. Comprensibile. Ma nessuno crederà alla vostra storia. Nessuno. Se vi comporterete bene, non c’è ragione che le cartelle debbano mai essere messe in circolazione. Sarà chiaro che la Macchina si trova ancora qui. Non appena verrano riaperte le strade, faremo venire alcuni reporter a fotografarla. Mostreremo loro che la Macchina non è andata da nessuna parte. E l’equipaggio? L’equipaggio è naturalmente deluso. Forse un po’ demoralizzato. Non se la sentono ancora di parlare con la stampa. Non crede che sia un buon piano?» Kitz sorrise. Voleva che lei riconoscesse la bellezza di quello che aveva escogitato. Ellie non disse nulla. «Non pensa che siamo molto ragionevoli, dopo aver speso due trilioni di dollari per quel mucchio di merda? Avremmo potuto rinchiuderla per tutta la vita, Arroway. Ma la lasciamo libera. Lei non deve neppure pagare una cauzione. Mi pare che ci stiamo comportando da veri gentiluomini. E’ lo Spirito del nuovo millennio. E il Machindo.» 22 GILGAMESH «Ciò che mai ritornerà è quanto addolcisce la vita.»      EMILY DICKINSON, Poesia numero 1741 In quel tempo — annunziato dovunque come l’Alba di una Nuova Epoca — un funerale nello spazio era una costosa consuetudine. Tale tipo di esequie, presente sul mercato a un livello concorrenziale, faceva gola soprattutto a coloro che, nel passato, avrebbero chiesto che le loro ceneri venissero sparse sulla natia contea o almeno sulla cittadina in cui avevano iniziato la loro fortuna. Ma adesso si poteva fare in modo che i propri resti circumnavigassero la Terra per l’eternità, o per un periodo che il mondo comune considerava tale. Bastava soltanto inserire un breve codicillo nel proprio testamento. Poi — supponendo naturalmente che si avessero i mezzi — una volta morti e cremati, le ceneri venivano compresse in una minuscola bara, quasi un giocattolo, su cui venivano incisi il nome e le date, un versetto commemorativo e il simbolo religioso a scelta. Assieme a centinaia di analoghe bare in miniatura, essa veniva spedita in cielo e scaricata a un’altezza intermedia, evitando accuratamente gli affollati corridoi di un’orbita geosincronica e la resistenza atmosferica di una bassa orbita terrestre. Così le ceneri giravano attorno al natio pianeta in mezzo alle fasce di radiazione di Van Allen, una tormenta di protoni dove nessun satellite con un po’ di buon senso avrebbe mai osato avventurarsi. Ma alle ceneri non faceva né caldo né freddo. A quelle altezze la Terra era avvolta dai resti dei suoi cittadini più ragguardevoli, e un visitatore ignaro proveniente da un mondo lontano avrebbe potuto credere a ragione di essere capitato in una cupa necropoli dell’età spaziale. La posizione rischiosa di quel cimitero spiegava l’assenza di visite da parte dei parenti addolorati. S.R. Hadden, contemplando quell’immagine, era rimasto sgomento di fronte alle modeste porzioni di immortalità che quei defunti eccellenti avevano finito per accettare. Tutte le loro parti organiche — cervello, cuore, tutto ciò che li distingueva come persone — erano state atomizzate nella loro cremazione. Non resta nulla dopo la cremazione, egli pensò, solo ossa polverizzate, troppo poco persino per una civiltà avanzatissima per ricostruire un essere umano dai suoi resti. E poi, per sovrappiù, la bara viene collocata proprio nelle fasce di Van Allen, dove anche le ceneri vengono fritte lentamente. Come sarebbe stato meglio se alcune delle cellule avessero potuto essere conservate. Vere cellule viventi, con il DNA intatto. Hadden pensò a una società in grado, dietro pagamento adeguato, di surgelare un frammento del tessuto epiteliale e di spedirlo in un’orbita alta, ben oltre le fasce di Van Allen, forse addirittura più in alto di un’orbita geosincronica. Non c’era ragione di aspettare di morire. Si poteva farlo subito, mentre lo si aveva in mente. In seguito, almeno, dei biologi molecolari alieni — o i loro colleghi terrestri di un lontano futuro — avrebbero potuto ricostruirci, per clonazione, più o meno dal nulla. Avremmo potuto fregarci gli occhi, stirarci e alzarci nell’anno decimilionesimo. O anche se non fosse stato fatto nulla con i nostri resti, ci sarebbero state ancora in vita copie multiple delle nostre istruzioni genetiche. Saremmo stati vivi in teoria. In entrambi i casi, si poteva dire che si sarebbe vissuti per sempre. Ma mentre Hadden meditava ulteriormente sulla faccenda, anche tale piano sembrava troppo modesto. Perché alcune cellule raschiate dalle piante dei piedi non erano veramente noi stessi. Nel migliore dei casi potevano ricostruire la nostra forma fisica. Ma questo non è esattamente come vivere. Se fossimo stati davvero seri, avremmo dovuto includere foto di famiglia, un’autobiografia minuziosamente dettagliata, tutti i libri e i nastri che ci erano piaciuti, e qualunque altra cosa che ci riguardasse, se fosse stato possibile. Le marche preferite di lozione dopo-barba, per esempio, o la coca cola dietetica. Era supremamente egoistico, Hadden lo sapeva e gli piaceva. Dopo tutto, l’epoca aveva prodotto un delirio escatologico prolungato. Era naturale pensare alla propria fine mentre tutti gli altri contemplavano la fine della specie o del pianeta o l’ascesa al cielo in massa degli eletti. Non ci si poteva aspettare che gli extraterrestri conoscessero l’inglese. Se dovevano ricostruirci, avrebbero dovuto sapere il nostro linguaggio. Perciò si doveva includere una sorta di traduzione, problema che appassionava Hadden. Era quasi l’inverso del problema di decifrazione del Messaggio. Tutto ciò richiedeva una capsula spaziale capiente, così capiente che non si sarebbe stati più obbligati a limitarsi a semplici campioni di tessuto. Si poteva spedire pure l’intero corpo. Se ci si poteva surgelare rapidamente dopo la morte, per così dire, era tanto di guadagnato. Forse sarebbe rimasta in efficienza una parte tale di noi che avrebbe consentito a chiunque ci trovasse di far qualcosa di meglio di una semplice ricostruzione. Forse avrebbero potuto riportarci in vita: naturalmente dopo aver stabilito di che cosa si era morti. Se si indugiava un po’, prima di farsi ibernare, però — perché, diciamo, i parenti non si erano resi conto che si era già morti — le prospettive di rinascita diminuivano. Ciò che avrebbe avuto veramente senso, pensava Hadden, sarebbe stato surgelare qualcuno immediatamente prima del decesso. Il che avrebbe reso l’eventuale richiamo in vita molto più probabile, anche se ci sarebbe stata verosimilmente una richiesta limitata per tale servizio. Ma allora, perché appena prima di morire? Supponiamo che si sapesse di avere solo un anno o due di vita; non sarebbe stato meglio essere ibernati immediatamente, Hadden riflette: prima che la carne andasse a male? A prescindere dalla natura della malattia devastante, pensò sospirando Hadden, poteva essere ancora incurabile una volta richiamati in vita; si poteva restare surgelati per un’età geologica ed essere risvegliati soltanto per morire subito di un melanoma o di un infarto di cui gli extraterrestri potevano essere completamente all’oscuro. No, egli concluse, c’era soltanto una realizzazione perfetta di quell’idea: qualcuno in ottime condizioni di salute avrebbe dovuto essere lanciato in un viaggio a senso unico alla volta delle stelle. Come beneficio incidentale, ci si sarebbe risparmiati l’umiliazione della malattia e della vecchiaia. Lontano dal sistema solare interno, la temperatura d’equilibrio del corpo sarebbe scesa quasi allo zero assoluto. Non sarebbe stata necessaria un’ulteriore refrigerazione. Controllo perpetuo assicurato. Gratuito. Seguendo tale logica, Hadden pervenne alla fase finale della sua speculazione: se ci volevano alcuni anni per raggiungere il freddo interstellare, si poteva pure restar svegli per godersi lo spettacolo e surgelarsi rapidamente solo dopo aver lasciato il sistema solare. Avrebbe anche ridotto al minimo la dipendenza eccessiva alla criogenia. Hadden aveva preso ogni ragionevole precauzione contro un imprevisto problema medico in orbita terrestre, diceva il rapporto ufficiale, ricorrendo persino alla disintegrazione sonica dei suoi calcoli biliari e renali prima di metter piede nel suo castello celeste. E poi se ne era andato all’altro mondo per uno shock anafilattico. Un’ape era uscita infuriata da un mazzo di fresie inviato da un’ammiratrice a bordo del «Narnia». Imprudentemente, la spaziosa farmacia del «Matusalemme» non si era rifornita dell’antisiero adatto. L’insetto era stato probabilmente immobilizzato dalla bassa temperatura nella stiva del «Narnia» e non era davvero da biasimare. Il suo corpicino mal ridotto era stato rimandato sulla Terra per essere esaminato da entomologi legali. L’ironia del miliardario stroncato da un’ape non era sfuggita all’attenzione degli editoriali giornalistici e dei sermoni domenicali. Ma in realtà, era tutto un imbroglio. Non c’era stata nessuna ape, nessuna puntura, e nessuna morte. Hadden rimaneva in eccellente salute. Invece, allo scoccare del nuovo anno, nove ore dopo che la Macchina era stata attivata, si accesero i motori a razzo di un veicolo ausiliario piuttosto grande che era attraccato al «Matusalemme». Esso raggiunse rapidamente la velocità di fuga dal sistema Terra-Luna. Hadden lo aveva battezzato «Gilgamesh». Hadden aveva trascorso la sua vita accumulando potere e meditando sul tempo. Trovava che più potere si aveva e più se ne bramava. Il potere e il tempo erano connessi, perché tutti gli uomini sono uguali nella morte. Ecco perché gli antichi re facevano costruire dei monumenti a loro ricordo. Ma i monumenti finivano consumati dal tempo, le virtù reali venivano avvolte dall’oblio, i nomi stessi dei sovrani venivano dimenticati. E, importantissimo, loro stessi erano morti stecchiti. No, questa soluzione era più elegante, più bella, più soddisfacente. Hadden aveva trovato un varco nel muro del tempo. Se avesse semplicemente annunciato i suoi piani al mondo, ci sarebbero state certo complicazioni. Se Hadden era surgelato a quattro gradi Kelvin a dieci bilioni di chilometri dalla Terra, qual era esattamente il suo stato legale? Chi avrebbe controllato la sua società? Quel modo di scomparire era molto più semplice. In un codicillo secondario di un elaborato testamento, aveva lasciato ai suoi eredi e cessionari una nuova società, specializzata in motori a razzo e criotecnica, che sarebbe stata chiamata «Immortality, Inc.». Non doveva pensare mai più alla faccenda. «Gilgamesh» non era provvisto di una radio. Non desiderava più sapere quello che era accaduto ai Cinque. Non voleva più notizie dalla Terra: nulla di incoraggiante, nulla di deprimente, nulla che gli ricordasse le passate, vane battaglie. Soltanto solitudine, pensieri elevati… silenzio. Se fosse accaduto qualche spiacevole imprevisto in un vicino futuro, il sistema criogenico del «Gilgamesh» sarebbe stato attivato in un batter d’occhio dallo scatto di un interruttore. Fino ad allora, ci sarebbe stata un’intera discoteca della sua musica favorita, e letteratura e videotape. Non sarebbe stato solo. In verità non aveva mai cercato troppo la compagnia. Yamagishi aveva preso in considerazione l’eventualità di accompagnarlo, ma all’ultimo momento si era tirato indietro; si sarebbe sentito perduto, disse, senza «staff». E in quel viaggio c’erano poche attrattive e uno spazio inadeguato per uno staff. La monotonia del cibo e le poche comodità avrebbero potuto scoraggiare un altro, ma Hadden sapeva di essere un uomo con un grande sogno. Delle comodità non gli importava proprio nulla. Nel giro di due anni, quel sarcofago volante sarebbe finito nella buca di potenziale gravitazionale di Giove, appena fuori delle sue fasce di radiazione, sarebbe stato catapultato attorno al pianeta e quindi scagliato nello spazio interstellare. Per un giorno Hadden avrebbe avuto una veduta ancor più spettacolare di quella che si poteva ammirare dalla finestra del suo studio sul «Matusalemme» — le tempestose nubi multicolori di Giove, il pianeta più grande. Se fosse stata solo una questione di panorama, Hadden avrebbe optato per Saturno e i suoi anelli. Preferiva gli anelli. Ma Saturno si trovava ad almeno quattro anni dalla Terra e, tutto considerato, era rischioso. Se si sta inseguendo l’immortalità, bisogna stare molto attenti. A quelle velocità, ci sarebbero voluti diecimila anni solo per arrivare alla stella più vicina. Una volta surgelati a quattro gradi sopra lo zero assoluto, però, si aveva moltissimo tempo. Ma un bel giorno, ne era sicuro, anche se avesse dovuto trascorrere un milione di anni, «Gilgamesh» sarebbe entrato per caso nel sistema solare di qualcun altro. O la sua barca funebre sarebbe stata intercettata nell’oscurità infrastellare, e altri esseri — molto avanzati, molto perspicaci — avrebbero preso il sarcofago a bordo e saputo quel che si doveva fare. La cosa non era stata mai davvero tentata prima. Nessuno che fosse mai vissuto sulla Terra aveva avuto una fine simile. Fiducioso che nella sua fine ci sarebbe stata la sua rinascita, Hadden chiuse gli occhi e incrociò per prova le braccia sul petto, mentre i motori brillavano di nuovo, stavolta per un tempo minore, e il veicolo brunito intraprendeva senza scosse il suo lungo viaggio alla volta delle stelle. Fra migliaia di anni, chissà cosa starà succedendo sulla Terra, pensò Hadden. Ma non era un suo problema. Non lo era mai stato, a dire il vero. Ma lui, lui sarebbe stato addormentato, iper-congelato, perfettamente conservato, con il suo sarcofago sfrecciarne nel vuoto interstellare, superando i faraoni, vincendo Alessandro, eclissando Qin. Aveva inventato la propria resurrezione. 23 RIPROGRAMMAZIONE «Non abbiamo dato retta a storie ingegnosamente inventate… ne siamo stati testimoni oculari.».      PIETRO, 1,16 «Guarda e ricorda. Considera questo cielo; esamina attentamente la pura aria marina, l’immensità sconfinata, la meta della preghiera. Parla adesso e parla nella volta consacrata. Che senti? Che risponde il cielo? I cicli sono occupati; non è la tua casa.»      KARLJAY SHAPIRO, Conferenza per esuli Le linee telefoniche erano state riparate, le strade riaperte e Una rappresentanza selezionata attentamente della stampa mondiale era stata autorizzata a dare un’occhiata alla base. Alcuni reporter e fotografi vennero accompagnati attraverso le tre aperture coincidenti dei benzel, attraverso la camera d’equilibrio, e all’interno del dodecaedro. Si registrarono delle telecronache in cui i reporter, seduti nelle poltrone che erano state occupate dai Cinque, riferivano al mondo del fallimento del primo coraggioso tentativo di attivare la Macchina. Ellie e i suoi colleghi vennero fotografati da una certa distanza, per mostrare che erano vivi e vegeti, ma nessuna intervista poteva essere ancora rilasciata. Il Progetto Alacchina stava valutando la situazione e considerando le sue future scelte. Il tunnel da Honshu a Hokkaido era di nuovo aperto, ma il corridoio dalla Terra a Vega era chiuso. Effettivamente non avevano verificato quella dichiarazione. Ellie si chiedeva se, una volta che i Cinque avessero definitivamente lasciato la località, il progetto avrebbe tentato di far girare ancora i benzel, ma credeva a quello che le era stato detto: la Macchina non avrebbe funzionato di nuovo; non ci sarebbe stato nessun ulteriore accesso ai tunnel per gli esseri della Terra. Si sarebbero fatte piccole intaccature nello spazio-tempo, anche se lo si fosse voluto; sarebbe stato completamente inutile se non ci fosse stato nessuno dall’altra parte pronto all’agganciamento. Ci è stata concessa una visione fugace, pensò Ellie, e poi siamo stati abbandonati in balia di noi stessi. Era possibile salvarsi? Infine, ai Cinque venne permesso di parlare tra loro. Ellie disse addio a tutti. Nessuno la biasimò per le cassette vergini. «Le immagini delle cassette vengono registrate per mezzo di campi magnetici, su nastro,» le fece presente Vaygay. «Un forte campo elettrico si accumula sui benzel ed esse, naturalmente, vengono rimosse. Un campo elettrico variabile nel tempo produce un campo magnetico. Equazioni di Maxwell. Credo che sia stato così che i tuoi nastri sono stati cancellati. Non è stata colpa tua. L’interrogatorio, cui era stato sottoposto, aveva sconcertato Vaygay. Non lo avevano apertamente accusato, ma avevano semplicemente suggerito che egli facesse parte di un complotto antisovietico in cui erano implicati scienziati occidentali. «Ti dico, Ellie, l’unica questione che resta aperta è l’esistenza di una vita intelligente al Politburo.» «E alla Casa Bianca. Non riesco a credere che la Presidente possa permettere a Kitz di comportarsi così. Si era tanto data da fare per il Progetto.» «Questo pianeta è governato da una manica di pazzi. Ricorda che cosa devono fare per arrivare dove sono. La loro prospettiva è così angusta, così… limitata. Alcuni anni. Nella migliore delle ipotesi, alcuni decenni. Si interessano solo del tempo in cui restano in carica.» Ellie pensò a Cygnus A, «Ma non sono certi che la nostra storia sia una menzogna. Non possono dimostrarlo. Perciò, dobbiamo convincerli. Nel loro intimo si chiedono: ‘Potrebbe esser vero?’ Alcuni addirittura vogliono che sia vero. Ma è una verità rischiosa. Hanno bisogno di qualcosa prossimo alla certezza… E forse noi possiamo procurarlo. Possiamo perfezionare la teoria gravitazionale. Possiamo compiere nuove osservazioni astronomiche per confermare quello che ci è stato detto: specialmente riguardo al centro galattico e a Cygnus A. Non interromperanno la ricerca astronomica. Inoltre, possiamo studiare il dodecaedro, se ce ne consentono l’accesso. Ellie, cambieremo le loro opinioni.» Difficile da fare se erano tutti pazzi, riflette Ellie. «Non vedo come i governi potrebbero convincere la gente che si tratta di un imbroglio,» disse lei. «Davvero? Pensa quante altre cose hanno fatto credere alla gente. Ci hanno persuaso che saremo al sicuro solo se avremo speso tutta la nostra ricchezza perché tutti sulla Terra possano essere uccisi in un istante: una volta che i governi abbiano deciso che ne è arrivato il momento. Io riterrei difficile far sì che la gente creda a qualcosa di così pazzesco. No, Ellie, sono abili persuasori. Devono dire soltanto che la Macchina non funziona, e che noi siamo diventati un po’ matti.» «Non credo che sembreremmo così matti se raccontassimo la nostra storia tutti insieme. Ma puoi aver ragione. Forse dovremmo prima cercare di trovare una qualche evidenza. Vaygay, non ti succederà nulla al… tuo ritorno?» «Che cosa possono farmi? Esiliarmi a Gorki? Riuscirei a sopravvivere; ho avuto la mia giornata alla spiaggia… No, sarò al sicuro. Tu e io abbiamo un trattato di reciproca sicurezza, Ellie. Finché sei viva, hanno bisogno di me. E viceversa, naturalmente. Se la storia è vera, saranno contenti che ci sia stato un testimone sovietico; alla fine lo grideranno ai quattro venti. E come i tuoi compatrioti, si chiederanno quali possano essere gli usi militari ed economici di quello che abbiamo visto. Non importa quello che ci dicono di fare. L’importante è che siamo vivi. In seguito, racconteremo la nostra storia — noi cinque — in maniera discreta, naturalmente. Da principio, soltanto a coloro in cui abbiamo fiducia. Ma quelle persone la racconteranno ad altre. La storia si diffonderà. Non ci sarà modo di fermarla. Presto o tardi, i governi riconosceranno quel che ci è accaduto nel dodecaedro. E fino ad allora saremo polizze di assicurazione l’uno per l’altro. Ellie, sono molto contento di tutto ciò. E’ la cosa più grande che mi sia mai successa.» «Da’ un bacio a Nina da parte mia,» disse Ellie un momento prima che lui partisse con il volo della notte per Mosca. Durante la colazione, Ellie chiese a Xi se fosse deluso. «Deluso? Di essere andato là» — sollevò gli occhi al cielo — «di averli visti? Sono un orfano della Lunga Marcia. Sono sopravvissuto alla Rivoluzione Culturale. Ho cercato di far crescere patate e barbabietole per sei anni all’ombra della Grande Muraglia. Tutta la mia vita è stata tempestosa. Conosco la delusione. Sei stato a un banchetto, e quando ritorni al tuo misero villaggio natio sei deluso che non celebrino il tuo ritorno? Questa non è delusione. Abbiamo perso una scaramuccia da poco. Esamina la… disposizione di forze.» Sarebbe partito di lì a poco per la Cina, dove aveva acconsentito a non rilasciare dichiarazioni riguardanti ciò che era successo nella Macchina. Ma sarebbe tornato a dirigere gli scavi a Xian. La tomba di Qin lo stava aspettando. Voleva vedere quanto l’Imperatore fosse somigliante a quella simulazione che aveva trovato al capolinea dei tunnel. «Perdonami. So che è un’impertinenza,» disse Ellie dopo un po’, «ma il fatto che fra tutti noi solo tu hai incontrato qualcuno che… In tutta la tua vita, non c’è stato nessuno che tu abbia amato?» Ellie avrebbe voluto formulare meglio la domanda. «Tutte le persone che ho amato mi sono state strappate. Cancellate. Ho visto gli imperatori del ventesimo secolo andare e venire,» rispose Xi, «Ho desiderato ardentemente qualcuno che non dovesse essere soggetto a revisioni, o a riabilitazioni, o a censure. Ci sono soltanto alcune figure storiche che non possono essere cancellate.» Stava guardando il ripiano del tavolo, rigirando il cucchiaino da tè. «Ho dedicato la mia vita alla Rivoluzione, e non ho rimpianti. Ma non so quasi nulla di mia madre e di mio padre. Non ho ricordi di loro. Tua madre è ancora viva. Ricordi tuo padre e lo hai ritrovato. Non sottovalutare la tua fortuna.» In Devi Ellie notò un’angoscia di cui non si era mai accorta prima. Pensò si trattasse di una reazione allo scetticismo con cui il consiglio di amministrazione del Progetto e i governi avevano accolto la loro storia. Ma Devi scosse il capo. «Che ci credano o no, non è molto importante per me. L’esperienza in se stessa è fondamentale. Trasformante. Ellie, ci è veramente accaduto. Era reale. La prima notte qui a Hokkaido, dopo il nostro ritorno, ho sognato che la nostra esperienza era un sogno, sai? Ma non lo è stata, non lo è stata. Sì, sono triste. La mia tristezza è… Sai, ho appagato il desiderio di una vita lassù, quando ho ritrovato Surindar, dopo tutti questi anni. Lui era esattamente come lo ricordavo, esattamente come me l’ero sognato. Ma quando l’ho visto, quando ho visto una simulazione così perfetta, ho saputo: quell’amore era prezioso perché mi era stato strappato, perché avevo rinunciato a tanto per sposare Surindar. Niente di più. L’uomo era uno stupido. Dieci anni con lui e ci saremmo ritrovati divorziati. Forse solo cinque. Ero così giovane e incosciente.» «Mi dispiace veramente,» disse Ellie. «Ne so qualcosa sul piangere un amore perduto.» «Ellie,» replicò lei, «tu non capisci. Per la prima volta nella mia vita di adulta, non piango Surindar. Ciò che rimpiango è la famiglia cui ho rinunciato per amor suo.» Sukhavati sarebbe ritornata a Bombay per alcuni giorni e poi avrebbe visitato il villaggio avito nella regione di Tamil Nadu. «Alla fine,» disse, «sarà facile convincerci che si è trattato soltanto di un’illusione. Ogni mattina, al risveglio, la nostra esperienza sarà più lontana, più simile a un sogno. Sarebbe stato meglio per noi tutti rimanere insieme, per rafforzare i nostri ricordi. Loro hanno capito questo pericolo. Ecco perché ci hanno portato alla spiaggia, qualcosa di aspetto terrestre, una realtà afferrabile. Non permetterò a nessuno di rendere meschina questa esperienza. Ricordati. E’ accaduto veramente. Non si trattava di un sogno. Ellie, non dimenticare.» Eda era, considerate le circostanze, molto rilassato. Lei ne capì presto il perché. Mentre lei e Vaygay venivano sottoposti a interminabili interrogatori, Eda aveva fatto dei calcoli. «Penso che i tunnel siano ponti di Einstein-Rosen,» disse. «La relatività generale ammette una classe di soluzioni, chiamate buchi di verme, simili a buchi neri, ma senza nessuna connessione evoluzionistica: non possono essere generati, come invece i buchi neri, dal collasso gravitazionale di una stella. Ma il tipo comune di buco di verme, una volta fatto, si espande e si contrae prima che qualche cosa possa attraversarlo; esso esercita disastrose forze gravitazionali e richiede anche — almeno agli occhi di un osservatore rimasto indietro — una quantità infinita di tempo per l’attraversamento.» Ellie non vedeva come la cosa rappresentasse un considerevole progresso, e gli chiese di essere più chiaro. Il problema chiave era quello di tener aperto il buco di verme. Eda aveva trovato una classe di soluzioni per le sue equazioni di campo che suggerivano un nuovo campo macroscopico, una sorta di tensione che poteva essere usata per impedire a un buco di verme di contrarsi completamente. Un simile buco di verme non avrebbe posto nessuno degli altri problemi dei buchi neri; avrebbe avuto sollecitazioni gravitazionali di gran lunga inferiori, accesso in un senso e nell’altro, tempi veloci di transito agli occhi di un osservatore esterno, e nessun campo interno di radiazioni dall’effetto devastante. «Non so se il tunnel sia al sicuro da piccole perturbazioni,» disse Eda. «Se non lo fosse, avrebbero dovuto costruire un sistema elaboratissimo di retroazione per controllare e correggere le instabilità. Non ne sono ancora sicuro. Ma almeno se i tunnel possono essere ponti di Einstein-Rosen, siamo in grado di dare una risposta quando ci dicono che siamo stati vittime di un’allucinazione.» Eda era impaziente di tornare a Lagos, ed Ellie potè vedere il biglietto verde delle Nigerian Airlines che spuntava da una tasca della sua giacca. Egli si chiedeva se sarebbe riuscito a elaborare completamente la nuova fisica implicita nella loro esperienza. Ma confessava di non sapere se sarebbe stato all’altezza del compito, soprattutto a causa di ciò che egli definiva come la sua età avanzata per la fisica teorica. Aveva trentotto anni. Non vedeva l’ora di riunirsi alla moglie e ai figli. Ellie lo abbracciò e gli disse che era orgogliosa di averlo conosciuto. «Perché usi il passato?» le chiese. «Mi rivedrai certamente. Ah, Ellie,» soggiunse, «faresti qualcosa per me? Ricorda tutto quello che è successo, ogni dettaglio. Mettilo per iscritto e spediscimelo. La nostra esperienza rappresenta una serie di dati sperimentali. Uno di noi può aver visto qualche particolare che è sfuggito agli altri, qualcosa di essenziale per una comprensione approfondita dell’accaduto. Mandami quello che scriverai. Ho chiesto agli altri di fare la stessa cosa.» Fece un cenno di saluto con la mano, sollevò la sua borsa sciupata e venne fatto accomodare nell’auto del Progetto in attesa. Stavano partendo per le loro rispettive nazioni ed Ellie soffrì come se la sua stessa famiglia venisse divisa, spezzata, dispersa. Anche lei aveva trovato l’esperienza trasformante. E come avrebbe potuto essere il contrario? Un demone era stato esorcizzato. Parecchi. E proprio quando si sentì più capace d’amore di quanto lo fosse mai stata, si ritrovò sola. La portarono via dalla base in elicottero. Durante il lungo volo per Washington a bordo dell’aereo governativo, Ellie dormì così profondamente che dovettero scuoterla perché si svegliasse quando gli inviati della Casa Bianca salirono sul velivolo nel corso di un breve scalo a Hickam Field, nelle Hawaii. Avevano stretto un patto. Ellie sarebbe ritornata all’Argus, anche se non più come direttore, e avrebbe potuto dedicarsi a ogni problema scientifico che le fosse piaciuto. Se voleva, avrebbe potuto restarci tutta la vita. «Non siamo irragionevoli,» aveva detto alla fine Kitz accettando il compromesso. «Se lei si presenta con solide prove, con qualcosa di realmente convincente, ci uniremo a lei nel fare l’annuncio. Diremo che le abbiamo chiesto di tener segreta la storia finché non ne fossimo stati assolutamente sicuri. Nei limiti del ragionevole, appoggeremo ogni ricerca che lei voglia fare. Se rendiamo nota la storia adesso, però, ci sarà un’iniziale ondata di entusiasmo e quindi gli scettici cominceranno a cavillare. Imbarazzerà lei e imbarazzerà noi. Molto meglio raccogliere le prove, se può.» Forse la Presidente aveva contribuito a fargli cambiare opinione. Era improbabile che Kitz fosse contento del compromesso. Ma in cambio lei non doveva dire nulla di ciò che era accaduto a bordo della Macchina. I Cinque avevano preso posto nel dodecaedro, avevano parlato tra di loro e poi erano usciti. Se si fosse lasciata sfuggire una parola di qualcos’altro, il falso profilo psichiatrico sarebbe finito in mano ai media e, seppur a malincuore, sarebbe stata licenziata. Ellie si chiedeva se avessero tentato di comperare il silenzio di Peter Valerian, o di Vaygay, o di Abonneda. Non riusciva a vedere come — senza uccidere i membri delle commissioni d’inchiesta delle cinque nazioni e dell’Associazione Mondiale per la Macchina — potessero sperare di tener nascosta la cosa per sempre. Era solo una questione di tempo. Perciò, Ellie concluse, stavano prendendo tempo. La sorprese la mitezza delle punizioni minacciate, ma le violazioni dell’accordo, se ci fossero state, non sarebbero finite sotto gli occhi di Kitz. Stava per lasciare la sua carica; di lì a un anno l’amministrazione Lasker sarebbe arrivata alla fine del suo secondo mandato. Kitz aveva accettato una compartecipazione in una società legale di Washington nota per la sua clientela costituita da fornitori della difesa. Ellie pensava che Kitz mirasse più in alto. Sembrava che non si preoccupasse di quello che lei poteva raccontare del centro galattico. Ciò che lo tormentava, ne era sicura, era la possibilità che il tunnel fosse ancora aperto verso la Terra, anche se non dalla Terra. La base di Hokkaido sarebbe stata presto smantellata. I tecnici sarebbero ritornati alle loro industrie e alle università. Che storie avrebbero raccontato? Forse il dodecaedro sarebbe stato esposto nella Città della Scienza di Tsukuba. Quindi, dopo un intervallo di tempo decente, quando l’attenzione del mondo si fosse spostata su altre faccende, forse ci sarebbe stata un’esplosione nel luogo della Macchina: nucleare, se Kitz fosse stato capace di escogitare una spiegazione plausibile per il fatto. Nel caso di un’esplosione nucleare, la contaminazione radioattiva avrebbe costituito un’eccellente ragione per dichiarare l’intera area zona vietata. Avrebbe almeno tenuto lontano dalla località i curiosi e avrebbe potuto staccare l’ugello. Probabilmente la suscettibilità giapponese per le armi nucleari, anche se fatte esplodere sotto terra, avrebbe costretto Kitz a optare per esplosivi tradizionali. Avrebbero potuto mascherare la cosa da disastro minerario, evento non raro nell’isola di Hokkaido. Ellie dubitava molto che una qualsiasi esplosione — nucleare o tradizionale — potesse disinnestare la Terra dal tunnel. Ma forse Kitz non stava immaginando nessuna di queste cose. Forse lei lo stava sottovalutando. Dopo tutto, anche lui doveva essere stato influenzato dal Machindo. Doveva avere una famiglia, degli amici, qualcuno che amava. Doveva averne colto almeno un soffio. Il giorno seguente, la Presidente la insignì della Medaglia nazionale della Libertà nel corso di una cerimonia pubblica alla Casa Bianca. Dei ciocchi ardevano in un caminetto incastonato in una parete di marmo bianco. La Presidente aveva investito moltissimo, politicamente ed economicamente, nel Progetto Macchina ed era decisa a presentarlo nella luce migliore davanti alla nazione e al mondo. Gli investimenti nella Macchina da parte degli Stati Uniti e di altre nazioni, venne sottolineato, avevano fruttato generosamente. Nuove tecnologie, nuove industrie stavano fiorendo, promettendo per la gente comune gli stessi benefici delle invenzioni di Thomas Edison. Avevamo scoperto di non essere soli, che intelligenze più avanzate di noi esistevano là fuori nello spazio. Loro avevano cambiato per sempre, disse la Presidente, la nostra concezione di noi stessi. Parlando a titolo personale — ma anche, ne era convinta, in nome della maggior parte degli americani — la scoperta aveva rafforzato la sua fede in Dio, di cui era stata rivelata ora l’attività di creatore di vita e di intelligenza su molti mondi, una conclusione che, secondo lei, sarebbe stata in armonia con tutte le religioni. Ma il bene più grande accordateci dalla Macchina, disse la Presidente, era lo spirito che aveva porato sulla Terra: la crescente reciproca comprensione all’interno della comunità umana, la sensazione di essere tutti passeggeri di un periglioso viaggio nello spazio e nel tempo, il traguardo di un’unità globale di intenti che era conosciuta adesso in tutto il pianeta come Machindo. La Presidente presentò Ellie alla stampa e alle telecamere, parlò della sua perseveranza per dodici lunghi anni, della sua genialità nello scoprire e nel decifrare il Messaggio, e del suo coraggio nel salire a bordo della Macchina. Nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto la Macchina. La signorina Arroway aveva rischiato volentieri la sua vita. Non era colpa del dottor Arroway se non era accaduto nulla quando la Macchina era stata attivata. Lei aveva fatto del suo meglio e meritava i ringraziamenti di tutti gli americani e di tutti i popoli della Terra. Ellie era una persona molto riservata. Nonostante la sua naturale reticenza, una volta presentatasi la necessità, si era sobbarcata il compito gravoso di spiegare il Messaggio e la Macchina. In verità aveva dimostrato con la stampa una pazienza che lei, la Presidente, ammirava in modo particolare. Al dottor Arroway doveva essere concessa ora un po’ di vera privacy perché potesse riprendere la sua carriera scientifica. C’erano stati comunicati stampa, spiegazioni, interviste con il Segretario Kitz e il consigliere scientifico der Heer. La Presidente sperava che la stampa avrebbe rispettato il desiderio del dottor Arroway che non ci fosse nessuna conferenza stampa. C’era tuttavia un’opportunità di scattare qualche foto. Ellie lasciò Washington senza poter determinare quanto ne sapesse la Presidente. La spedirono indietro su un piccolo jet lucente del Comando congiunto del ponte aereo militare e acconsentirono a fare uno scalo a Janesville, Sua madre indossava la sua vecchia vestaglia imbottita. Qualcuno le aveva messo un po’ di fard sulle guance. Ellie appoggiò il volto sul cuscino accanto a sua madre. Oltre a riacquistare un’esitante capacità di parola, l’anziana donna aveva recuperato l’uso del braccio destro abbastanza per dare alcuni deboli colpetti sulla spalla di Ellie. «Mamma, ho qualcosa da dirti. E’ una cosa straordinaria. Ma cerca di restare calma. Non voglio sconvolgerti. Mamma… ho visto papa. L’ho visto. Ti manda tutto il suo amore.» «Sì…» La vecchia lentamente annuì. «E’ stato qui ieri.» John Staughton, Ellie ne era al corrente, era stato nella casa di cura il giorno prima. Si era scusato di non poter accompagnare Ellie quel giorno adducendo il troppo lavoro, ma era possibile che Staughton, in quel momento, non volesse intromettersi. Tuttavia, le scappò con una certa irritazione: «No, no. Sto parlando di papa.» «Digli…» La vecchia parlava con difficoltà. «Digli, il vestito di chiffon. Fermarsi al pulilampo… ritornando a casa dal negozio.» Suo padre evidentemente gestiva ancora il negozio di ferra-menta nell’universo materno. E in quello di Ellie. La lunga curva del ciclone si estendeva ora da orizzonte a orizzonte, deturpando la distesa spinosa di cespugli del deserto. Ellie era contenta di essere tornata, contenta di avviare un nuovo programma di ricerca, anche se molto più modesto. Jack Hibbert era stato nominato direttore operativo della base Argus, ed Ellie si sentì sollevata dalle responsabilità amministrative. Poiché si era reso disponibile tanto tempo per i telescopi quando era cessato il segnale da Vega, c’era un’eccitante aria di progresso in una decina di sottodiscipline della radioastronomia trascurate a lungo. I suoi collaboratori non condividevano minimamente l’idea di Kitz di un Messaggio artefatto. Ellie si chiedeva che cosa stessero dicendo der Heer e Valerian ai loro amici e colleghi a proposito del Messaggio e della Macchina. Ellie dubitava che Kitz si fosse lasciato sfuggire una parola in proposito al di fuori dei recessi del suo ufficio al Pentagono, che presto si sarebbe reso libero. Ci si era recata una volta; una recluta della Marina — con una pistola nella fondina di cuoio e le mani dietro la schiena — faceva la guardia impettita all’entrata, nel caso che nella babele di corridoi concentrici qualche visitatore avesse ceduto a un impulso irrazionale. Willie aveva guidato lui stesso la Thunderbird dal Wyomin così l’auto l’attendeva al suo arrivo. Secondo accordi stabiliti, la poteva guidare soltanto all’interno della base, che era grande abbastanza per una bella corsa. Ma non più paesaggi del West Texas, non più guardie d’onore di conigli, non più escursioni in montagna per gettare uno sguardo a una stella del sud. Questo era il suo unico rimpianto riguardo alla segregazione. Ma le file di conigli, a ogni modo, d’inverno non si facevano vedere. All’inizio, un folto gruppo di giornalisti si aggirò nella zona sperando di rivolgerle una domanda da lontano o di fotografarla con il teleobiettivo. Ma lei restava risolutamente isolata. Il nuovo staff delle pubbliche relazioni era efficiente, persino un po’ duro, nello scoraggiare le richieste. Dopo tutto, la Presidente aveva chiesto privacy per il dottor Arroway. Nelle settimane e nei mesi seguenti, il battaglione di reporter si ridusse a una compagnia e poi a un plotone. Ora rimanevano soltanto una squadra dei più risoluti, soprattutto del «World Hologram» e di altri settimanali scandalistici, delle riviste millenaristiche, e un unico rappresentante di una pubblicazione che si chiamava «Scienza e Dio». Nessuno sapeva a quale setta appartenesse, e il suo reporter non lo diceva. Quando le storie vennero scritte, parlavano di dodici anni di lavoro appassionato, culminanti nell’importante, riuscita decifrazione del Messaggio cui aveva fatto seguito la costruzione della Macchina. Proprio mentre l’attesa del mondo si faceva più spasmodica, c’era stato il triste fallimento. La Macchina non era andata da nessuna parte. Naturalmente, il dottor Arroway era deluso, forse anche un po’ depresso. Molti editorialisti commentarono che quella pausa era la ben-venuta. Il ritmo della nuova scoperta e l’evidente necessità di serie meditazioni filosofiche e religiose rappresentavano una mistura così esplosiva che c’era bisogno di un periodo di ridimensionamento e di accurata rivalutazione. Forse la Terra non era ancora pronta per un contatto con civiltà aliene. Sociologi ed educatori dichiararono che la semplice esistenza di intelligenze extraterrestri più avanzate di noi avrebbe richiesto parecchie generazioni per essere assimilata nel modo dovuto. Era un duro colpo per l’orgoglio umano, dissero. C’era già abbastanza da fare. Nel giro di alcuni decenni avremmo capito molto meglio i principi che erano alla base della Macchina. Avremmo individuato l’errore fatto e avremmo riso della banalità della svista che ne aveva impedito il funzionamento al primo tentativo nel 1999. Alcuni commentatori religiosi sostennero che il fallimento della Macchina era una punizione per il peccato d’orgoglio, per l’arroganza degli uomini. Billy Jo Rankin in un discorso rivolto a tutta la nazione asserì che il Messaggio era venuto direttamente da un inferno chiamato Vega, un perentorio rafforzamento delle sue precedenti posizioni al riguardo. Il Messaggio e la Macchina, egli disse, erano una Torre di Babele aggiornata. Gli uomini in maniera insensata e tragica avevano sperato di raggiungere il Trono di Dio. Era esistita una città di fornicazione ed empietà, costruita migliaia di anni prima, chiamata Babilonia, che Dio aveva distrutto. Nel nostro tempo c’era un’altra città simile, con lo stesso nome. Quelli che si erano dedicati alla Parola del Signore avevano provveduto a esaudirne la volontà anche in questo caso. Il Messaggio e la Macchina rappresentavano ancora un altro attacco di perversità sferrato contro i giusti e i timorosi di Dio. Anche in quest’altro caso le demoniache iniziative erano state sventate: nel Wyoming da un incidente di ispirazione divina, nella Russia atea dalla Grazia divina che aveva confuso gli scienziati comunisti. Ma nonostante questi chiari moniti della volontà divina, proseguì Rankin, gli uomini avevano tentato per la terza volta di costruire la Macchina. Dio li aveva lasciati fare. Poi, tranquillamente, sottilmente, Egli aveva fatto in modo che la Macchina non funzionasse, aveva deviato l’intento diabolico, e aveva dimostrato ancora una volta la Sua sollecitudine e la sua preoccupazione per i suoi figli terrestri, ribelli e colpevoli, e a dire il vero, indegni della Sua magnanimità. Era tempo di imparare la lezione della nostra iniquità, della nostra infamia, e, prima dell’imminente millennio, del vero millennio che sarebbe cominciato il primo gennaio del 2001, di consacrare nuovamente il nostro pianeta e noi stessi a Dio. Le Macchine dovevano essere distrutte, completamente. La presunzione che la costruzione di una macchina più che la purificazione dei loro cuori potesse far sedere gli uomini alla destra di Dio doveva essere cancellata totalmente prima che fosse troppo tardi. Nel suo piccolo appartamento Ellie, dopo aver ascoltato tutto il discorso di Rankin, spense il televisore e riprese la sua programmazione. Le sole telefonate esterne che le venivano concesse erano quelle alla casa di riposo di Janesville, nel Wisconsin. Tutte le chiamate in arrivo, tranne quelle da Janesville, venivano censurate con le debite scuse. Ellie archiviava, senza aprirle, le lettere di der Heer, di Valerian, della sua vecchia compagna di college Becky Ellenbogen. Le furono recapitati prima per espresso e poi per corriere numerosi messaggi di Palmer Joss dal South Carolina. Ellie fu molto più tentata di leggere questi, ma non lo fece. Gli scrisse un appunto che diceva soltanto: «Caro Palmer, non ancora. Ellie» e lo impostò senza indirizzo del mittente. Non aveva modo di sapere se sarebbe stato consegnato. Uno special televisivo sulla sua vita, fatto senza il suo consenso, la descriveva come più solitària di Neil Armstrong, o addirittura di Creta Garbo. Ellie non si scompose. Aveva altro da fare e stava lavorando notte e giorno. Il blocco delle comunicazioni con il mondo esterno non si estendeva alla collaborazione puramente scientifica; attraverso la telecomunicazione asincrona a canale aperto lei e Vaygay organizzarono un programma di ricerca a lunga scadenza. Tra gli oggetti da esaminare c’erano la zona in prossimità di Sagittarius A al centro della Galassia e l’intensa sorgente radio extragalattica Cygnus A. I telescopi dell’Argus venivano impiegati come parte di un gruppo di dipoli in fase, in collegamento con i telescopi russi di Samarcanda. Insieme, gli strumenti russo-americani funzionavano come se facessero parte di un unico radiotelescopio della grandezza della Terra. Operando a una lunghezza d’onda di alcuni centimetri, potevano analizzare sorgenti di emissione radio piccole quanto il sistema solare interno anche se si fossero trovate alla distanza del centro della Galassia. Ellie si preoccupava che ciò non bastasse, dato che i due buchi neri orbitanti erano considerevolmente più piccoli di così. Eppure, un continuo programma di controllo poteva scoprire qualcosa. Ciò di cui avevano realmente bisogno, Ellie pensava, era un radiotelescopio lanciato da un veicolo spaziale dall’altra parte del Sole, che lavorasse in tandem con i radiotelescopi sulla Terra. Gli uomini potevano così creare un telescopio effettivamente delle dimensioni dell’orbita terrestre. Grazie a esso, secondo i calcoli di Ellie, potevano analizzare qualcosa della grandezza della Terra al centro della Galassia. O forse della grandezza della Stazione. Passava la maggior parte del suo tempo scrivendo, modificando programmi esistenti per il Cray 21, e stendendo un resoconto, il più dettagliato possibile, dei fatti salienti concentrati nei venti minuti di tempo terrestre dopo l’attivazione della Macchina. A metà della stesura, si rese conto che la sua relazione era un samizdat. Tecnologia da macchina per scrivere e carta carbone. Ellie rinchiuse in cassaforte l’originale e due copie, accanto a una copia ingiallita della Decisione Hadden; nascose la terza copia dietro un pannello sconnesso nell’alloggiamento per le apparecchiature elettroniche del Telescopio 49, e bruciò la carta carbone, che produsse un fumo nero e acre. Nel giro di sei settimane, aveva finito la riprogrammazione e proprio mentre i suoi pensieri tornavano a Palmer Joss, egli si presentò al cancello principale dell’Argus. Joss aveva avuto la via spianata grazie ad alcune telefonate di un assistente particolare della Presidente, con cui, naturalmente, Joss era stato in rapporto di amicizia per anni. Anche lì nel Southwest dove si usava un abbigliamento casual, egli indossava, come sempre, una giacca, una camicia bianca, e una cravatta. Ellie gli diede la fronda di palma, lo ringraziò per il medaglione, e nonostante tutti gli ammonimenti di Kitz a tener segreta la sua maniacale esperienza, gli raccontò immediatamente tutto. Adottarono l’abitudine dei suoi colleghi sovietici, che quando si doveva parlare di qualcosa di politicamente poco ortodosso, sentivano l’urgente necessità di una passeggiata corroborante. Di quando in quando, lui si arrestava e si chinava su di lei. Ogni volta, Ellie lo prendeva sottobraccio e proseguivano il cammino. Lui ascoltava in maniera comprensiva, intelligente, generosa: specialmente per qualcuno le cui dottrine dovevano essere attaccate alla base dal suo racconto… ammesso che vi desse credito. Dopo tutta la sua riluttanza all’epoca in cui era stato ricevuto il Messaggio, finalmente Ellie gli stava mostrando l’Argus. Joss era socievole ed Ellie era contenta di averlo rivisto. Avrebbe voluto esser stata meno preoccupata quando l’aveva incontrato l’ultima volta a Washington. Apparentemente per caso, essi salirono la stretta scala esterna di metallo che scavalcava la base del Telescopio 49. Lo spettacolo di 130 radiotelescopi — la maggior parte dei quali scivolavano sui loro binari — era unico sulla Terra. Nell’alloggiamento per le apparecchiature elettroniche, Ellie fece scorrere il pannello e ricuperò una busta voluminosa che recava il nome di Joss. Egli l’infilò nella tasca interna della giacca, dove provocò un visibile rigonfiamento. Ellie gli parlò dei programmi di osservazione di Sag A e Cyg A. Gli raccontò del suo programma di computer. «Porta via un sacco di tempo, anche con il Cray, calcolare il pi greco arrivando a qualcosa come a dieci alla ventesima potenza. E non sappiamo se quello che stiamo cercando si trovi nel pi. In un certo modo hanno detto che non si trattava del pi greco. Potrebbe essere la lettera e. Potrebbe essere uno della famiglia dei numeri trascendenti di cui hanno parlato a Vaygay. Potrebbe essere un numero completamente diverso. Perciò, una semplice approssimazione terra terra — il calcolo dei soliti numeri trascendenti all’infinito — è una perdita di tempo. Ma qui all’Argus abbiamo sofisticatissimi algoritmi per la decifrazione, progettati per trovare schemi regolari in un segnale, progettati per evidenziare e visualizzare tutto ciò che appare non casuale. Così ho riscritto i programmi…» Dall’espressione del volto di Joss, Ellie temeva di non essere stata chiara. Fece una piccola digressione nel suo monologo. «… ma non per calcolare le cifre in un numero come pi greco, stamparle e presentarle per un controllo. Non c’è abbastanza tempo per un’operazione simile. Invece, il programma va via veloce tra le cifre del pi e indugia per pause di riflessione quando c’è una qualche sequenza anomala di zeri e di unità. Capisce quello che sto dicendo? Qualcosa di non casuale. Per caso, ci saranno alcuni zeri e alcune unità, naturalmente. Il dieci per cento delle cifre sarà costituito da zeri, e un altro dieci per cento da unità. In media. Più cifre passeremo velocemente in rassegna, più lunghe saranno le sequenze di puri zeri e unità che potremmo ottenere per caso. Il programma sa quello che ci si aspetta statisticamente e fa attenzione soltanto a sequenze inaspettatamente lunghe di zeri e di unità. E non guarda soltanto in base dieci.» «Non capisco. Se lei considera una quantità sufficiente di numeri casuali, non otterrà ogni schema che vuole, semplicemente per caso?» «Certo, ma se ne può calcolare la probabilità. Se si ottiene un messaggio molto complesso molto presto, si sa che non può essere casuale. Quindi, ogni giorno nelle prime ore del mattino il computer lavora su questo problema. Non vi entra nessun dato proveniente dal mondo esterno. E finora nessun dato proveniente dal mondo interno ne viene fuori. Il computer sorvola l’espansione di serie ottimale per il pi greco e tiene d’occhio il susseguirsi delle cifre. Pensa agli affari suoi. Se non trova qualcosa, parla solo se interrogato. E come se stesse contemplandosi l’ombelico.» «Non sono un matematico, per Dio. Non potrebbe farmi un esempio?» «Certamente.» Ellie cercò invano nelle tasche della sua tuta un pezzo di carta. Pensò di infilargli la mano nella tasca interna della giacca per riprendere la busta che gli aveva appena dato e scriverci sopra, ma decise che era troppo rischioso lì all’aperto. Dopo un attimo, lui capì e tirò fuori un piccolo blocco a spirale. «Grazie. Pi greco comincia con 3,1415926… Può vedere che le cifre variano abbastanza a caso. Okay, un uno appare due volte nelle prime quattro cifre, ma continuando a procedere per un po’ si può calcolare la media. Ogni cifra — 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7,8,9 — appare quasi esattamente il dieci per cento delle volte quando si siano accumulate abbastanza cifre. Casualmente, si ottengono alcune cifre consecutive uguali — 4444, per esempio — ma non di più di quanto ci si potrebbe aspettare statisticamente. Ora, supponiamo di scorrere queste cifre e di trovare all’improvviso solo dei quattro. Centinaia di quattro, tutti in fila. La cosa potrebbe non portare con sé nessuna informazione, ma potrebbe anche non essere un caso statistico. Si potrebbero calcolare le cifre del pi greco per l’età dell’universo e, se le cifre si susseguono a caso, non si riuscirebbe mai ad andare così a fondo da ottenere un centinaio di quattro consecutivi.» «E’ come la ricerca che lei ha fatto per il Messaggio. Con questi radiotelescopi.» «Sì; in entrambi i casi cercavamo un segnale che è ben al di fuori del rumore, qualcosa che non può essere solo un caso statistico.» «Ma non deve essere obbligatoriamente un centinaio di quattro, vero? Potrebbe parlarci?» «Sicuro. Immagini che dopo un po’ si ottenga una lunga sequenza di soli zeri e unità. Allora, proprio come abbiamo fatto con il Messaggio, potremmo tirar fuori un film, se ce n’è uno all’interno. Capisce, potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa.» «Vuoi dire che si potrebbe decodificare un film nascosto nel pi greco e vedervi un groviglio di lettere ebraiche?» «Proprio così. Grandi lettere nere, scolpite nella pietra.» Joss la guardava con aria interrogativa. «Mi perdoni, Eleanor, ma non crede di essere un po’ troppo-indiretta? Non appartiene a un ordine silenzioso di monache buddiste. Perché non racconta semplicemente la sua storia?» «Palmer, se avessi una prova certa, parlerei. Ma se non ne ho nessuna, gente come Kitz direbbe che sto mentendo. O che sono vittima di allucinazioni. Ecco perché quel manoscritto si trova nella sua tasca interna. Lo sigillerà, lo daterà, lo legalizzerà e lo metterà in una cassetta di sicurezza. Se mi accadrà qualcosa, lei lo può consegnare al mondo. Le concedo la piena autorità di farne ciò che vuole.» «E se non le accadrà nulla?» «Se non mi accadrà nulla? Allora, una volta trovato quello che stiamo cercando, quel manoscritto confermerà la nostra storia. Se troviamo la prova di un doppio buco nero al centro della Galassia, o di qualche enorme costruzione artificiale nel Cygnus A, o un messaggio celato all’interno del pi greco, questo» — gli battè leggermente sul petto — «sarà la mia prova. Allora parlerò… Intanto, non lo perda.» «Io ancora non capisco,» confessò lui. «Sappiamo che c’è un ordine matematico nell’universo. La legge di gravita e tutto il resto. Come può essere diverso questo? Così c’è un ordine all’interno delle cifre del pi greco. E con ciò?» «No, non vede? Questo sarebbe diverso. Questo non sta soltanto dando il via all’universo con alcune precise leggi matematiche che determinano la fisica e la chimica. Questo è un messaggio. Chiunque sia a fare l’universo, nasconde messaggi nei numeri trascendenti in modo che saranno letti bilioni di anni dopo quando finalmente si sarà evoluta una vita intelligente. Criticavo lei e Rankin la prima volta che ci siamo incontrati per non capire ciò. ‘Se Dio voleva che sapessimo della sua esistenza, perché non ci ha mandato un messaggio chiaro?’ Vi chiesi. Ricorda?» «Lo ricordo molto bene. Lei pensa che Dio sia un matematico.» «Qualcosa del genere. Se è vero quello che ci è stato detto. Se non è un’impresa sbagliata, vana. Se c’è un messaggio nascosto nel pi greco e non uno degli infiniti altri numeri trascendenti. Ci sono tanti se.» «Sta cercando la Rivelazione nella matematica. Io conosco un modo migliore.» «Palmer, questo è l’unico modo. Questa è la sola cosa che convincerebbe uno scettico. Immagini che troviamo qualcosa. Non deve essere tremendamente complicato. Solo qualcosa di più ordinato di quanto accumuli per caso tante cifre nel pi greco. E tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Allora i matematici di tutto il mondo possono trovare esattamente lo stesso schema o messaggio o qualunque cosa sia. Allora non ci sono divisioni settarie. Tutti cominciano a leggere la stessa Scrittura. Nessuno potrebbe allora sostenere che il miracolo chiave della religione fosse il trucco di un prestigiatore, o che storici posteriori abbiano falsificato la documentazione, o che si tratti soltanto di isteria o di allucinazioni o di un genitore sostituto per quando diventiamo adulti. Tutti potrebbero essere credenti.» «Non può essere sicura di trovare qualcosa. Si può nascondere qui e far calcoli per sempre. O può uscire e raccontare la sua storia al mondo. Prima o poi sarà costretta a scegliere.» «Spero di non dover scegliere, Palmer. Prima la prova fisica, poi le dichiarazioni pubbliche. Altrimenti… Non vede come saremmo vulnerabili? Non mi riferisco a me stessa, ma…» Joss scosse il capo quasi impercettibilmente. C’era l’ombra di un sorriso agli angoli della sua bocca. Aveva scoperto una certa ironia nelle circostanze in cui si trovavano. «Perché è così impaziente che racconti la mia storia?» chiese Ellie. Forse lui la prese per una domanda retorica. A ogni modo, non rispose e lei proseguì. «Non pensa che ci sia stato uno strano… rovesciamento delle nostre posizioni? Eccomi qua, portatrice di una profonda esperienza religiosa che non posso dimostrare… davvero, Palmer, posso a malapena spiegarla. E lei invece, lo scettico incallito che cerca — assai meglio di quanto abbia mai fatto io — di essere gentile con la credulona.» «Oh no, Eleanor,» disse Joss, «non sono uno scettico. Sono un credente.» «Davvero? La storia che ho da raccontare non tratta esattamente di Castigo e Ricompensa. Non è proprio una storia di Avvento e di Estasi. Non c’è una parola su Gesù. Una parte del mio messaggio dice che non siamo al centro degli intenti del Cosmo. Quello che è accaduto a me ci fa sembrare tutti piccolissimi.» «Sì, è vero. Ma rende anche Dio grandissimo.» Ellie lo guardò per un attimo e proseguì. «La Terra gira attorno al Sole, ma, come lei sa, un tempo i poteri di questo mondo — i poteri religiosi, i poteri secolari — pretendevano che la Terra non si muovesse affatto. Era della massima importanza essere potenti. O almeno dare a vedere di esserlo. E la verità li fece sentire troppo piccoli. La verità li spaventò; indeboliva il loro potere. Così la soppressero. Quelle persone trovarono la verità pericolosa. E sicuro di sapere cosa comporti il credermi?» «Ho indagato, Eleanor. Dopo tutti questi anni, mi creda, riconoscosco la verità quando la vedo. Ogni fede che ammira la verità, che si sforza di conoscere Dio, deve avere abbastanza coraggio per accettare l’universo. Voglio dire il vero universo. Tutti quegli anni luce. Tutti quei mondi. Penso alla portata del tuo universo, alle opportunità che esso offre al Creatore e resto senza fiato. E molto meglio che imbottigliarLo in un unico piccolo mondo. Non mi è mai piaciuta l’idea della Terra intesa come poggiapiedi di Dio. Era troppo rassicurante, come una storia per bambini… come un tranquillante. Ma il suo universo possiede abbastanza spazio e tempo per la sorta di Dio in cui io credo. Io dico che lei non ha bisogno di nessun’altra prova. Ci sono già prove a sufficienza. Cygnus A e tutto il resto sono solo per gli scienziati. Lei pensa che sarà difficile convincere la gente comune che lei sta dicendo la verità. Io credo che sarà facilissimo. Lei pensa che la sua storia sia troppo particolare, troppo aliena. Ma io l’ho già sentita. La conosco bene. E scommetto che è lo stesso per lei.» Joss chiuse gli occhi e, dopo un momento, si mise a recitare: «Sognò e scorse una scala appoggiata sulla terra, la cui cima arrivava fino al cielo; e vide gli angeli di Dio che salivano e scendevano i gradini… Certamente il Signore si trova in questo luogo; e non lo sapevo… Questa non è altro che la Casa di Dio, e questo è il cancello del paradiso.» Si era lasciato un po’ trasportare come se stesse predicando alle folle dal pulpito di una grande cattedrale, e quando riaprì gli occhi lo fece con un piccolo sorriso di scuse. Passeggiavano lungo un grande viale, fiancheggiato da enormi radiotelescopi imbiancati che puntavano verso il cielo, e dopo un momento egli disse in un tono più discorsivo: «La sua storia è stata predetta. E’ accaduta prima. Da qualche parte dentro di lei, deve averla saputa. Nessuno dei suoi dettagli si trova nel Libro della Genesi. Naturalmente no. Come sarebbe possibile? Il racconto della Genesi andava bene per l’epoca di Giacobbe. Proprio come la sua testimonianza è adatta a quest’epoca, alla nostra epoca. La gente le crederà, Eleanor. Milioni di persone. In tutto il mondo. Lo so per certo…» Lei scosse il capo, e passeggiarono per un altro po’ in silenzio prima che lui proseguisse. «Benissimo, allora. Capisco. Lei si prende tutto il tempo di cui ha bisogno. Ma se c’è un modo per affrettare la cosa, lo faccia: per me. Manca meno di un anno al nuovo millennio.» «Capisco anch’io. Abbia pazienza con me ancora alcuni mesi. Se non avremo trovato qualcosa nel pi greco per allora, renderò noto ciò che è accaduto lassù. Prima dell’inizio di gennaio. Forse anche Eda e gli altri sarebbero disposti a parlare. Okay?» Ritornarono indietro in silenzio, dirigendosi verso l’edificio che ospitava l’amministrazione dell’Argus. L’impianto di irrigazione stava innaffiando il misero prato ed essi girarono attorno a una pozzanghera che, su quel terreno riarso, sembrava aliena, fuori posto. «Non è mai stata sposata?» chiese Joss. «No, mai. Suppongo di essere stata troppo occupata.» «Mai stata innamorata?» la domanda era diretta, prosaica. «In modo incompleto, cinque o sei volte. Ma» — Ellie lanciò un’occhiata al più vicino telescopio — «c’era sempre tanto rumore, il segnale era difficile da trovare. E lei?» «Mai,» rispose recisamente. Ci fu una pausa, e poi aggiunse con un debole sorriso, «ma ho fede.» Ellie decise di non indagare oltre e salirono le brevi rampe di scale per esaminare l’unità centrale di elaborazione dell’Argus. 24 LA FIRMA DELL’ARTISTA «Badate, vi dico un mistero; non dormiremo tutti, ma saremo tutti mutati.»      «Lettera ai Corinzi», 15, 51 «L’universo sembra… esser stato determinato e ordinato secondo il numero dalla previdenza e dalla mente del creatore di tutte le cose; poiché lo schema era stato fissato, come un abbozzo preliminare, dalla supremazia del numero preesistente nella mente del Dio creatore del mondo.»      NICOMACO DI GERASA, Aritmetica, 1,6 Ellie salì di corsa le scale della casa di cura e sulla veranda da poco ridipinta di verde e occupata da sedie a dondolo vuote disposte a intervalli regolari, vide John Staughton: curvo, immobile, con le braccia ciondoloni. Nella mano destra stringeva una borsa della spesa in cui Ellie potè vedere una cuffia trasparente per la doccia, un beauty-case a fiori, e due pantofole adorne di fiocchi rosa. «Se ne è andata,» disse lui, mentre il suo sguardo si staccava dal vuoto. «Non andare,» la pregò. «Non andare a vederla. Non avrebbe voluto farsi vedere da te in quello stato. Sai quanto ci teneva al suo aspetto. Comunque, non è lì.» Quasi istintivamente, per una lunga abitudine e per una serie di risentimenti non ancora cancellati, Ellie fu tentata di voltarsi e di entrare lo stesso. Era preparata, persino adesso, e sfidarlo per una questione di principio? Che cos’era il principio, esattamente? Dal suo volto disfatto non si poteva dubitare dell’autenticità del suo rimorso. Aveva amato sua madre. Forse, Ellie pensò, l’aveva amata più di lei e un senso straziante di colpa la sopraffece. Sua madre era stata in condizioni disperate così a lungo che Ellie aveva provato molte volte la scena di come avrebbe reagito quando fosse giunto il momento fatale. Ricordò com’era stata bella sua madre nella foto che Staughton le aveva mandato e all’improvviso, nonostante le sue prove di quel momento, fu travolta dai singhiozzi. Allarmato dalla sua pena, Staughton le si accostò per confortarla. Ma lei tese una mano, e con un visibile sforzo riacquistò il controllo di sé. Persino in quel momento, non riusciva a lasciarsi andare ad abbracciarlo. Erano estranei, legati tenuemente da un cadavere. Ma aveva avuto torto — lo sapeva nel profondo del suo essere — ad aver ritenuto Staughton in certo qual modo responsabile della morte di suo padre. «Ho qualcosa per te,» disse lui mentre frugava nella borsa. Tra le cose rimescolate, Ellie riuscì a vedere un borsellino di finta pelle e un portadentiera di plastica. Fu costretta a distogliere lo sguardo. Finalmente lui si raddrizzò, stringendo una busta sgualcita. «Per Eleanor,» c’era scritto. Riconoscendo la scrittura di sua madre, Ellie si mosse per afferrarla. Staughton fece un passo indietro allarmato, sollevando la busta all’altezza del viso come se lei stesse per percuoterlo. «Aspetta,» egli disse. «Aspetta. So che non siamo mai andati d’accordo. Ma fammi questo unico favore: non leggere la lettera fino a stanotte. D’accordo?» Nel suo dolore, sembrava dieci anni più vecchio. «Perché?» lei chiese. «La tua domanda preferita. Fammi solo quest’unica cortesia. E chiedere troppo?» «Hai ragione,» lei disse. «Non è chiedere troppo. Mi dispiace.» Lui la fissò direttamente negli occhi. «Qualunque cosa ti sia capitata in quella Macchina,» egli disse, «forse ti ha cambiato.» «Spero di sì, John.» Ellie telefonò a Joss e gli chiese se volesse celebrare il servizio funebre. «Non ho bisogno di dirle che non sono religiosa. Ma a volte mia madre lo era. Lei è l’unica persona cui possa pensare per un compito del genere e sono sicura che il mio patrigno approverà.» Sarebbe arrivato con il prossimo volo, l’assicurò Joss. Nella sua stanza d’albergo, dopo aver cenato presto, Ellie toccò la busta, accarezzando ogni piega. Era vecchia. Sua madre doveva averne scritto il contenuto anni prima, portandosela dietro in qualche scomparto della sua borsetta, incerta se consegnarla a Ellie. Non sembrava richiusa di recente, ed Ellie si chiese se Staughton l’avesse letta. Una parte di lei ardeva dalla voglia di aprirla, un’altra invece esitava per una sorta di presentimento. Sedette a lungo nella poltrona polverosa pensando, con le ginocchia avvicinate al mento. Suonò un campanello e il carrello non proprio silenzioso del suo telefax entrò in funzione. Era collegato al computer dell’Ar-gus. Benché le facesse venire in mente i vecchi giorni, non c’era nessuna vera urgenza. Qualsiasi cosa il computer avesse trovato sarebbe rimasta là; il pi greco non sarebbe tramontato mentre la Terra girava. Se c’era un messaggio celato all’interno del pi, l’avrebbe aspettata. Ellie esaminò di nuovo la busta, ma l’eco del campanello si intromise. Se c’era un contenuto all’interno di un numero trascendente, avrebbe potuto soltanto essere incorporato nella geometria dell’universo fin dall’inizio. Questo suo nuovo progetto rientrava nella teologia sperimentale. Ma è pur sempre scienza, pensò. «RESTARE ALL’APPARECCHIO,» fece apparire il computer sullo schermo del suo telefax. Pensò a suo padre… beh, al simulacro di suo padre… ai Guardiani con la loro rete di tunnel attraverso la Galassia. Avevano osservato e forse influenzato l’origine e lo sviluppo della vita su milioni di mondi. Stavano costruendo galassie, separando parti dell’universo. Potevano almeno controllare un tipo limitato di viaggio temporale. Erano dei al di là delle pie fantasie di quasi tutte le religioni: di tutte le religioni occidentali, a ogni modo. Ma anch’essi avevano le loro limitazioni. Non avevano costruito i tunnel e non erano in grado di farlo. Non avevano inserito il messaggio nei numeri trascendenti, e non potevano neppure leggerlo. I costruttori dei tunnel e gli inseritori del pi greco erano altri. Non vivevano più là. Erano partiti senza lasciare l’indirizzo. Quando i costruttori dei tunnel se ne erano andati, quelli che alla fine sarebbero stati i Guardiani, erano diventati bambini abbandonati. Come lei, come lei. Pensò all’ipotesi di Eda che i tunnel fossero buchi di verme, distribuiti a convenienti intervalli attorno a innumerevoli stelle in questa e in altre galassie. Assomigliavano ai buchi neri, ma avevano diverse caratteristiche e diverse origini. Erano non proprio senza massa, perché lei li aveva visti lasciare scie gravitazionali nei detriti orbitanti del sistema di Vega. E, servendosi di essi, esseri e astronavi di molti tipi attraversavano la Galassia da un punto all’altro. Buchi di verme. Nel gergo rivelatore della fisica teorica, l’universo era la loro mela e qualcuno vi aveva scavato delle gallerie, perforando l’interno con cunicoli che passavano per il torsolo. Per un bacillo che vivesse sulla superficie era un miracolo. Ma un essere che si trovasse all’esterno della mela poteva essere meno impressionato. Da quel punto di vista, i costruttori dei tunnel erano soltanto una seccatura. Ma se i costruttori dei tunnel sono vermi, pensò Ellie, chi siamo noi? Il computer dell’Argus aveva studiato a fondo il contenuto del pi greco, più a fondo di quanto lo avessero mai studiato sulla Terra creature umane o macchine, ma non così a fondo come avevano fatto i Guardiani. Secondo Ellie era troppo presto perché si potesse trattare del messaggio a lungo indecifrato di cui le aveva parlato Theodor Arroway sulla riva di quel mare che non compariva su nessuna carta geografica. Forse si trattava soltanto di uno stimolo ad accelerare, di un’anteprima di imminenti attrazioni, di un incoraggiamento a ulteriori esplorazioni, di un segno per impedire agli uomini di scoraggiarsi. Qualunque cosa fosse, non doveva assolutamente essere il messaggio con cui erano alle prese i Guardiani. Forse c’erano messaggi facili e messaggi difficili, racchiusi nei vari numeri trascendenti, e il computer dell’Argus aveva trovato il più facile. Con un certo aiuto. Alla Stazione Ellie aveva appreso una sorta di umiltà, aveva ricevuto un promemoria sul ben modesto grado di conoscenza degli abitanti della Terra. A parere di Ellie, ci potevano essere tante categorie di esseri più avanzati degli uomini quante ne esistono fra noi e le formiche, o forse addirittura tra noi e i bacilli. Ma la cosa non l’aveva depressa. Più che una disincantata rassegnazione, aveva fatto nascere in lei un crescente senso di meraviglia. Si poteva aspirare a cose ben più grandi, adesso. Era come il passo dalla scuola superiore al college, da qualcosa di una certa facilità alla necessità di fare uno sforzo prolungato e disciplinato per capire. Alla scuola superiore Ellie aveva superato quasi tutti in velocità di comprensione. Al college aveva scoperto che molti erano più veloci di lei. C’era stato lo stesso senso di crescente difficoltà e di sfida quando entrò alla scuola di perfezionamento, e quando divenne un astronomo professionista. A ogni stadio Ellie aveva trovato scienziati più istruiti di lei, e ogni stadio era stato più eccitante del precedente. Lasciamo che le rivelazioni arrivino, pensò, guardando il telefax. Era pronta. «PROBLEMA DI TRASMISSIONE. S/N. PREGO RESTARE ALL’APPARECCHIO.» Era collegata al computer dell’Argus da un satellite per telecomunicazioni chiamato «Defcom Alpha». Forse c’era stato un problema di controllo di assetto, o un pasticcio di programmazione. Prima di poterci pensare ancora su, quasi senza accorger-sene aveva aperto la busta. ARROWAY FERRAMENTA, diceva l’intestazione, e quasi certamente i caratteri tipografici erano quelli della carta da lettere «Old Royal» che suo padre teneva a casa per la corrispondenza commerciale e personale. «13 giugno 1964» era scritto a macchina nell’angolo superiore destro. Lei era una quindicenne, a quel tempo. Non poteva averla scritta suo padre, che era già morto da anni. Un’occhiata in fondo alla pagina confermò che si trattava di sua madre Mia cara Ellie, Ora che sono morta, spero che tu possa trovare nel tuo cuore la volontà di perdonarmi. So di aver commesso una grave colpa nei tuoi confronti, e non solo nei tuoi. Non potevo tollerare l’idea di quanto mi avresti odiata se avessi saputo la verità. Ecco perché non ho avuto il coraggio di rivelartela quand’ero in vita. So quanto hai amato Ted Arroway, e voglio che tu sappia che l’ho amato anch’io. E lo amo ancora. Ma non era il tuo vero padre. Il tuo vero padre è John Staughton. Ho fatto qualcosa di sbagliatissimo. Non avrei dovuto e sono stata debole, ma se non lo avessi fatto, tu non saresti al mondo, perciò ti prego di pensare a me con affetto. Ted lo sapeva e mi aveva concesso il suo perdono e decidemmo insieme che non te lo avremmo mai detto. Ma guardo fuori dalla finestra proprio in questo momento e ti vedo nel cortile dietro casa. Te ne stai seduta là pensando alle stelle e a cose che non potrei mai capire e sono così fiera di te. Tu dai così importanza alla verità che ho pensato fosse giusto che dovessi conoscere questa verità sul tuo conto. La tua origine, intendo dire. Se John sarà ancora vivo, allora sarà lui che ti avrà consegnato questa lettera. So che lo farà. E’ un uomo migliore di quanto tu non creda, Ellie. Sono stata fortunata ad averlo ritrovato. Forse tu lo odi tanto perché nel tuo intimo presagivi la verità. Ma in realtà lo detesti perché non è Theodore Arroway. Lo so. Sei ancora seduta là fuori. Non ti sei mossa da quando ho cominciato questa lettera. Sei assorta nei tuoi pensieri. Spero e prego che tu possa trovare quello che vai cercando. Perdonami. Sono stata solo un essere umano. Con amore, la tua mamma Ellie aveva assimilato la lettera d’un fiato e la rilesse immediatamente. Respirava con difficoltà. Aveva le mani fredde e sudaticce. L’impostore si era rivelato esattamente l’opposto. Per la maggior parte della sua vita, lei aveva respinto il proprio padre, senza la più vaga idea di ciò che stava facendo. Che forza di carattere aveva dimostrato John durante tutte quelle esplosioni adolescenziali, quando lei gli rinfacciava di non essere suo padre, di non avere nessun diritto di dirle quello che doveva fare. Il telefax squillò di nuovo, due volte. Stava ora invitandola a premere il tasto RITORNO. Ma non aveva voglia di farlo. Avrebbe dovuto attendere. Pensava a suo pa… a Theodore Arroway, a John Staughton e a sua madre. Avevano sacrificato molto per lei, e lei, nel suo chiuso egoismo, non se ne era nemmeno accorta. Avrebbe voluto che Palmer fosse lì con lei. Il telefax squillò ancora una volta e il carrello tentò di muoversi, sperimentalmente. Ellie aveva programmato il computer a essere ostinato, persino un po’ innovativo, nell’attrarre la sua attenzione se pensava di aver trovato qualcosa nel pi greco. Ma era troppo occupata nello sviscerare e nel ricostruire la mitologia della sua vita. Sua madre era seduta alla scrivania della grande camera da letto in cima alle scale e guardava fuori dalla finestra mentre pensava a quello che doveva scrivere e il suo sguardo si era posato su Ellie quindicenne, sgradevole, piena di risentimento, ribelle. Sua madre le aveva fatto un altro regalo. Con quella lettera, Ellie era ritornata indietro e si era rivista com’era in quegli anni lontani. Aveva imparato tanto da allora. Ma c’era ancora tanto da imparare. Sul tavolo su cui si trovava il ronzante telefax c’era uno specchio. In esso vide una donna di mezza età, né giovane né vecchia, né madre né figlia. Avevano avuto ragione a tenerle celata la verità. Non era abbastanza avanzata per ricevere quel segnale, tanto meno per decifrarlo. Aveva dedicato la sua carriera al tentativo di mettersi in contatto con i più remoti e alieni degli stranieri, mentre nella sua vita privata era riuscita a malapena a mettersi in contatto con qualcuno. Era stata accanita nello smontare i miti della creazione degli altri, e inconsapevole della menzogna che si trovava alla base del suo. Aveva studiato l’universo per tutta la vita, ma aveva trascurato il messaggio più chiaro: per creature piccole come noi, l’immensità è sopportabile solamente con l’amore. Il computer dell’Argus era così ostinato e inventivo nei suoi tentativi di contattare Eleanor Arroway che quasi suggeriva un urgente bisogno personale di dividere con qualcuno la sua scoperta. L’anomalia si manifestava con maggiore evidenza nell’aritmetica a base 11, dove poteva essere trascritta interamente come zeri e unità. Confrontato con quello che era stato ricevuto da Vega, questo poteva essere al massimo un messaggio semplice, ma la sua rilevanza statistica era notevole. Il programma riuniva le cifre in un percorso di scansione quadrato, una quantità uguale da un capo all’altro e sotto. La prima riga era una fila ininterrotta di zeri, da sinistra a destra. La seconda riga mostrava un solo uno, esattamente al centro, con zeri ai lati, a sinistra e a destra. Dopo alcune altre righe, si era formato un inequivocabile arco, composto di unità. La semplice figura geometrica era stata costruita rapidamente, riga per riga, autoriflessiva, ricca di promesse. Emerse l’ultima riga della figura, tutti zeri tranne un solitario uno al centro. La linea susseguente era soltanto di zeri, parte della comice. Celato negli schemi che si alternavano di cifre, profondamente all’interno del numero trascendente, c’era un cerchio perfetto, dalla forma tracciata da unità in un campo di zeri. L’universo era stato creato intenzionalmente, diceva il cerchio. In qualunque galassia ci si trovi, si prende la circonferenza di un cerchio, la si divide per il suo diametro, si fa un calcolo abbastanza accurato e si scopre un miracolo: un altro cerchio, disegnato chilometri più in giù della virgola decimale. Proseguendo, ci sarebbero stati messaggi più ricchi. Non importa l’aspetto che si ha, o di che cosa si è fatti o da dove si proviene. Finché si vive in questo universo, e si possiede un modesto talento per la matematica, prima o poi la si troverà. E già qui. E all’interno di tutto. Non si è obbligati a lasciare il proprio pianeta per trovarla. Nella struttura dello spazio e nella natura della materia, come in una grande opera d’arte, c’è, scrìtta in piccolo, la firma dell’artista. Sopravanzando gli uomini, gli dei e i demoni, includendo 1 Guardiani i Costruttori dei tunnel, c’è un’intelligenza che precede l’universo. Il cerchio si era chiuso. Ellie aveva trovato ciò che era andata cercando. NOTA DELL’AUTORE Benché sia stato naturalmente influenzato da quelli che conosco, nessuno dei personaggi del mio romanzo rappresenta un ritratto fedele di qualcuno realmente esistente. Tuttavia, il mio libro deve molto alla comunità mondiale SETI, un gruppetto di scienziati di ogni angolo del nostro piccolo pianeta che lavorano insieme, talvolta costretti a fronteggiare ostacoli scoraggianti, in attesa di sentire un segnale dai cicli. Vorrei rivolgere un ringraziamento speciale ai pionieri di SETI, Frank Drake, Philip Morrison e allo scomparso I.S. Shklovskii. La ricerca di intelligenze extraterrestri sta ora entrando in una nuova fase, con due programmi importanti in corso, l’esame META/Sentinel con otto milioni di canali all’Università di Harvard, sponsorizzato dalla Società Planetaria che ha sede a Pasadena, e un programma ancora più elaborato sotto gli auspici della NASA. La mia speranza più viva è che questo mio libro sia reso obsoleto dal ritmo della vera scoperta scientifica. Parecchi amici e colleghi sono stati tanto gentili da leggere la prima stesura e/o di formulare dettagliati commenti che hanno influenzato la presente forma del libro. Sono profondamente grato, tra gli altri, a Frank Drake, Pearl Druyan, Lester Grinspoon, Irving Gruber, Jon Lomberg, Philip Morrison, Nancy Palmer, Will Provine, Stuart Shapiro, Steven Soter e Kip Thorne. Il pro-fessor Thorne si è preso la briga di considerare il sistema di trasporto galattico descritto nella terza parte di Contati, tracciando cinquanta righe di equazioni nel campo della fisica gravitazionale. Ùtili consigli e suggerimenti circa il contenuto o lo stile mi sono venuti da Scott Meredith, Michael Korda, John Herman, Gregory Weber, Clifton Fadiman e dallo scomparso Theodore Sturgeon. Nei vari stadi della preparazione di questo libro, Shirley Arden ha lavorato a lungo e in maniera perfetta; sono molto riconoscente a lei e a Kel Arden. Ringrazio Joshua Lederberg per avermi suggerito per primo molti anni fa e forse per gioco che un’alta forma di intelligenza potrebbe vivere al centro della Galassia. L’idea ha degli antecedenti, come ne hanno tutte le idee, e qualcosa di simile sembra esser stato immaginato attorno al 1750 da Thomas Wright, il primo a dire esplicitamente che la Galassia potesse avere un centro. Contact è l’ampliamento di un trattamento per un film scritto da me e da Ann Druyan nel 1980-81. Lynda Obst e Gentry Lee resero facile quella prima fase. A ogni stadio della stesura di questo romanzo sono stato aiutato moltissimo da Ann Druyan, dalla primissima concettualizzazione della trama e dei personaggi principali fino alla stampa definitiva. Ciò che ho appreso da lei è quanto ho di più caro della composizione del mio libro. 1985 FINE